Serie TV > Wynonna Earp
Segui la storia  |       
Autore: aurora giacomini    10/11/2023    1 recensioni
E’ Halloween. In questa notte, il velo che divide il mondo dei vivi e quello dei morti si assottiglia sino a svanire. Un’altra barriera cede all’incantesimo. Il mondo interiore di Waverly si riversa all’esterno con violenza, con dolore. L’introspezione prende il sopravvento, il pensiero si fa logorroico, le percezioni plasmano il mondo, lo modificano: distinguere fra cosa è reale e cosa no diventa sempre più difficile, illogico. Non ha più senso cercare il confine fra pensiero e azione, fra ricordo e sogno, perché non esiste più.
Ci sono solo loro due. Scrutano l’Oceano, ognuna con le proprie domande, ognuna con le proprie risposte.
Il suono della sua voce infrange anche l’ultima barriera, quella del silenzio.
E’ un orizzonte destinato a non finire. E’ un miasma informe, incorporeo, senza tratteggi, senza linee.
Questa è la notte senza confini e l’alba è lontana.
Genere: Angst, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Nicole Haught, Waverly Earp, Wynonna Earp
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

III.


 

Waverly rimase immobile; gli occhi fissi sull’Oceano e il petto pieno di piccoli fiocchi argentei. Aveva sempre prestato attenzione al suo corpo, a come gli stimoli esterni, fisici o astratti, lo facessero sentire, cosa le facessero provare. I fiocchi argentei simboleggiavano il panico; una paura diversa da quella che fa sobbalzare le persone o che le fa scappare: quella, per Waverly, era un’onda verde chiaro su uno sfondo nero, improvvisa, che vedeva poi, quando ci ripensava, dopo essersi messa al sicuro. I fiocchi avevano la tendenza a trasformarsi in chiodi, in attesa che un martello invisibile inchiodasse i piedi al terreno. Quel martello era sempre puntuale e non sbagliava mai un colpo.

Aveva provato quella sensazione solo due volte, prima.
 

Per espresso desiderio di Charleen, il funerale del signor Earp si era svolto a bara aperta. ‘‘Che possa vedere i volti affranti di coloro che l’hanno amato”, aveva detto.

Waverly non voleva avvicinarsi, non voleva vederlo. Aveva paura dei morti. Aveva paura di vedere suo padre morto. Sua madre non le aveva lasciato scelta. Le sue parole erano strisciate fino alle orecchie della ragazzina e avevano avvelenato il denso, precario silenzio degli spazi chiusi ma troppo ampi. Il gelido vento di febbraio, che spirava dal grande portone della chiesa, lasciato spalancato come una bocca ammonitrice, cosicché ognuno si sentisse obbligato a porgere sinceri rispetti, aveva sostituito le mani di Charleen e aveva spinto Waverly attraverso la navata, passo dopo passo. Il suo cuore aveva accelerato, centimetro dopo centimetro; si era convinta che l’eco dei suoi battiti stesse colpendo tutti i presenti come enormi palle di cannone, che li stesse assordando come stava assordando lei.

Gli occhi avevano scavalcato le sottili pareti di legno scuro, rivestite da morbido tessuto imbottito color crema. Era rimasta in attesa, come quando lui si appisolava sul divano e attendeva che lei lo svegliasse per cenare.

Il signor Earp non aveva riaperto gli occhi e non le aveva sorriso.

Quell’espressione era vuota, senza significato, come se la faccia fosse stata resettata e non fosse più in grado di accoglierne neppure una, di espressione. Qualche sporadico fiocco d’argento aveva cominciato a cadere, troppo debolmente, come una giornata d’inverno che non ci creda abbastanza. Waverly aveva cercato nelle rughe del volto di suo padre le cicatrici di cinquant’anni di risate, di sorrisi allegri, tristi e falsi, di pianti sconsolati, ilari e iracondi. Non ve n’era traccia. Non si era arresa e aveva indagato ancora, intenzionata a riconoscere in quel pallore un riflesso di se stessa. Era stato un errore; forse il primo, più grande errore della sua giovane vita. I suoi occhi avevano trovato e seguito i contorni tondeggianti che deturpavano la tempia senza colore, dove i capelli erano stati piantati nel cranio, spinti dal piombo.

Sono stanco, diceva il bigliettino che aveva lasciato. Doveva essere stato davvero molto stanco, perché aveva scelto il sonno più lungo, quello che la vita aveva solo brevemente interrotto.

La bufera era esplosa come se non avesse aspettato altro; il martello aveva piantato l’ultimo chiodo prima che Waverly potesse accorgersi della sua presenza. Non aveva potuto muoversi. Non aveva potuto fuggire. Anche le lacrime erano rimaste congelate dietro gli occhi, da qualche parte nella profondità del suo Io. Con orrore, aveva pensato che, se non fossero riusciti a rimuoverla di peso, avrebbero scelto di seppellirla con suo padre. Era stato un pensiero illogico, ma del resto il terrore non è quasi mai un intellettuale; è una bestia che comprende solo una lingua e a volte la fraintende: l’istinto.

“Non è papà”, aveva detto Wynonna, che era arrivata senza farsi udire, che aveva aumentato l’intensità dei fiocchi per poi placarli un poco. “Quella è solo carne, come quella che si compra al supermercato. Prima erano mucche e maiali, ora sono solo cibo. Quello è solo cibo per vermi.” Le aveva baciato i capelli. Col naso ancora premuto contro il suo viso, aveva ribadito: “Non è papà.”

Dal quel momento non sarebbe più riuscita a mangiare la carne, neppure a guardarla. Ma i suoi piedi erano liberi. L’avevano condotta indietro, verso il genitore sbagliato.

“Non ti ho vista pregare”, aveva detto Charleen. “Torna da tuo padre e chiedi a Dio di avere cura di lui.”

Waverly le aveva spiegato che quello non era più suo padre, aveva riportato le parole di Wynonna, sicura che sua madre avrebbe compreso, perché Wynonna non poteva sbagliarsi.

Lo schiaffo era esploso in quella cassa di marmo come lo sparo che l’aveva svegliata tre notti prima. Charleen aveva alzato di nuovo il braccio, ignorando i mormorii e gli sguardi che si erano posati attoniti e oltraggiati sulla scena. Non era riuscita a colpire Waverly una seconda volta: Wynonna le aveva afferrato il braccio. “Non toccarla”, aveva ordinato a sua madre, con la faccia e il tono di un genitore che riprenda un figlio troppo ottuso, impegnato a tormentare una creatura.

Charleen aveva accolto il volto del suo giglio tra le mani che sapevano essere amorevoli solo per lei; le aveva sorriso e le aveva ricordato quanto fosse sensibile, quanto fosse speciale. Wynonna si era sottratta al contatto, aveva preso per mano Waverly e insieme avevano lasciato la chiesa. “Ci sono io”, le aveva detto, stringendo la piccola mano nella sua, che appariva già troppo grande, troppo stanca.

La seconda volta che i fiocchi d’argento avevano turbinato violenti nel suo petto, era stata proprio quando aveva creduto che Wynonna non ci fosse più.

L’aveva trovata sul letto solo per metà: la fronte sosteneva il resto del corpo nella larga pozza di vomito, sul tappeto. Era rimasta a guardarla senza riuscire a muovere un muscolo, senza essere sicura di nulla, neppure di respirare.

Poi, dopo un’eternità troppo densa e crudele, Wynonna aveva tossito e si era ritratta con una smorfia, disgustata dal frutto degli errori in cui era immersa.

“Non ce la faccio più”, aveva detto Waverly, quando aveva ritenuto che sua sorella potesse sentirla.

“Prendimi dell’acqua”, aveva gracchiato in risposta.

Waverly non si era mossa; non perché non ne fosse ancora in grado, semplicemente perché quell’immagine era troppo misera e sbagliata per poter essere ignorata. “Non ce la faccio più”, aveva ripetuto.

“Ho appena seppellito nostra madre!”, aveva urlato Wynonna. “Dammi tregua, cazzo!”

Io ho seppellito nostra madre”, le aveva ricordato. “E’ stato due settimane fa, in caso tu avessi perso il conto delle bottiglie.” Aveva sospirato, cercando di ricacciare indietro le lacrime. “Mi chiedo dove troverò la forza per seppellire te. Se sarò disposta a non lasciarti marcire sul pavimento.”

Wynonna era strisciata giù dal letto, senza curarsi dello schifo con cui si stava imbrattando le mani e i vestiti. Dopo un paio di tentativi si era messa in piedi, aveva raggiunto Waverly e le si era fermata davanti. L’aveva guardata un momento negli occhi, solo per un breve istante; poi aveva abbassato lo sguardo sulla sua bocca, come se avesse voluto controllare che quelle parole fossero uscite da lì. Infine aveva chiuso gli occhi e appoggiato la fronte a quella di Waverly. “Dimmi che mi vuoi bene”, aveva mormorato.

Anche Waverly aveva chiuso gli occhi. Aveva lottato per ignorare l’olezzo emanato da sua sorella e il vomito che le inumidiva la fronte. “Se il mio amore avesse potuto qualcosa, a quest’ora saresti immune alla vita.” Aveva riaperto gli occhi e se n’era andata. Dalla stanza accanto, aveva ascoltato il pianto di sua sorella, i suoi latrati. Aveva pianto anche lei, piano, senza farsi sentire neppure da se stessa. Aveva venticinque anni, ma la sensazione di essere nell’inverno della vita.
 

Waverly si lasciò cadere, trovandosi ancora una volta seduta sulla sabbia. Il suo corpo, digiuno, provato da una notte insonne e dal gelo che ora lo attanagliava con ferocia, come a vendicarsi per essere stato neutralizzato da una forza superiore, non era riuscito a reggere il turbinio di fiocchi. Anche se fosse stato possibile salvare Nicole, Waverly non ci sarebbe riuscita: i chiodi erano oltre la sabbia, troppo in profondità.

«Non è possibile...» trovò la forza di mormorare. Era possibile eccome, e lei aveva accettato la verità prima ancora di contemplarla. La scia di indizi palesi era troppo lunga, troppo esplicita. Lo sapeva da principio, aveva solo scelto di razionalizzare, di rendere comprensibile e famigliare qualcosa che non lo era abbastanza. «Non è possibile», si ostinò a mentire, quasi le sue parole potessero modificare la realtà. Non potevano più farlo: ormai, la notte senza confini si era conclusa, le sue regole dissolte al sole.

L’Oceano richiamò a sé nubi scure, come uno stregone che richiami le sue ombre. Quella nuova oscurità era troppo luminosa; ma Waverly sapeva che, anche in caso contrario, le onde non le avrebbero restituito Nicole. Aveva smesso di mentire.

Le lacrime avevano cominciato a rigarle il viso; non sapeva quando, sapeva solo di non voler ingigantire la prigione d’acqua e sale: le asciugò e lottò affinché non ne nascessero altre. Fallì. La cosa la fece arrabbiare. Si rese conto di essere sempre arrabbiata, sempre incazzata con tutto e tutti. Si rese conto di provare odio più volte di quante volesse ammettere. Delle cinque emozioni, una soltanto. Di tutti i sentimenti, solo quello.

Tirò fuori il cellulare: aveva bisogno di sapere.


«Eri così giovane...» mormorò, voltandosi appena a sinistra, immaginando che Nicole fosse rimasta lì, in ginocchio dietro di lei, a leggere le parole che degli estranei avevano buttato su Internet, alla mercé di chiunque. La vita e la morte di una persona racchiuse, violentate da titoli sensazionalistici, da paragrafi morbosamente ricolmi di aggettivi inappropriati e pomposi. Parole che Waverly non aveva mai letto prima, che non l’avevano mai raggiunta. Abitavano la stessa città; era successo a meno di due miglia da casa sua, ma non ne sapeva nulla. Era la ragazza che aveva amato per metà della vita, e non sapeva neppure fosse morta. Si rese conto di quanto le persone riescano a diventare invisibili, a esistere e morire nell’indifferenza, nel silenzio, come fantasmi.

Le risuonarono nella mente le parole di Nicole: ‘‘Mi piaceva, mi faceva sentire importante, tangibile.’’

Tangibile.

«Eri un fantasma molto prima di morire.»

La mente adulta aveva cominciato a correggere quella adolescenziale, a rivelarle i dettagli, gli indizi della verità.

Niente volti festosi di liceali ubriachi e intenti a pomiciare; nessun salotto scosso da musica troppo alta, strabordante di alcol, di sostanze e cibo spazzatura. Una sola persona; una piccola stanza da bagno. Le braccia protese; la lametta che scorre sulla pelle, la lacera; il lavandino sporco di rivoli e gocce rosse. Una richiesta d’aiuto o d’attenzione? Un dolore fisico per sopire quello dell’anima? Portali dai quali far sgorgare i demoni e le loro voci? Forse tutto quanto. Una magrezza per nulla sexy, eccessiva: un corpo consumato e debole. Tatuaggi in sostituzione di lividi mai maturati, ma non per questo assenti.

«Mi dispiace tanto, Nicole.»

Il pianto da mesto si fece violento, la scosse come i tuoni scuotevano il cielo, in lontananza. Forse il suo pianto non aveva senso, ma chi poteva deciderlo?

Accolse la tristezza con gioia, gustandosi le emozioni e le lacrime come fossero dolciumi.

Osservò l’Oceano, agitato, iroso, forse perché il segreto non era più tale. Quella furia contrastava con lei, che ora era calma, che aveva capito e accettato quel nuovo dolore.

Quando i due mondi si erano mescolati e separati ancora, qualcosa era rimasto dal lato opposto, oltre il confine ora solido e invalicabile: le menzogne.


Le foglie giacevano al suolo come sgargianti coriandoli monotematici; ora calpestate con sentimento e calma, verso una meta precisa. Le zucche ricambiavano gli sguardi di Waverly, ma rimanevano mute; i lumini si erano spenti e con loro i ghigni e le insinuazioni. Il vento, conteso fra la terra e l’Oceano come in una partita a Pong, provava a passare anche attraverso di lei, cercava ancora una fessura. Ma non aveva importanza. Nulla ha più importanza quando la verità si rende manifesta.
 

La sera prima non aveva recuperato le chiavi, le aveva lasciate sul mobiletto d’ingresso: non c’erano state le forze per contemplare qualcosa di diverso dall’uscire di lì. Waverly valutò per un momento il campanello, chiedendosi quanti ditini l’avessero pigiato invano, rendono l’aspettativa delusione. La lucina ora inutile, sfarfallante, sembrò suggerirle qualcosa. Abbassò la maniglia, scoprendo che il campanello non le aveva mentito: la porta era aperta.

Entrò e respirò l’odore famigliare, più intenso e denso ora che il suo naso non l’accoglieva da ore. Ogni casa ha un suo odore: è un miscuglio di tanti mobili, oggetti, vernici, persone e abitudini. Quella casa odorava di vecchi mobili, di libri, di detersivo per piatti, di legno, di Waverly e di alcol.

Una nota dolce, famigliare ma fuori posto la condusse in cucina.

I cadaveri delle due zucche giacevano sul pavimento, dove li aveva lasciati; la terza, sull’isola di radica, la guardava col suo unico occhio, trafitto dal coltello che non aveva finito il lavoro. Tornò a quelle a terra, rivide le mani tremanti di Wynonna, riascoltò la battuta che non aveva divertito davvero nessuno.

«Dopo», disse, come fossero esseri senzienti. «Forse dopo.»

Uscì dalla cucina e si voltò verso le scale. Non le salì: un altro odore, quello che cercava, le indicò la giusta direzione.

Wynonna giaceva sul divano del salotto, sorda agli schiamazzi di Shaggy e Scooby-Doo, che si contendevano un biscottino fuori da un castello dall’aria sinistra e magica. Li guardò per un po’, rapita e consolata da dinamiche non più così estranee, ma neppure famigliari. Riportò gli occhi su Wynonna e lì li lasciò. Una ciocca di capelli, neri come l’ala di un corvo, le nascondeva tre quarti del viso, lasciando però esposta la bocca, da cui colava un piccolo rivolo di saliva.

«Ti odio.»

Wynonna si mosse appena, come se una mosca le avesse solleticato il naso. Non era ancora del tutto sveglia, ma il suo cervello doveva aver registrato qualcosa, se non la voce, la presenza.

«Ti odio», ripeté quando gli occhi freddi come la brina si posarono su di lei.

«Buongiorno anche a te», bofonchiò Wynonna, tirandosi su a sedere e cercando con le dita la bottiglia vuota per tre quarti, ai piedi del divano. Riuscì solo a stringerle il collo. Il calcio di Waverly le fece mollare la presa e scaraventò la bottiglia contro la TV, proprio quando la maschera del villain di turno stava per essere rimossa e l’identità rivelata.

«Che cazzo, Waverly!», esplose, scrollando la mano che era stata colpita e balzando in piedi. «Che cazzo!»

Waverly l’afferrò per le spalle e la spinse, facendola ricadere sui cuscini. I suoi palmi conservarono il ricordo delle sue ossa, del peso quasi inesistente di quel corpo gonfio d’alcol e autocommiserazione.

«Ti odio!», ribadì, graffiandosi la gola.

«Guarda che ho capito.» Spostò lo sguardo sul televisore senza vita, e un ghigno demente le sollevò gli angoli della bocca: «Vorrei tanto sapere perché odiavi anche lui, però.»

«Smettila con queste battutine di merda! Smettila! Non sei divertente e non c’è alcuna tensione da stemperare: qui è dove trova il suo apice!»

Wynonna aprì la bocca per ribattere. Evidentemente, però, le lacrime che erano spuntate negli occhi di sua sorella la convinsero a desistere.

«Chiedimi perché ti odio», disse, tirando su col naso e ricacciando dignitosamente le lacrime indietro. «Chiedimelo, Wynonna.»

La donna aprì le braccia, come a dire che la cosa fosse ovvia.

«Perché?», chiese comunque, decidendo di assecondarla. «Perché mi odi?»

«Secondo te?»

«Non credo che funzioni in questo modo, sai? Anzi, sono piuttosto sicura che-»

«Sai qual è la verità?», la interruppe.

«Che non conosco le regole del giochino che stai mettendo su?»

Waverly la ignorò.

«La verità, Wynonna, è che tu non sei speciale.»

Per un minuto o forse per un’eternità, le parole aleggiarono fra di loro. Il corpo di Wynonna si era irrigidito e rilassato come se si fosse appena tolta una grossa spina dal piede. Il suo volto, invece, non aveva ancora deciso come reagire: tremolava, andava a scatti, come se gli fosse impossibile decidere quale espressione ospitare, quale emozione o quale sentimento manifestare.

Erano parole che potevano fungere da punto fermo, senza altri capoversi. Racchiudevano il senso di ogni cosa. Era la verità che sconfigge la menzogna.

Ma Waverly non aveva finito.

«Nostra madre era folle, completamente fuori di testa. Ti ha riempito... No: ci ha riempito la testa di stronzate per anni. Ha riempito la mia testa di merda e menzogne! Ha rovinato la vita di ogni singolo componente di questa famiglia. Papà, tu e io: tutti vittime della sua follia! Se tu fossi speciale, te ne saresti accorta, avresti fatto qualcosa! Invece guardati: vittima delle menzogne che la tua assoluta normalità non è riuscita a contemplare mai!» Si portò una mano alla fronte, come se il cranio stesse per aprirsi. «Ti odio perché è troppo tardi per odiare lei.»

Il volto di Wynonna aveva scelto un’espressione, ma Waverly non riuscì a decifrarla.

Puntò il dito fra la finestra e il televisore morto, come se, voltandosi, entrambe avessero potuto vedere il soggetto: «Sai perché non le ho mai detto che mi piaceva?»

«Non sono neppure sicura di chi stiamo parlando», ammise, con assoluta pacatezza. Sembrava un naufrago che si fosse arreso all’attesa, ma su un’isola ospitale e piena di viveri. «Pensandoci, però, credo di aver capito: chi altri, se non lei? No? Il suo nome era ovunque, letteralmente: sulla porta della doccia, sugli specchi, sui tovaglioli che scarabocchiavi invece di mangiare. Davvero, ovunque. Felice che negli anni il tuo fare ossessivo si sia calmato.»

«Dillo. Di’ il suo nome. Voglio che risuoni in questa stanza, voglio che tu lo renda reale.»

Wynonna sospirò e si mise dritta, come se si stesse preparando a qualcosa di topico.

«Perché non hai mai detto a Nicole che ti piaceva?»

Il volto di Waverly si stropicciò come una cartaccia in attesa del cestino, i suoi occhi vomitarono lacrime troppo grosse per essere trattenute.

«Perché io non sono mai stata speciale!», guaì. «Perché io ero la figlia sbagliata, la ragazzina stupida il cui unico compito era quello di annaffiare il tuo vaso! Perché solo qualcuno come te avrebbe potuto pensare di poter esistere per Nicole!» Provò a calmarsi. «La verità, però, è che non c’era nulla di speciale neppure in lei: Nicole era perduta quanto, se non più di noi due...» Sorrise, ma la sua bocca non gradì l’iniziativa: venne fuori lo storpio di un ghigno triste. «E’ tutto assolutamente così sbagliato.»

«Lo è...» annuì. Si alzò lentamente, come se avesse paura di farla scappare. «Mi dispiace tanto, Waverly», sussurrò, e avanzò piano verso di lei. «Mi dispiace», disse ancora, tergendo la lacrima dalla guancia che la sera prima aveva colpito.

Waverly lasciò che le mani di sua sorella la toccassero senza ferirla; si godette il calore famigliare e la fragilità che aveva imparato a riconoscere nei suoi nervi e nei suoi muscoli. Poi le afferrò i polsi, bloccandola anche con lo sguardo.

«Se la settimana prossima non sarai nella clinica di cui abbiamo parlato, non disturbarti a cercarmi. L’appuntamento sarà il prossimo Halloween, in riva all’Oceano: se non ti farai aiutare, mi potrai rivedere solo là, solo una notte all’anno.» Si staccò da lei e puntò alla porta che conduceva nell’atrio. «Sono seria.»

«Di cosa stai parlando? Dove stai andando?»

«A cercare un fiore da donare agli abissi.»


Il sole aveva di nuovo vinto sulle nuvole, e la luna su di lui. La spiaggia era deserta e fredda, esattamente come la sera prima. Ma, in qualche modo, non sembrava più la stessa.

«Una volta, mentre parlavi con la vedova Lee, ti sentii dire che il tuo fiore preferito era la margherita.» Sorrise, girandoselo fra le dita e studiando i petali bianchi. «Fino a quel momento avevo trovato le margherite insulse, i più bruttini tra i fiori. Credo che ora siano anche i miei preferiti. Aspetterò il nostro prossimo appuntamento per chiederti cosa dicono le margherite.» Alzò lo sguardo sull’orizzonte, senza guardare nulla di specifico, non l’Oceano e neppure la luna piena. «Non so se puoi sentirmi, Nicole. Ma se puoi, sappi che ho intenzione di andare a fondo... alle tue parole. Capire se potremmo trovarci simpatiche e innamorarci davvero.» Avanzò verso l’acqua e si mise in ginocchio, senza preoccuparsi del gelo che cominciava a dilaniarla. Poggiò il fiore e lo guardò salpare. «Non so quando, ma so che un giorno la morte rivelerà ciò che la vita ha nascosto...»

... perché agli occhi di Morte nessuno è speciale.

 

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Wynonna Earp / Vai alla pagina dell'autore: aurora giacomini