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Autore: Milly_Sunshine    26/10/2023    3 recensioni
Kay è una giornalista radiofonica affermata e conduce un programma di cronaca, accerchiata da un entourage di fedelissimi, il marito Anthony, a sua volta giornalista, il loro collega Samuel e l'assistente Theresa. Fissata con i crimini irrisolti, matura un'ossessione insolita nei confronti dell'omicidio di un'anziana locandiera che le costa a sua volta la vita. Kay si ritrova a sua volta vittima di un delitto, lasciando le persone che le stavano intorno, oltre che la collega Rebecca, con la quale aveva una feroce rivalità appianata soltanto nelle sue ultime settimane di vita, a interrogarsi su chi l'abbia eliminata e perché, su chi fosse la femme fatale che si aggirava presso la sede della radio il giorno prima del delitto, oltre che sulle ragioni per cui fosse così in fissa con lo specifico caso della locandiera assassinata. // Long fiction scritta nel 2015 sulla base di un'idea già in parte sviluppata cinque anni prima, unisce elementi del giallo classico e del thriller.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Avah non si girò a guardare Albert.
Appoggiò i gomiti al tavolo mentre gli ripeteva, ancora una volta: «È tutto a posto. Ti assicuro che va tutto bene.»
La mano di Albert le sfiorò la spalla destra.
«Stavolta è diverso.»
«No, non è diverso» obiettò Avah. «Non è stata la prima volta. Se ho resistito con il padre di Raymond...»
«Quello è stato molto tempo fa» puntualizzò Albert, «E se lo meritava, dopo quello che ti ha fatto. Stavolta...»
«Anche lei se lo meritava» replicò Avah. «Doveva fare un lavoro semplicissimo, dal quale lei stessa avrebbe tratto solo dei vantaggi...»
«Vantaggi tipo avere la coscienza sporca?»
In un’altra occasione, Avah avrebbe riso di quella battuta. Quella sera, però, non era una sera come tutte le altre.
«No, Albert, Theresa si è fatta molti meno scrupoli di quanto tu possa immaginare. Kay Brooks non le piaceva. È vero, l’idea di essere stata proprio lei a causarne la morte non le è andata giù tanto facilmente, ma ha superato ben presto lo shock, quando si è accorta che vivere senza Kay era molto meglio che vivere con Kay.»
«Non mi aspettavo che tua sorella fosse così cinica.»
«Se non lo fosse stata, non avrei permesso che fosse proprio lei ad agire in prima persona» precisò Avah. «Tu non eri d’accordo, all’inizio.»
«Effettivamente non avevo tutti i torti.»
«No.»
«Comunque, grazie al tuo rapido intervento, dovrebbe essere tutto risolto» realizzò Albert. «Forse sarebbe opportuno che tu ti allontanassi da Scarlet Bay per un po’. Magari qualcuno potrebbe arrivare a te e...»
Avah lo interruppe: «Sì, qualcuno potrebbe arrivare a me, ma cos’avrebbe contro di me? Sono la sorella di Theresa Silver, una poveretta che ha commesso un omicidio, non si sa per quale assurda ragione. Obiettivamente parlando, Theresa avrebbe potuto sapere dell’allergia della Brooks. Magari Kay non si confidava con lei su queste cose, magari non pensava nemmeno più a quel dannato farmaco... ma chi potrà dimostrarlo?»
«Sì, nessuno può dimostrarlo» ammise Albert, «Ma, stando a quanto ti ha riferito tua sorella, non hanno prove schiaccianti contro di lei.»
«Questo no.»
«È già un problema. Quei detective dilettanti potrebbero spingersi oltre, e la cosa non va affatto bene.»
Avah sospirò.
«Devi stare tranquillo, Albert.»
Lui le afferrò i capelli e diede loro una lieve ma intensa tirata.
«Phil.»
«Devi stare tranquillo, Phil» si corresse Avah. «Sei soddisfatto, adesso?»
«Sarei molto più soddisfatto se tu non ti rivolgessi a me chiamandomi Albert almeno tre o quattro volte al giorno. Se proprio non ti va giù il mio nuovo nome, perché non mi chiami tesoro o amore o con qualche altro nomignolo del genere?»
«Perché preferirei morire, piuttosto che farlo. E poi non vedo che cosa sia successo di grave. Siamo soli, Albert.»
Il telefono iniziò a squillare.
«Non lo siamo più.»
«È solo uno scocciatore» replicò Avah. «Ci vorrà poco per liberarsene.»
«È uno scocciatore che chiama alle...» Albert esitò un attimo, come se stesse controllando l’ora sull’orologio che portava al polso. «...alle undici e trentacinque di sera. Non mi sembra una cosa molto normale.»
«Non venirmi a parlare di normalità!» ribatté Avah. «Ormai non sappiamo nemmeno più che cosa sia.»
«Devo darti ragione. Ora scusami, ma vado a rispondere.»
Avah non si girò nemmeno per guardarlo uscire dalla stanza.
Lo sentì chiudere la porta, come faceva sempre, quando arrivavano telefonate a orari troppo inconsueti.
Albert aveva qualcosa da nascondere, Avah lo sapeva.
Ovviamente aveva qualcosa da nascondere, certo, ma non si trattava soltanto dell’identità rubata e dei crimini che aveva sulla coscienza, sempre ammesso che ne avesse una: c’era qualcuno che lo tormentava, e il telefono, che a volte stava muto per settimane, di tanto in tanto ricominciava a dare segni di vita.

Harriet era seduta sul bordo del letto e aspettava.
Era curioso che Albert non avesse ancora deciso di cambiare numero telefonico.
“Se fossi stata al posto suo” rifletté Harriet, “l’avrei fatto... a meno che non fossi stata terrorizzata dalle conseguenze.”
Albert era spaventato.
Albert era nelle sue mani.
Doveva essere stato lui ad assicurarsi che John si buttasse giù - in senso metaforico, perché Harriet lo conosceva abbastanza bene da sapere che non si sarebbe mai suicidato - dal cavalcavia; lui o qualcuno che gli stava intorno, come ad esempio quella donna che con lui sembrava fare coppia fissa.
Doveva essere un’arrivista come lui, per accettare di frequentare un uomo del genere.
Forse lo ricattava anche lei, minacciando di rivelare al mondo i suoi segreti, se lui non l’avesse mantenuta.
“O forse sono io che sto fantasticando troppo.”
C’erano donne senza un soldo che, in cambio di una vita agiata, erano disposte a non fare mai troppe domande e Harriet non doveva dimenticare che, per chi lo conosceva nella sua nuova identità, Albert non era altro che un uomo d’affari rispettabile, che si era sempre tenuto lontano da ogni scandalo.
Prima o poi quella commedia sarebbe finita, ma Harriet sapeva di non dovere anticipare i tempi. John aveva provato a incastrarlo, a quanto pareva dalle ricostruzioni di Suzanne, che continuava comunque a ignorare buona parte di quella storia, ma non ne era stato in grado e si era lasciato attirare in una trappola.
“Io non farò lo stesso errore.”
Harriet sapeva di dovere attendere.
In quel momento, per l’esattezza, doveva attendere che Albert le rispondesse.
L’avrebbe fatto.
Quando era in casa, lo faceva sempre.
A quell’ora non era difficile trovarlo.
Harriet avvertì un brivido di soddisfazione, nel momento in cui l’altro alzò il ricevitore.
«Sì?»
Harriet sorrise, compiaciuta.
«Albert?»
Per lui doveva essere sempre un duro colpo, sentirsi chiamare con il nome che da quindici anni stava cercando di dimenticare.
«Harriet?»
«Sì, sono io» gli assicurò lei. «Nessun altro ti chiama Albert... per ora.»
«Cosa vuoi?»
«Cerca di fare uno sforzo» gli suggerì Harriet. «Non dovrebbe essere così difficile capirlo. Quello che è successo a John...»
Albert la interruppe: «Non so di chi tu stia parlando, quindi ti prego di farmi la cortesia di essere più specifica... anzi, no: gradirei che tu mi lasciassi in pace una volta per tutte.»
«Dovresti essere più specifico anche tu: vuoi sapere o non vuoi sapere?» ribatté Harriet. «In realtà credo che tu sappia perfettamente. Parlo di mio genero, John Brooks.»
«Ho letto il nome, sui giornali.»
«Quindi sai cosa gli è successo.»
«Sì, e mi dispiace per lui. Quello che non capisco è perché tu dovresti sentirti autorizzata a chiamarmi alle undici e mezza passate per questo. Io e te non abbiamo niente da dirci nemmeno di giorno, Harriet, figuriamoci a quest’ora.»
«Invece ho molte cose da dire» insisté Harriet, «Per esempio che so per quale motivo John si è ritrovato oltre il parapetto di quel dannato cavalcavia. So che aveva una videocassetta, con sé... o meglio, che ce l’aveva prima di fare quel volo.»
«Harriet, smettila» la pregò Albert. «Non hai niente da guadagnarci, nel fare tutte queste strane allusioni.»
«Non sono strane allusioni. Tu sai perfettamente di che cosa sto parlando. Smettila di recitare una parte, con me.»
«E va bene» ammise Albert, «So di che cosa stai parlando. A maggior ragione dovresti capire benissimo anche tu che è meglio evitare certi discorsi. Hai sempre finto di non sapere ed è sempre convenuto a tutti e due. Continua a farlo e continuerai a vedere i frutti della nostra collaborazione. Lo sai, sono un uomo di parola.»
Harriet raggelò.
Albert le stava proponendo un accordo.
«Intendi darmi dei soldi?» gli domandò. «Sono questi i frutti della nostra collaborazione?»
«Mi pare evidente. Quanto ti serve per salvare quella locanda fatiscente?»
Era una proposta che la tentava.
«Lasciami riflettere. Se per te va bene, ti richiamo domani sera. Non ho ancora deciso quanto vale la vita di John.»

Albert rientrò in soggiorno imprecando, ma ancora una volta Avah non si voltò.
«Tutto bene?»
La sua voce appariva più piatta che mai. Albert era sicuro che quanto accaduto con sua sorella l’avesse traumatizzata più di quanto volesse dare a vedere.
«No, non c’è niente che va bene» replicò, afferrando la sedia alla destra di Avah e tirandola indietro. «Quella stronza...»
Finalmente la vide alzare gli occhi verso di lui.
«Di chi parli?»
Albert si sedette.
«Harriet Harrison.»
«La suocera di John Brooks?»
«Proprio lei.»
Avah sospirò.
«Perché non te ne liberi?»
«Perché...» Albert si interruppe quando si accorse di non essere in grado di darle una risposta vera e propria. «Io non...»
«Sei ancora ancorato al tuo passato, non è vero?» azzardò Avah. «Hai ancora bisogno di avere qualcuno che ti conosce come Albert Wilkerson e che non cambierà mai idea? Sapere che Harriet potrebbe incastrarti ti fa sentire bene?»
Albert scosse la testa.
«È la madre delle mie figlie.»
«Le tue figlie non ti conoscono nemmeno. O meglio, una delle due ti conosce, ma non ha la più pallida idea del fatto che tu sia suo padre.»
«Già» ammise Albert, «Ma questo non significa che le ragazze mi siano del tutto indifferenti. Harriet, a sua volta, è una parte di me.»
«È una parte di te molto più pericolosa di quanto tu possa immaginare» replicò Avah. «Io so chi sei. Se tu facessi qualcosa di veramente irritante, potrei prendere in considerazione l’idea di divulgare il tuo segreto.»
Albert rabbrividì.
«Tu mi tradiresti?»
Avah scosse la testa.
«Certo che no. Ho detto che, se tu facessi qualcosa di irritante nei miei confronti, potrei prendere in considerazione questa eventualità. Non significa che io abbia in programma di farlo. Non credo che tu sia in grado di fare qualcosa che potrebbe davvero disturbarmi. Harriet, invece, non deve essere stata molto soddisfatta della morte di quel poveretto.»
Albert ridacchiò.
«È strano che proprio tu lo descriva con quei termini.»
«Mi sono commossa per la sorte di quello sventurato» puntualizzò Avah. «Non è stato bello doverlo uccidere solo perché non era in grado di badare agli affari suoi. Se avesse distrutto quel filmato o avesse fatto finta che non fosse mai esistito, avrebbe potuto vivere molto a lungo. Immagino, però, che per Harriet sia molto difficile fare questo genere di considerazioni.»
«Tutto sommato credo di potermela cavare» obiettò Albert. «Fortunatamente per me - anzi, fortunatamente per noi, perché se io dovessi precipitare tu saresti la seconda a cadere - Harriet è facilmente influenzabile. Continuerà a considerarmi il peggiore dei criminali, su questo non ho dubbi, ma tutto sommato ha una certa ammirazione nei confronti dei criminali che le fanno ingenti versamenti. Siamo d’accordo che domani ci sentiremo di nuovo e mi comunicherà quanto vale la vita di John Brooks.»
Avah aggrottò le sopracciglia.
«Vuoi pagarla?»
«Non ho alternative.»
«Un’alternativa ci sarebbe» ribadì Avah, «Se tu non avessi deciso di vivere nell’eterna celebrazione dei vecchi tempi, quelli in cui eri Albert lo squattrinato che spargeva i propri geni in giro per le colline di Ambermount.»
«Non voglio uccidere Harriet, a meno che non mi costringa a farlo» puntualizzò Albert. «Credo che il nostro accordo sia stato ragionevole.»
«Sì, potrebbe esserlo» ammise Avah, «Ma sei davvero sicuro che sia un accordo? Se non sbaglio Harriet non ti ha ancora dato la sua conferma. A quanto pare si è presa del tempo per riflettere sul da farsi. Potrebbe essere un grave errore. Non possiamo più permetterci di sbagliare di nuovo.»
Finalmente Albert la riconosceva.
No, quanto accaduto con quella testa vuota di Theresa Silver non l’aveva rovinata completamente: Avah era sempre la solita arrivista.
“Devo stare molto attento” realizzò Albert, ancora una volta.
Non doveva mai darle l’impressione di essere lei quella che reggeva il gioco: Avah era pericolosa e anche lui avrebbe potuto pagare le conseguenze di una distrazione.

«Maledizione, vuoi deciderti a parlare?!»
Appoggiata contro al muro, Suzanne pretendeva spiegazioni che Harriet non aveva alcuna intenzione di darle.
Che cos’aveva sentito? Poco, sperava.
“A meno che non sia qui da molto tempo.”
Quella prospettiva non era del tutto improbabile. Non c’era alcuna ragione, almeno tecnicamente, per cui Suzanne avesse dovuto presentarsi alla locanda, quindi poteva averlo fatto a qualunque ora. Poteva avere udito tutta la conversazione con Albert...
“No” cercò di rassicurarsi Harriet, “Non ha sentito niente.”
Si rivolse alla figlia: «Credo che dovresti andare a casa e cercare di calmarti. Stai passando un momento terribile, Suzy, non c’è ragione per cui tu debba preoccuparti di...»
«Non ho ragione di preoccuparmi?!» Sua figlia era visibilmente sconvolta. «Credi che sia sorda? Ti stavi accordando con qualcuno sul valore della vita di John.»
«Parlavo metaforicamente» mentì Harriet.
«Ti prego, mamma, smettila di fingere! Lo so, fingevate entrambi. John sapeva chi ha ucciso la sua ex moglie. Te l’ha detto e tu fingi di non sapere. John non si è suicidato, nonostante tu abbia passato i giorni a convincermi che è andata davvero così! Ne ho abbastanza. John ha venduto quella videocassetta a qualcuno, o almeno ci ha provato...»
«No» la interruppe Harriet. «John non ha venduto niente a nessuno. Voleva soltanto liberarsene, darla al collega di Kay. Non mi ha chiesto un vero e proprio consiglio, ma deve avere avuto la sensazione che io gli stessi dando la mia approvazione. In realtà, se fosse stato per me, quella cassetta sarebbe stata distrutta. Sarebbe stata la soluzione migliore per tutti. Katherine Flint se n’è andata molto tempo fa, con il chiaro intento di dimenticarsi di tutti noi. Perché avremmo dovuto occuparci di lei?»
Quelle parole non servirono a calmare Suzanne.
«Le tue riflessioni non mi fanno né caldo né freddo! Se volevi fermare John, potevi pensarci prima!»
Harriet non replicò.
Non c’era nulla da dire.
Suzanne aveva ragione, dall’inizio alla fine.
Sua figlia proseguì: «Ormai non c’è più niente da fare. Se sai chi è stato a ucciderlo, se sai chi è stato a uccidere Kay Brooks, non puoi permettere che continui. Quanto tempo passerà prima che venga a cercare anche noi?»
Da quel punto di vista, Harriet si sentiva abbastanza sicura.
«Non accadrà, te lo posso garantire.»
Quell’osservazione non sortì l’effetto sperato.
«Vuoi dire che lo conosci?!» Suzanne la fissava, con gli occhi strabuzzati; Harriet non seppe dire se per lo stupore o se per l’orrore. «Tu conosci l’assassino di John e, di conseguenza, mi stai garantendo che non ci farà del male?!»
Harriet abbassò lo sguardo.
«Sì.»
«Eri al telefono con lui.»
«Sì.»
«E volevi dei soldi in cambio di quello che ha fatto.»
«No, io non...»
Harriet si interruppe.
Poteva davvero negare?
«Tu l’hai sempre saputo» mormorò Suzanne. «Tu hai sempre saputo tutto, fin da quando è stata assassinata Kay Brooks.»
«No» obiettò Harriet, «So da molto prima di che cosa sia stato capace quell’uomo.» Guardò la figlia negli occhi. «L’uomo che ha ucciso - o almeno, ha fatto uccidere - Kay Brooks e tuo marito... è tuo padre.»
Suzanne scosse la testa.
«Non dire cazzate, mamma! Albert Wilkerson è morto! Mi hai portato a visitare la sua tomba! Non puoi accusarlo di...»
«Posso, invece» replicò Harriet, «Perché l’uomo morto precipitato da una scarpata a bordo della propria automobile non era Albert, ma il padre di Katherine.»

   
 
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