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Autore: Milly_Sunshine    24/10/2023    3 recensioni
Kay è una giornalista radiofonica affermata e conduce un programma di cronaca, accerchiata da un entourage di fedelissimi, il marito Anthony, a sua volta giornalista, il loro collega Samuel e l'assistente Theresa. Fissata con i crimini irrisolti, matura un'ossessione insolita nei confronti dell'omicidio di un'anziana locandiera che le costa a sua volta la vita. Kay si ritrova a sua volta vittima di un delitto, lasciando le persone che le stavano intorno, oltre che la collega Rebecca, con la quale aveva una feroce rivalità appianata soltanto nelle sue ultime settimane di vita, a interrogarsi su chi l'abbia eliminata e perché, su chi fosse la femme fatale che si aggirava presso la sede della radio il giorno prima del delitto, oltre che sulle ragioni per cui fosse così in fissa con lo specifico caso della locandiera assassinata. // Long fiction scritta nel 2015 sulla base di un'idea già in parte sviluppata cinque anni prima, unisce elementi del giallo classico e del thriller.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Penny aveva appena messo giù il telefono, quando vide Samuel avanzare verso di lei. Di base, in quelle circostanze, era felice; in quella particolare occasione, invece, si rese conto di essere più spiazzata di quanto avrebbe desiderato.
Era successo qualcosa?
Non era bello porsi domande di quel genere, che lasciavano intendere che tutto potesse andare a rotoli da un momento all’altro, ma Penny non poteva farne a meno. Kay Brooks, la sua amica Kay Brooks, era stata assassinata e nessuno di loro poteva ritenersi davvero al sicuro.
“O meglio, io sì.”
Penny sapeva di essere, agli occhi di tutti, una presenza insignificante, che serviva più ad abbellire l’entrata che ad altro. Non importava che molti la apprezzassero: dopotutto in tanti apprezzavano anche ciò che non era loro utile.
«Penny, ti prego, ho bisogno di te!»
Le parve quasi che Samuel la stesse implorando.
«Cos’è successo?»
«Cerca il numero di Theresa!» la pregò Samuel. «Chiamala!»
«Theresa...» mormorò Penny. «È andata a casa circa mezz’ora fa, forse un po’ di più. Non si sentiva bene, mi ha detto.»
Samuel non parve per nulla interessato a quella ricostruzione.
«Cerca quel dannato numero e chiamala!» ribadì. «È importante. Fallo subito.»
Penny spalancò gli occhi.
«Mi stai dicendo che Theresa è in pericolo?»
«Ti sto dicendo di cercare quel fottuto numero, di sollevare quella fottuta cornetta e di chiamarla!» sbottò Samuel. «Theresa ha sempre detto che sei una cretina, ma credo che tu possa arrivare a capire almeno questo!»
Penny avvertì una fitta allo stomaco.
Era la prima volta che Samuel si rivolgeva a lei con quel tono.
Era la prima volta, ma era sufficiente a far crollare tutte le sue speranze.
«Scusami.»
Samuel sospirò.
«Ti prego, Penny, non c’è tempo da perdere. Non fare domande e cerca di metterti in contatto con Theresa.»
Per quanto le costasse, Penny si rassegnò.
Non doveva fare domande.
Non doveva occuparsi di ciò che contava davvero.
Anche Samuel era come tutti gli altri. In certi momenti le era sembrato che lui si fidasse di lei, che pensasse davvero che lei potesse aiutarlo... Non era mai stato così e la sola idea di aiutarlo a mettersi in contatto con quella stronza di Theresa la disgustava.
Ad ogni modo, non c’erano vie di fuga.
Doveva cercare il numero.
Doveva chiamare Theresa.
Doveva mettere Theresa in contatto con Samuel.
Era quello il suo ruolo, null’altro, poco importava che avesse sempre sognato di ottenere qualcosa di più.
Forse aveva ragione Michelle, quando sosteneva che Radio Scarlet era un covo di menefreghisti e che andarsene sarebbe stata la cosa migliore da fare.
Penny sapeva dov’era il numero privato di Theresa.
Lo compose.
Rimase in attesa.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
Quattro squilli...
Continuò ad aspettare, ma invano.
«Niente» mormorò, nel momento in cui la linea cadde. «Non ha risposto. Penso che non sia in casa. Stava male. Magari è dal medico o in farmacia.»
Samuel scosse la testa.
«No, Theresa non stava davvero male.»
Era la prima volta, in quegli ultimi minuti, in cui si rivolgeva a lei con un tono né troppo esasperato né troppo scorbutico.
«Perché avrebbe dovuto mentire?» domandò Penny, rincuorata dal nuovo atteggiamento di Samuel. «Mi spieghi che cosa sta succedendo?»
Lui abbassò lo sguardo.
«Non so che cosa stia succedendo. So solo che mi rendo conto di non averla mai conosciuta davvero.»

Era finita, Theresa lo sapeva.
Rebecca l’aveva smascherata, e tutto per quel dannato Wordpower e per il suo colore di sfondo.
Tutto era andato nel peggiore dei modi, nonostante la fiducia che aveva avuto fin dal primo momento in cui era riuscita a lasciare l’archivio senza che nessuno si accorgesse di lei. Erano tutti concentrati sull’orribile scoperta che avevano appena fatto. Veronica e Raymond si erano precipitati al pianoterra. Seguire le istruzioni si era rivelato più semplice che mai, anche perché Theresa aveva passato tutta la notte e le prime ore del mattino a desiderare di potersi allontanare dal cadavere.
Dentro di sé, si era convinta che tutto potesse risolversi.
Kay era morta, ma non si sentiva responsabile. Le aveva soltanto somministrato un sonnifero. Aveva obbedito a un ordine, affascinata dalla possibilità di sbarazzarsi di Kay, in un senso molto più metaforico.
Aveva sognato un mondo in cui Kay Brooks sfruttava la propria posizione e un finto desiderio di giustizia per rovinare la vita a chi si era messo contro di lei.
Aveva sognato un mondo in cui Kay Brooks sarebbe finalmente apparsa per quello che era... ma era stata solo un’illusione, perché Kay non aveva desiderato altro che far luce su un caso di cronaca rimasto irrisolto.
Seduta sui gradini, davanti alla porta dell’appartamento di Samuel, lo aspettava.
Doveva parlargli.
Doveva spiegargli cos’era successo... o forse no.
“Samuel mi odia, adesso.”
Purtroppo Kay gli interessava davvero. Se così non fosse stato, avrebbero potuto vivere in un mondo illusorio, in cui la morte di Kay sarebbe rimasta un suicidio.
Tutto sommato non le era dispiaciuto liberarsi di lei. Per quanto Rebecca non le fosse mai piaciuta, almeno tra lei e Samuel c’era soltanto un rapporto professionale.
Non le importava che Samuel e Kay, in realtà, non fossero mai andati a letto insieme. Il solo fatto che Samuel avesse sempre preferito Kay a lei, era sufficiente per non essere addolorata dalla sua morte.
A dispiacerle era soltanto di essere stata costretta a sporcarsi le mani per sbarazzarsene, il che non sarebbe stato nemmeno così terribile, se solo non avesse comportato di perdere irreparabilmente l’affetto di Samuel.
Doveva andarsene.
Doveva sparire per sempre, in un luogo in cui lui non potesse vederla mai più, né viva né morta, e magari dimenticarsi di lei.
“No, non lo farà.”
Non ce l’avrebbe fatta.
Ancorato com’era al ricordo di Kay, gli sarebbe rimasto impresso tutto quello che era accaduto.
L’unica ragione per cui pentirsi di quello che aveva fatto, realizzò Theresa, era che, perfino da morta, Kay continuava a condizionare la vita di tutti quelli che le stavano intorno.
Li distruggeva, uno dopo l’altro.
Li distruggeva, senza che nessuno la fermasse.
Samuel voleva la verità.
Theresa si alzò di scatto e si precipitò giù dalle scale.

Rebecca teneva lo sguardo fisso sulla scrivania.
«Non mi sento pronta.»
Anthony sospirò.
«Non dire sciocchezze. È solo una trasmissione come tutte le altre. E poi arrivarci in fondo prima di me era esattamente quello che volevi.»
Rebecca arrossì.
«Che cosa te lo fa pensare?»
«Tu me lo fai pensare» puntualizzò Anthony, avvicinandosi a lei. «Tu e Kay vi siete sempre somigliate più di quanto abbiate mai desiderato. È chiaro che avresti desiderato essere la prima a capire cos’era accaduto.»
«Tu, però, ci sei arrivato prima di me» replicò Rebecca, «E, nonostante tutto, mi sembri abbastanza impassibile.»
«Cos’avrei dovuto fare?» obiettò Anthony. «Precipitarmi a cercare Theresa come ha intenzione di fare Samuel?»
«A proposito di Samuel» volle sapere Rebecca, «Che cosa ne pensi di lui? Credi davvero che sia...» Esitò. «...coinvolto?»
Anthony sbuffò.
«Non so più niente, Rebecca! Non so né chi stia da una parte né chi stia dall’altra. So solo che, tra tutte le persone che ci sono qua dentro, Theresa non mi sembra capace di architettare tutta questa storia da sola.»
«Infatti non era da sola» puntualizzò Rebecca. «È ragionevole ipotizzare che lei fosse soltanto l’ultima pedina. Magari non sapeva nemmeno che somministrare quel sonnifero a Kay fosse letale. Dopotutto non è il genere di persona che avvelenerebbe chicchessia dietro compenso.»
«No» convenne Anthony. «Può darsi che, per qualche verso, all’inizio non volesse farlo. Eppure non ha mosso un dito per fermare chi c’era dietro, non appena tutto le è stato chiaro.»
«Tu cosa faresti?» obiettò Rebecca. «Ti lasceresti accusare di un omicidio che non avevi intenzione di commettere?»
Anthony le lanciò un’occhiata di fuoco.
«Cos’avrei fatto al posto di Theresa? Beh, io non mi sarei mai ritrovato in quella posizione. Non somministro farmaci ad altre persone a loro insaputa, io!»

Theresa ignorò ogni sguardo, mentre correva verso la propria automobile.
Non voleva soltanto allontanarsi, ma desiderava anche raggiungere l’unica persona che avrebbe potuto aiutarla.
“Dovrà farlo.”
Chi l’aveva distrutta, aveva il dovere di riportarla in vita.
Aprì la portiera, salì a bordo e la richiuse.
Non si preoccupò di allacciare la cintura di sicurezza. Tutto ciò che contava era capire come sarebbe andata a finire.
Theresa accese il motore e partì.
Si sforzò di guardare la strada, ma si rese conto di quanto fosse difficile.
“Eppure devo farcela.”
Quasi quindici chilometri la separavano dalla topaia in cui abitava sua sorella e non poteva permettersi di perdere la concentrazione.
Quel pensiero la fece sorridere.
Sua sorella non aveva fatto una fine migliore della sua. Entrambe avevano cercato di dare una svolta alla loro vita, ma non ce l’avevano fatta.
Erano due perdenti.
Erano due perdenti che uccidevano per fare la loro parte in giochi di potere da cui non avrebbero mai guadagnato nulla.
Soltanto una di loro si rendeva conto di come stessero le cose, ricordò Theresa a se stessa, per infondersi un po’ di fiducia.
«Sono io quella che capisce fino a che punto può spingersi.»
Non servì a nulla.
Era soltanto un delirio, il suo.
Sua sorella le aveva chiesto di avvelenare Kay Brooks e lei l’aveva fatto, non c’era molto da discutere.
Non aveva voluto ucciderla, ma si era scoperta soddisfatta dell’azione che aveva commesso, almeno finché quella stronza di Rebecca non aveva deciso di intromettersi.
A quel punto la vita fatta di finzione che aveva vissuto per settimane si era sgretolata tra le sue mani.
Non aveva niente in più di sua sorella.
Stava per implorare il suo aiuto, dimostrandosi ancora una volta una nullità.
Quello era il peggiore dei fallimenti.

Samuel lo capiva: Penny lo guardava con occhi critici, ormai stanca di comporre sempre lo stesso numero.
«Perché insisti?» volle sapere. «Non mi hai ancora spiegato esattamente che cosa sia successo. Perché hai bisogno di rintracciarla?»
Giustamente, Penny cercava risposte.
Samuel non poteva dargliele.
«Ho bisogno di lei perché temo che abbia fatto una cosa terribile. Io voglio...» Rifletté. Che cosa desiderava davvero? «Io voglio aiutarla.»
No, non lo desiderava affatto.
L’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stata gettarle addosso tutto il proprio disprezzo, se non fosse riuscita a dimostrargli che le accuse erano infondate.
Theresa non meritava aiuto.
Chi uccideva e si fingeva irreprensibile non meritava aiuto.
«È molto gentile da parte tua» osservò Penny. «Molti altri, al posto tuo, vorrebbero stare più lontani che possono da lei.»
Samuel non pensò nemmeno per un attimo che Penny avesse intuito qualcosa. Quella ragazza vedeva Theresa come un’avversaria; era sempre stato così e nulla sarebbe mutato, nemmeno se la verità di Rebecca fosse venuta alla luce.
Samuel rabbrividì, nel rendersi conto che, per lui, Theresa era già condannata.
Perso in quelle riflessioni, dimenticò che Penny era in attesa di una risposta.
«Mi dispiace» mormorò lei. «A volte non riesco a trattenermi dal dire quello che penso, anche quando non dovrei.»
«Non c’è niente di sbagliato» replicò Samuel, «Nel dire quello che pensi.»
Penny scosse la testa.
«Non dovrei farlo. Non quando si tratta della tua fidanzata, almeno.»
Quella definizione trafisse Samuel come una coltellata.
«No.»
Penny lo guardò con aria interrogativa.
«Non state più insieme?»
Samuel abbassò lo sguardo.
«È difficile da spiegare, Penny. Il nostro è sempre stato un rapporto complicato.»
«Me ne sono accorta. Non preoccuparti, ti capisco.»
Samuel riuscì perfino a sorridere.
«Beata te, perché non riesco a capire nemmeno io.»

Theresa ce l’aveva fatta, era arrivata. Non le restava che sperare che sua sorella fosse in casa. Era molto probabile che ci fosse, impegnata a farsi fantasie sul giorno in cui, vestita di bianco, avrebbe raggiunto l’“amato” all’altare, se mai quel momento fosse arrivato. Una volta raggiunto quel traguardo, avrebbe iniziato senz’altro a farsi fantasie sul giorno in cui il suo abito non sarebbe stato bianco ma nero e ad attenderla all’altare avrebbe trovato soltanto una bara. Theresa sapeva che sua sorella frequentava qualcuno, ma l’unica attrazione che provava nei suoi confronti era di tipo economico.
“Lei non saprò mai cos’è il vero amore. Non saprà mai come mi sento ogni volta in cui vedo Samuel.”
Theresa si irrigidì.
Non l’avrebbe visto mai più.
Non avrebbe mai più avuto niente a che fare con lui.
La vita, per lei, non avrebbe più avuto alcun senso, ma non aveva alternative.
Scese dalla macchina e richiuse violentemente la portiera, prima di dirigersi in gran fretta a destinazione.
Si attaccò al campanello e iniziò a premerlo con frenesia.
Tutto continuava a portarla al suo chiodo fisso.
Samuel, Samuel, Samuel... era come se non ci fosse mai stato nient’altro che Samuel, nella sua vita, e quella consapevolezza le faceva venire voglia di vomitare.
Doveva trattenersi.
Doveva resistere, perché non sarebbe stata sola: di lì a poco sua sorella le avrebbe aperto la porta e le avrebbe indicato la strada da seguire.
Le sfuggì una risata ricordando il momento in cui aveva fatto credere a Samuel che fosse morta. Lui non gli aveva posto ulteriori domande e, per qualche istante, si era sentita come se lo fosse stata davvero.
Le sembrava che fosse passato un secolo, da quel momento, invece erano trascorsi appena nove giorni.
Premette ancora il campanello con foga.
Aveva bisogno di una risposta.
Aveva bisogno di qualcuno, che la salvasse dal buio in cui stava precipitando.
«Chi è?» domandò una voce che, in quel momento, le diede un’immensa sicurezza.
«Sono Theresa. Aprimi, ti prego.»
Sua sorella ascoltò la sua supplica e diede il tiro.
Theresa spinse la porta e varcò la soglia.
Doveva solo salire le scale.
Di lì a poco, in un modo o nell’altro, tutto avrebbe avuto una fine.
Quando giunse sul pianerottolo, sua sorella la aspettava sullo stipite, come al solito agghindata come se avesse dovuto partecipare a una serata di gala.
«Buonasera Theresa. È un piacere vederti da queste parte.»
Parlava con quel solito tono teatrale che Theresa non aveva mai sopportato, quindi era meglio venire al dunque e farle capire che la situazione era disperata.
«Rebecca Shepard mi ha scoperta.»
«Sii più chiara» la pregò sua sorella. «Cos’è capitato?»
«È capitato che Rebecca non l’ha detto chiaro e tondo, ma mi ha fatto capire che sa che cos’ho fatto. Solo tu puoi aiutarmi.»
L’altra rise.
«Fammi indovinare. Vuoi che mi inventi una scusa che tu ripeterai a Samuel, per fargli capire che tu non avresti mai fatto del male alla sua amata?»
Theresa abbassò lo sguardo.
«Non prendermi in giro. Sai cosa intendo.»
«Sì, so cosa intendi: vuoi dire che, in un momento o in un altro, hai combinato qualche casino. Adesso vuoi che lo risolva. Entra in casa. Vedrò cosa posso fare per aiutarti.»
Theresa non trovò il coraggio di guardarla negli occhi.
«Grazie, Avah.»

   
 
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