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Autore: Rosmary    31/01/2024    5 recensioni
Raccolta disomogenea di drabble, flashfic, oneshot dedicate a Lorcan e Rose.
1. Passi
2. Di film, pancakes e calderotti
3. Nei ricordi, nel presente
4. Tornavano indietro per andare avanti
5. Imbarazzi – cose taciute
6. Al di là delle paure, noi
7. Una sorpresa per Rose
8. Galeotto fu il palloncino
9. Per le sue paure
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lorcan Scamandro, Rose Weasley
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Nuova generazione
Capitoli:
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Per le sue paure
 
 
Agosto 2022
 
Avevano raggiunto gli scogli con delle bibite ghiacciate tra le mani, parlottavano fitto, a volte sovrapponendosi e altre cedendosi la parola scambiando uno sguardo fugace. Le mani si sfioravano a ogni passo, a volte un pollice solleticava un palmo e altre i mignoli si rincorrevano sino ad allacciarsi.
Era il tramonto quando si sedettero l’uno accanto all’altra su quella superficie umida e rocciosa, ed era ancora il tramonto quando Rose chinò la testa sulla spalla di lui e Lorcan strinse lei in un abbraccio.
Ripercorrere a ritroso la caotica giornata sarebbe stato impossibile, non s’erano fermati un solo istante desiderosi com’erano di far tesoro di ogni secondo. Era l’ultimo giorno d’estate per loro, l’indomani avrebbero fatto ritorno a Hogwarts, e il mare, le ore piccole, la libertà sarebbero stati ricordi lontani per mesi e mesi.
“Secondo te mi sbronzo con questa roba?”
“Me l’hai già chiesto tre volte.”
“Non lo ricordo.”
“Allora sei già sbronza.”
“Potresti giurarlo sul mio onore? Anzi no, sul tuo onore. Sì, tuo, non mio.”
“Dolcezza, sei decisamente sbronza.”
“Potresti giurarlo sul tuo onore, quindi?”
“Posso giurarlo sulle nostre birre, aveva ragione tuo zio, non sono leggere come la burrobirra.”
“Non ridere di me!”
“Non sto ridendo di te!”
“Ma stai ridendo, guardati!”
“Rido perché ridi tu, scema.”
“Non è vero, sono io che rido perché ridi tu, scemo.”
Lorcan le strappò la bottiglia dalle mani, ma finì col versarla addosso a entrambi quando Rose allungò le dita per riprendersela.
Su quella piccola cima non echeggiavano che le loro risate disordinate, i corpi scossi dagli scherzi, gli occhi luminosi malgrado affacciassero sull’imbrunire.
“Domani inizi l’ultimo anno.”
“Non eri sbronza?”
“Sono una sbronza lucida!”
“È un anno come tutti gli altri.”
“Non per me.”
“Questo perché sei nata in ritardo.”
Rose sorrise amara. Avrebbe voluto ribattere come loro solito, ma riuscì solo a sospirare e a voltarsi verso di lui.
“E se non ti mancassi quando sarai diplomato?”
“E se fossi io a non mancare a te?”
Rose aveva sempre creduto che il momento giusto per confessare al proprio migliore amico di esserne innamorata avrebbe trovato il modo di palesarsi e farsi riconoscere come tale – e l’avrebbe rassicurata sussurrandole di esserlo davvero, di essere il momento in cui calare la maschera, guardare Lorcan e dirgli che da troppo tempo la gelosia l’assaliva ogni volta che un’altra lo sfiorava, che lo stomaco mordeva quando erano vicini, che i pensieri s’interrogavano sul sapore dei suoi baci.
Doveva essersi sbagliata – per forza –, perché intorno e dentro di lei non s’era palesato niente nell’istante in cui Lorcan le aveva restituito la domanda, eppure spingersi in avanti, stringere i suoi ricci possessiva e sfiorargli le labbra con le proprie furono impulsi cui resistere sarebbe stato impossibile.
“Rose.”
Un suono strappato – una preghiera per indurla a fermarsi o a proseguire?
Rose finse di non averlo udito a scivolò sino al suo collo, mentre le dita si rilassavano tra i capelli e il respiro di Lorcan diveniva via via più irregolare.
“Sei ubriaca.”
“Meno di quanto pensi.”
Lorcan ingoiò a vuoto, e benché il residuo di razionalità in lui gli suggerisse di capire cosa stesse accadendo a vincere furono gli impulsi più vivi, che lo condussero sulla bocca di Rose, stretto al suo calore, immerso nel suo profumo.
Si baciarono per un tempo lunghissimo, restii a concedersi tregua – le mani ansiose di toccarsi, gli occhi vogliosi di sbirciarsi.
La pietra ruvida su cui erano seduti divenne d’improvviso scomoda, troppo acuminata per impedirsi graffi alle gambe a ogni movimento entusiasta, a ogni tentativo di condursi l’una sull’altro.
Osarono guardarsi ansanti, le labbra arrossate e gli occhi lucidi, quando la luna era già alta nel cielo e il rumoreggiare delle onde era tutto ciò che restava di una giornata estiva.
Lorcan abbandonò la fronte su quella di Rose con una stanchezza frustrata, mentre dentro di lui si agitava un tremore spietato – eccitazione e paura danzavano assieme e gli mostravano tutti gli errori che di lì in avanti avrebbe di certo commesso.
“Lorcan.”
“Ti ho appena persa.”
 
Due anni dopo
 
Di nuovo in ritardo.
Rose, una ciambella tra le mani e una borsa traboccante di libri in spalla, rimproverò se stessa per essere riuscita ad arrivare al Ministero con gli ormai consueti dieci minuti di ritardo – neanche badò allo sguardo di biasimo della collega anziana incrociata nei corridoi, anzi la oltrepassò con un’inedita decisione.
Non erano trascorsi che due mesi da quando, a inizio ottobre, aveva superato i test di ammissione per accedere al praticantato per neodiplomati del Wizengamot – si trattava di svolgere compiti noiosi e routinari, ma era un buon punto di partenza per chiunque ambisse a entrare nelle schiere della politica ministeriale. Avrebbe potuto sfruttare il proprio cognome in maniera più proficua dal punto di vista economico, erano molti gli uffici disposti ad assumere la figlia del Ministro Granger, ma lei in accordo con i genitori aveva deciso di iniziare dal basso, di competere assieme a tutti gli altri e di tracciare la propria strada nella maniera più autonoma possibile.
“Granger-Weasley, riuscirò un giorno a vederti arrivare in orario?”
La domanda retorica di Bernice Robards, pronunciata con voce tonante, riuscì nell’intento di mortificarla. Tuttavia Rose entrò a testa alta nell’ufficio, finse di non notare i ridacchianti colleghi praticanti e sfilò sino alla scrivania presso cui troneggiava la sua responsabile.
“Le chiedo scusa,” disse. “Questi sono i testi che mi ha chiesto.”
Sostenendo lo sguardo dell’altra e ingoiando l’imbarazzo per avere ancora la colazione tra le mani, poggiò la borsa su una sedia e sfilò uno a uno i tomi, che altro non erano che raccolte di sentenze e dettagli di processi risalenti alla prima guerra magica.
“Li hai trovati tutti?”
“Tutti.”
“Mangia la tua ciambella, ragazza.”
Rose trattenne un sorriso e approfittò subito della concessione.
Bernice non era una donna semplice con cui interfacciarsi e spesso si prodigava in giudizi ingenerosi sul Ministero Granger, ma Rose preferiva la sua supponenza e il suo palese disprezzo alle cerimonie ipocrite di chi cercava in lei la benevolenza della propria famiglia. Inoltre era convinta che ottenere buoni risultati con la Robards equivalesse ad averli meritati – sarebbe stato un percorso faticoso, ma soddisfacente.
La giornata trascorse in fretta e il tramonto sorprese Rose ancora alle prese con la catalogazione di documenti mal trascritti. Avrebbe potuto riporre tutto in un cassetto e riprendere l’indomani, ma la voglia di dimostrarsi all’altezza delle mansioni ricevute vinse ancora una volta e la indusse a caricare di nuovo la borsa di scartoffie con l’intento di proseguire il lavoro a casa.
“Quindi stasera farai di nuovo tardi, domattina non sentirai di nuovo la sveglia e arriverai di nuovo in ritardo. Sei un disastro!”
Rose, le labbra mosse in un sorriso, sollevò gli occhi chiari sul ragazzo mollemente poggiato allo stipite della porta.
“Grazie dell’incoraggiamento.”
Lui le restituì un sorriso divertito e l’accolse con un abbraccio e un dolce bacio non appena lei macinò i pochi passi che li separavano.
“Ciao, amore.”
“Ciao, scemo,” ribatté scherzosa, superandolo per uscire dall’ufficio. “Com’è andata oggi?”
“Non benissimo. Canon mi ha spedito in un postaccio per recuperare un aggeggio babbano manomesso da qualche mago, mi sono perso e ho quasi rischiato di essere morso da un cane.”
“Avresti potuto smaterializzarti.”
“In un quartiere babbano non è prudente, lo sai.”
Rose preferì tacere il disaccordo e si disse contenta che fosse andato tutto bene.
A volte, come in quell’istante, le succedeva di perdersi in frammenti di passato e sorprendersi dello scorrere rapido del tempo: Dorian Diggle in un anno e poco più era diventato una costante nelle sue giornate – dai primi baci al sentirsi legata a lui il passo non era stato brevissimo, ma neanche estenuante.
Era entrato a far parte della sua vita quando il quotidiano s’era rovistato tutto e le certezze erano andate in pezzi assieme al cuore. Rose indugiava raramente su quei ricordi, su quel sesto anno vissuto tra le rovine, ma quando accadeva si stupiva della forza d’animo che aveva scoperto di possedere.
“Cena fuori io e te?”
Rose, ridestata, si accorse di essere ormai nell’Atrium e dello sguardo speranzoso di Dorian su di sé.
“L’hai visto tu stesso, devo lavorare.”
“Non fai altro da quando ci siamo diplomati,” rimproverò bonario. “Solo stasera.”
“Il fine settimana,” rilanciò. “Il fine settimana lo passiamo insieme, ovunque vorrai.”
“Anche nel cottage dei miei, tutto vuoto, solo per noi?”
“Lo spero, Diggle,” ironizzò. “Soprattutto che sia tutto vuoto!”
“Conterò i giorni.”
Rose lo salutò con un bacio a fior di labbra e si smaterializzò non appena fu possibile.
L’aria gelida che era piombata su Godric’s Hollow già agli inizi di novembre l’accolse come uno schiaffo in viso non appena i piedi toccarono il marciapiede nei pressi di casa, si strinse così nella mantella e percorse rapida i pochi metri che la separavano dal proprio villino.
Fu quando era ormai a un passo dal cancello che dava sul giardino che si accorse di una figura silenziosa in palese attesa – e se lui curvò le labbra in un sorriso sbilenco, lei le schiuse sorpresa.
“Ciao, dolcezza.”
Un fischio sordo a riempirle l’udito, uno sbatacchiare di ciglia ad allontanare invano un capogiro.
Ciao, dolcezza.
Che lo scorrere del tempo sapesse arrestarsi, riannodarsi, tornare tutto indietro, Rose lo capì in quell’istante, sopraffatta da sensazioni contrastanti che da un lato avevano il gusto del passato più amaro e dall’altro affogavano nell’inquietudine e nella perplessità più viva.
Non aveva alcun senso che lui fosse lì – nessuno.
Lorcan Scamander aveva distrutto la loro amicizia anni addietro, quando a seguito di un bacio affidato al tramonto aveva iniziato a essere schivo, a negarle la vicinanza fisica, finendo col confessarle di aver commesso un errore – s’era dovuta abituare alla sua lontananza e poi alla sua assenza, accettando controvoglia la fine di un legame che aveva creduto indistruttibile.
E ora, ora erano a un passo di distanza – perché.
Forse avrebbe dovuto chiedergli cosa l’avesse portato da lei, ma riusciva solo a guardarlo, notarne i lineamenti più decisi, i ricci orribilmente legati, gli occhi che la scrutavano, le mani nervose che sembravano trattenere l’impulso di toccarla.
Disorientati.
Lo erano insieme – lei che incespicava nei suoi stessi ragionamenti, lui che aveva l’aria di chi assecondava l’istinto senza sapere come procedere.
“Forse non dovevo venire,” riprese lui, più a disagio di quanto era parso pochi secondi prima. “Ma volevo salutarti, vederti.”
“Credevo fossi negli Stati Uniti con tuo fratello.”
“È così, sono partito dopo i MAGO, non sono più tornato sino a oggi.”
“Ti mancavo?”
“Ti rispondo se mi fai entrare.”
No.
Era la risposta che Lorcan meritava e anche la più giusta – sensata – da rifilargli; una risposta a seguito della quale avrebbe dovuto dargli le spalle e dimenticare di averlo rivisto, infischiarsene se gli mancasse o meno.
Ma Rose, con lui, era sempre stata maestra nel compiere la scelta più sbagliata possibile e non si smentì neanche quella volta: messo da parte ogni disorientamento, sbottò in una risata arresa e gli fece cenno di seguirla.
Poco dopo erano nella cucina di casa Granger-Weasley, i mantelli sfilati e il camino rianimato dalla magia – sbagliato tutto sbagliato.
“I tuoi genitori?”
“In Norvegia, c’è un convegno internazionale sullo Statuto di Segretezza, mamma ha dovuto presenziare e papà l’ha accompagnata.”
“Hugo è a Hogwarts.”
“Siamo soli, se è questo che vuoi sapere.”
“Cercavo di fare conversazione.”
“Con l’età sei diventato un damerino?”
Lorcan, colto il sarcasmo della domanda, scosse la testa e rise assieme a lei.
“Sempre stronza, dolcezza.”
“Vuoi restare? Mangiamo insieme.”
“È un modo per dirmi che hai imparato a cucinare?”
“Cibo precotto,” rispose lei, mostrandogli un aggeggio dall’aria babbana poggiato sul ripiano della cucina. “Ti presento il microonde, i babbani sono pratici.”
“Non ho capito niente di quello che hai detto, ma va bene, avvelenami pure.”
“Ti piacerà, vedrai.”
Lorcan non ribatté, ma prese posto a tavola e la osservò destreggiarsi rapida e sicura con il microonde. Quando intuì che fosse sul punto di servire la cena, si offrì di apparecchiare e di portare da sé il proprio piatto.
Si ritrovarono seduti l’una accanto all’altro come non accadeva da due anni, e se ci fu imbarazzo furono abili a camuffarlo.
“Com’è?”
“Buono,” approvò Lorcan. “Però per sicurezza assaggio anche il tuo!”
“Ehi!”
Rose non fece in tempo a sottrarre il piatto al ladro, la forchetta di Lorcan fu più lesta.
“Il tuo è più buono,” mentì.
“Non è vero!”
“Allora assaggia il mio.”
“Non voglio assaggiare il mio… cioè il tuo… Mi confondi!”
Lorcan sghignazzò e Rose, occhi al cielo, si convinse ad assaggiare la sua parte, asserendo poi che il gusto non fosse affatto diverso.
“Perché sei tornato?”
“Credevo volessi chiedermi perché sono partito.”
Rose tacque per alcuni istanti e Lorcan intuì che stesse decidendo se proseguire la farsa o scoprire le carte – se ancora la conosceva, era certo che avrebbe scelto di mettere via le maschere.
“In realtà vorrei chiederti perché ti comporti come se fossimo ancora amici.”
Lorcan ingoiò il sorriso, ma Rose colse il tremolio delle labbra e trattenne l’impulso di accusare il suo compiacimento di essere fuori luogo.
“Mi sei mancata.”
“E perché non sei tornato?”
“Mi mancavi anche a Hogwarts, ma pensavo fosse meglio per te non avermi vicino.”
“Avresti potuto chiedermelo, lasciarmi scegliere.”
“Se non fossi stato una testa di cazzo, l’avrei fatto,” ironizzò. “Ma ora è passato del tempo, ho pensato che...”
“È acqua passata,” intervenne Rose, più brusca di quanto avesse voluto. “Sono cresciuta, sono cambiate tante cose.”
Lorcan ingoiò a vuoto senza un motivo e benché volesse chiederle di raccontargli i cambiamenti preferì tacere e riprendere a scherzare sul cibo precotto babbano. Rose lo assecondò svelta e non riuscì a stupirsi della capacità che avevano, quando erano insieme, di contrastare le inquietudini e ritrovarsi in silenzi e battute.
La cena volò più in fretta di quanto entrambi avessero sperato, ma sordi a salutarsi decisero di spostarsi in salotto e spulciare qualche canale televisivo. Rose apprese così che Lorcan, memore dei pomeriggi trascorsi assieme a lei in compagnia dell’apparecchio babbano, aveva acquistato un televisore per guardare dei film prima di addormentarsi – avrebbe voluto mimare indifferenza, ma si aprì in un sorriso tanto luminoso da spronare Lorcan a sfiorarle il dorso della mano con un bacio.
“Ora mi dici perché sei tornato?”
Lorcan, seduto accanto a lei sul divano, si voltò a guardarla.
“Al MACUSA l’addestramento per entrare a far parte degli Auror dura un anno, non tre come da noi. Ho concluso il mio ciclo a settembre e a ottobre ho sostenuto l’esame per entrare in servizio.”
“Sei un Auror?”
Tacquero per brevi istanti – in altri tempi lei sarebbe stata la prima a saperlo, a stringerlo in un abbraccio pieno di calore, a sussurrargli quanto fosse orgogliosa di lui.
“È meno entusiasmante di quanto credessi,” ammise Lorcan. “Sono qui per sostenere un altro esame, voglio essere abilitato anche dal nostro Ministero.”
“E puoi farlo?”
“Sì, ma dovrò dimostrare di avere lo stesso livello di chi ha fatto tre anni di corso. L’esame è a gennaio.”
“Partirai di nuovo, poi?”
“Non lo so.”
“Non hai progetti?”
Le labbra di Lorcan tremarono come Rose non ricordava di averle mai viste tremare, intuì che avesse rinunciato a dirle qualcosa, ma non riuscì a spronarlo come era abituata a fare in passato – malgrado la cena, le risate, le piccole confidenze, seguitava ad avvertire il peso di due anni di silenzio e il disorientamento provocato dal suo inatteso ritorno.
“Lysander è rimasto negli Stati Uniti?”
“No,” rispose subito lui, felice di riempire il silenzio. “È venuto con me, restiamo per Natale, ma credo ripartirà prima, sta studiando alcune strane creature, non ho capito bene, collabora con un’americana, una tipa che parla troppo.”
Rose non avrebbe saputo spiegarne il motivo – forse era colpa del tono sfinito con cui Lorcan aveva parlato della collega del fratello, forse era solo tensione accumulata, forse altro –, ma scoppiò a ridere.
Una risata improvvisa, fragorosa, che le accese il viso e contagiò Lorcan. Una risata in grado di scacciare via qualche fardello di troppo, o anche solo costringerlo in un angolo, regalando a entrambi una leggerezza complice e nostalgica.
Non s’accorsero dell’ora tarda né dei film che seguitavano a succedersi sullo schermo, tra sigle di apertura e titoli di coda; non si accorsero neanche di appisolarsi insieme, finendo sdraiati su un divano troppo piccolo perché le gambe non si incastrassero.
A destarli all’alba, non troppo tempo dopo essersi addormentati, fu un gufo che picchiettava insistente contro una delle finestre.
Rose si tirò su tutta arruffata e con gli occhi ancora annebbiati dal sonno sfilò la pergamena dalle zampe dell’animale, mentre Lorcan tentava di mettersi almeno seduto tra uno sbadiglio e l’altro.
“Chi ti rompe il cazzo a quest’ora?”
“Qualcuno che non vuole faccia di nuovo tardi a lavoro.”
“Il tuo capo?”
Rose lesse rapida una, due, tre volte le poche righe di Dorian, e in particolare rilesse quel Buongiorno, amore che riuscì a farle percepire come assolutamente sbagliato l’aver trascorso le ultime ore in compagnia di un altro ragazzo.
“No, è il mio fidanzato.”
Lorcan incassò il tono secco di lei alzandosi in piedi e raccattando le proprie scarpe, mentre una mano tentava invano di sistemare i ricci scompigliati.
“Che fai, vai via?”
“Non voglio crearti problemi.”
“Non me ne crei, Dorian non è geloso dei miei amici.”
“Dorian?”
“Dorian Diggle, era a scuola con noi, frequentava il mio anno.”
Lorcan annuì con fare distratto e riprese a parlare solo quando, un’oretta più tardi, si chiusero la porta di casa alle spalle.
“Non sono solo qui,” disse improvviso. “A parte Lys, dico.”
Rose lo fissò incuriosita, ma non lo incitò a parlare – qualcosa le diceva che non avrebbe voluto ascoltare le sue parole.
“C’è anche la mia ragazza, lei… Si chiama Sybil, ci siamo conosciuti al corso.”
“Anche lei Auror?”
“Sì, ha superato l’esame, ma è qui per stare con me, non vuole essere abilitata dal nostro Ministero.”
“Buon per te. Sono felice abbia incontrato una persona con cui condividere i tuoi progetti.”
Rose tentò di far seguire un sorriso a quelle parole, ma Lorcan non riuscì a mimare neanche una smorfia – d’improvviso gli sembrava tutto sbagliato: essere tornato, averla cercata, trascorrere tempo insieme.
“È meglio che torni a casa,” riprese lui. “O Sybil costringerà Lys a dirle dove abitano i miei amici.”
Rose abbozzò di nuovo l’espressione di poco prima, si lasciò baciare la guancia e lo guardò smaterializzarsi.
Si accorse di aver trattenuto più di una lacrima non appena rimase sola e un pianto silenzioso, nervoso, rischiò di arrossarle gli occhi. Tamponò svelta le guance, trasse un respiro e si disse che Lorcan Scamander non significava più nulla per lei, nulla.
Però.
La giornata trascorse lenta, lentissima, così tanto da darle l’impressione che un’ora fosse fatta di almeno duecento minuti. Tentò di essere produttiva, dare un senso al tempo dilatato, ma riuscire nell’impresa non allontanò il malessere che s’era aggrappato ai pensieri, tale da indurla a incassare con poco entusiasmo persino un cenno d’approvazione della Robards.
Quando calò la sera e Dorian s’affaccio come era solito fare al suo ufficio, Rose faticò a sollevare lo sguardo su di lui, anzi raccattò ciò che le apparteneva e lo infilò in borsa sbrigativa, indossò la mantella e raggiunse il ragazzo col piglio di chi aveva intenzione di lasciarsi il Ministero alle spalle senza indugiare in chiacchiere e saluti.
“Che è successo?”
“Ceniamo insieme, ti va?”
Rose intuì dallo sguardo dubbioso di Dorian che avrebbe voluto chiederle spiegazioni, ma apprezzò la scelta di assecondarla e rimandare le domande a quando avrebbero avuto la pancia piena.
Dorian sapeva aspettare.
Era un tratto di lui che aveva scoperto durante le prime settimane di frequentazione – se le piacesse o meno, non l’aveva capito subito, ma di certo aveva saputo rasserenarla. Aveva una grande sicurezza in se stesso, idee salde, sorrisi sinceri, un’innata propensione a maneggiare con cura la pazienza e scegliere i tempi giusti per dire cose o compiere gesti.
La loro intesa era nata e cresciuta così, scandita da cose e gesti apparsi al momento opportuno, quando nessuno dei due avrebbe potuto esserne turbato o macinare dentro incertezze – a volte Rose credeva di amare Dorian, altre dubitava persino di volergli bene.
“Ieri ho visto Lorcan, ti ricordi di lui?”
“Scamander?”
“Abbiamo parlato sino all’alba, non lo vedevo da due anni.”
Un botta e risposta rapido, appena dopo cena, mentre erano ancora impegnati a ripulire la cucina.
Rose vide la serenità artefatta di Dorian creparsi e le sue mani abbandonare qualsiasi proposito per ricadere rigide lungo il corpo. Ciò nonostante, non chinò lo sguardo né si preoccupò di mascherare il sorriso nervoso che le piegava le labbra, anzi seguitò a mettere ordine come se gli avesse detto una cosa senza importanza, sino a occupare di nuovo una delle sedie, poggiare i gomiti sul tavolo e abbandonare mollemente il viso tra i palmi.
Dorian le fu accanto in una manciata di attimi e affondò le dita nei capelli ramati – Rose ne incrociò gli occhi scuri alla ricerca di parole mute, ma lo sguardo di Dorian era nebbioso.
“È per questo che sei così strana?”
“Non ti dà fastidio che abbia dormito qui?”
“Non sono geloso del passato,” disse. “E Scamander è passato.”
È passato.
Un’affermazione razionale, eppure capace di scuotere Rose in maniera così violenta da indurla a baciare Dorian al solo scopo di frenarne le parole – Dorian che rispose reattivo e s’alzò svelto per offrirle il tavolo come appoggio mentre una foga inedita ne animava carezze e baci.
A Rose sembrò che assieme ai vestiti volesse strapparle via anche i ricordi, questo le piacque e lo assecondò con tutto il trasporto possibile.
Trascorsero l’intera notte assieme come non accadeva da tempo e l’indomani arrivarono entrambi in ritardo al Ministero – Dorian la salutò con la promessa di liberarsi nel più breve tempo possibile, ma Rose non gli restituì che un sorriso.
 
Un paio di giorni dopo, Rose aveva la certezza di essersi ritrovata: le sensazioni opprimenti erano andate via e lei sentiva di essere di nuovo la giovane donna impegnata a costruirsi il futuro – senza alcun passato a ingombrare il presente. Aveva accantonato le ore trascorse con Lorcan e ciò che si erano detti, perché lui non apparteneva al suo presente, s’era costruito una vita con altre persone e presto sarebbe ripartito – per quanto ne sapeva, non l’avrebbe rivisto mai più, non aveva senso pensarlo, cercarlo, pretendere spiegazioni, non ne aveva.
Poteva andare tutto bene, andava tutto bene.
Era calata la sera mentre era ancora affaccendata, Dorian non l’aveva raggiunta come da abitudine e una strana inquietudine la sorprese mentre raggiungeva l’Atrium da sola cercandolo tra i tanti volti.
No.
Un monosillabo solo pensato, un freddo improvviso a ghiacciarla.
Dorian era a pochi passi da lei, nelle vicinanze dei camini, e parlava con due figure che Rose non voleva neanche immaginare, figurarsi vederle l’una accanto all’altra. Tuttavia, conscia di non poter fare altrimenti, si avvicinò ai tre – e se Lorcan distolse lo sguardo quando Dorian le sfiorò le labbra in un saluto, Rose strinse la mano di quella che non poteva essere altri che Sybil con un’espressione di palese disinteresse.
“Lorcan mi ha raccontato degli Auror, non mi avevi detto nulla,” rimproverò bonario Dorian all’indirizzo di Rose.
“Non credevo ti interessasse,” replicò. “Sei qui per le scartoffie da firmare, immagino,” disse poi a Lorcan.
“Immagini bene, le solite rotture di cazzo.”
“Oltreoceano sono meno noiosi?”
“La burocrazia è meno lenta,” intervenne Sybil. “Lor perderà solo tempo qui.”
Lor – Rose sentì il fastidio schiacciarle lo stomaco, ma lo ignorò.
“Il tempo è fatto anche per essere perso,” ribatté.
“E io amo perderlo,” s’accodò svelto Lorcan. “E stasera ho voglia di perderne parecchio.”
“È un invito.”
“Se non avete di meglio da fare.”
Rose avrebbe voluto imitare il sorriso sbilenco di Lorcan, ma preferì voltarsi a guardare Dorian e cercare una risposta nel suo viso – le parve di intravedere una certa curiosità, sebbene non ne comprendesse il motivo.
Sarebbe stata una serata strana.
Si ritrovarono così in uno dei ristoranti più in voga tra i maghi londinesi, tra pietanze raffinate, vino elfico e chiacchiere conviviali.
Rose decise di lasciarsi trasportare dagli eventi e di tenere a freno i pensieri, altrimenti avrebbe dovuto chiedersi perché Dorian avesse insistito per recarsi in un posto al di sopra delle possibilità economiche di tutti loro – non era al corrente di quanto guadagnassero Lorcan e la sua fidanzata, ma dubitava che dei cadetti percepissero uno stipendio generoso – e ancora perché sia lui che Lorcan si parlassero col tono dei vecchi amici, perché quella Sybil sembrasse interessata a conoscerla.
Con i perché messi da parte, tuttavia, doveva ammettere di star trascorrendo delle ore quasi piacevoli, sebbene faticasse a ignorare la deferenza dei camerieri nei loro confronti – era certa che avessero riconosciuto in lei e Lorcan la figlia di e il figlio di.
“Lysander ha una mente molto aperta, sono felice di avere un cognato come lui! Quando Lor mi ha detto di avere un gemello ho subito pensato fosse uno scapestrato, non so perché!”
“Perché non lo conoscevi, è semplice,” chiosò Rose.
Sybil mimò un sorriso che non oltrepassò le labbra e Rose pensò che quell’espressione fosse forse la più sincera che le avesse rivolto sino a quel momento.
“Sei una persona molto diretta.”
“I giri di parole sono una perdita di tempo,” concesse Rose. “Credevo odiassi perderne, volevo essere gentile.”
“Rose è molto onesta,” intervenne Dorian con un gran sorriso. “Dice sempre quello che pensa.”
“Ed è una qualità o un difetto per un’aspirante diplomatica?”
Rose incrociò gli occhi castani di Sybil e vi lesse non cattiveria né provocazione, ma genuina curiosità – o era un’abile bugiarda o non aveva percezione dei limiti, decise che difettasse in entrambi i casi.
“Quando lo scoprirò, ti scriverò un gufo,” ironizzò. “Per ora pensiamo al dolce, voglio qualcosa con la cioccolata.”
“Tu vuoi sempre qualcosa con la cioccolata,” intervenne Lorcan, rubandole il menu per sbirciarlo prima di lei. “Devi prendere questa, La delizia del Prescelto!”
“Stai scherzando? Hanno davvero chiamato così un dolce?”
Rivestita di caramello, la Delizia del Prescelto ha un cuore tenero e fondente… Non ti piace, è amara.”
Non ti piace.
Rose era sicura che la terra non avesse tremato, ma lei aveva avvertito uno strano tremore solleticarle i piedi – la sicurezza con cui Lorcan aveva pronunciato quelle parole l’aveva riportata indietro di anni e per la prima volta in quella manciata di giorni si chiese sul serio cosa stesse facendo, si chiese tutti quei perché scacciati ore prima.
Era così scossa che non fiatò neanche quando il proprietario del ristorante insistette per offrire loro la cena, stringendole la mano con viscida foga. Salutò Sybil con parole ipocrite – “è stato un piacere conoscerti” – e Lorcan con uno sguardo che temeva urlasse il caos che aveva dentro. Salutò anche Dorian, ma aspettò di restare sola con lui per dirgli di essere stanca e di voler rincasare da sola; si smaterializzò senza dargli tempo di interrogarla né invogliarla a cambiare idea.
Avrebbe dovuto immaginarlo.
Fu questo il primo pensiero a sorprenderla quando, materializzatasi nei pressi di casa, scorse Lorcan a un passo dal cancello, le mani in tasca e il sorriso sbilenco in viso.
Non aveva alcun diritto di essere lì.
Fu il secondo pensiero che s’affacciò in lei, perché lui non poteva credere di potersi presentare a casa sua una seconda volta come se niente fosse, per giunta dopo averla costretta a fingere che andasse tutto bene, con quella faccia da schiaffi che… che cosa? Cosa significava? Aveva tutto in subbuglio e faticava persino a distinguere pensieri razionali da impulsi emotivi.
“Sapevo che gli avresti dato buca.”
Una frase, un tono compiaciuto, non servì altro ai suoi pericolanti nervi per convincerla a macinare i passi che la separavano da Lorcan e schiaffeggiargli la guancia – solo quando vide quella porzione di viso arrossarsi capì di aver aspettato due anni per mostrargli nel modo più appariscente possibile la rabbia che sentiva scorrerle dentro in sua presenza.
Lui incassò senza dire nulla né indietreggiare, ma Rose lo vide ingoiare a vuoto e chinare lo sguardo.
“Cosa vuoi, Lorcan?”
“Non è evidente?”
“No, niente è evidente!” sbottò, rendendosi conto troppo tardi di non avere la forza per acquietare una volta ancora l’esubero di parole. “Forse hai battuto la testa durante l’addestramento e hai dimenticato di avermi esclusa dalla tua vita per un bacio, un bacio, Lor, per un cazzo di bacio tu non mi parli da due anni, un giorno eri il mio migliore amico e quello dopo non eri più niente, io non ero più niente per te, cosa vuoi adesso, cosa ti aspetti che faccia, sei un estraneo per me lo sei da due anni.”
Aveva parlato così svelta da dubitare che Lorcan fosse riuscito a seguirla, ma non le importava. Che lui capisse o meno, rispondesse o meno, ribattesse o meno, non le importava affatto. Ciò che aveva importanza e che, se ne accorse all’istante, riusciva ad alleggerirla era aver buttato fuori quei pensieri – via via via.
Aveva voglia di piangere.
Non un pianto di rabbia né di tristezza, ma di pace – si sentiva stranamente calma, cullata dalla sensazione di aver scaraventato un peso lontano da lei.
“Mi dispiace.”
“È tutto quello che sai dire?”
“È tutto quello che vuoi ascoltare.”
Rose lo guardò amareggiata, lo oltrepassò e… Una mano a stringerle il braccio e poi uno strattone meno ruvido di quanto potesse apparire la costrinsero a voltarsi e a ritrovarsi faccia a faccia con Lorcan – tentò di divincolarsi, ma lui le strinse anche l’altro braccio pur di impedirle la fuga.
“Chiedimi perché sono partito.”
“È acqua passata, Lorcan, te l’ho già detto.”
 
Una settimana dopo
 
Un’altra notte insonne.
Lorcan si rigirò nel letto che condivideva con Sybil, ne guardò il profilo addormentato e un sospiro abbandonò le sue labbra.
Si alzò incurante del freddo e a piedi nudi uscì da quel piccolo perimetro addobbato da sua madre a stanza per gli ospiti e raggiunse la propria camera, dove c’erano Lysander e un letto vuoto.
Svegliò il fratello senza alcun garbo, facendosi spazio sul materasso occupato da lui e tirando via la coperta per costringerlo a non riaddormentarsi – Lysander odiava il freddo.
“Non puoi aspettare domani mattina?”
“No.”
“Sei insopportabile.”
“E dai, Lys, sono in crisi nera.”
Lysander sbuffò, ma si mise seduto e tutto stropicciato dal sonno focalizzò la figura del fratello.
“Posso almeno coprirmi o devo congelare?”
Lorcan sogghignò, ma riacciuffò la coperta per coprire entrambi, aspettando che l’altro ritrovasse un briciolo di calore e la lucidità utile ad ascoltarlo.
“Ci sono, dimmi.”
“Voglio spaccare la faccia a Dorian Diggle.”
“Immaginavo.”
“Voglio che Sybil esca dalla mia vita adesso.”
“Comprensibile.”
“Non voglio tornare a New York.”
“Prevedibile.”
“Voglio… Vorrei che lei tornasse nella mia vita.”
Lysander sorrise bonario, strinse la spalla di Lorcan e accennò un assenso col capo.
“Una cosa alla volta, Lor, io sono con te.”
“Lo so, tu sei sempre con me.”
Lysander gli restituì un altro sorriso e Lorcan capì che volesse infondergli fiducia, forza, qualsiasi cosa gli servisse per agire.
Era sempre stato un impulsivo.
Poi qualcuno – Rose – gli aveva messo davanti tutte le sue paure ed era stato costretto a ragionare; peccato che ignorare l’istinto gli avesse fatto commettere un errore dopo l’altro, sino al punto in cui non avendo idea di come rimediare s’era convinto che seguitare a sbagliare fosse la sola strada possibile, l’unica rimasta. Si era così ritrovato a New York senza averlo voluto, circondato da persone anonime, invischiato in una relazione che serviva solo a dargli un’illusoria stabilità e a fingere che a distanza di anni lei non gli mancasse sempre più.
Se ripensava all’ultimo momento che avevano trascorso insieme, quella notte d’estate, le emozioni provate gli risalivano tutte nel petto e lo comprimevano sino a impedirgli di respirare. Un miscuglio assortito malissimo, dove eccitazione gioia terrore tentavano di scavalcarsi a vicenda, che lo aveva indotto a fuggire quanto più lontano possibile da Rose – amare lo terrorizzava. Era un sentimento enorme e lui si era sentito piccolissimo in sua presenza, incapace di maneggiarlo senza creparlo. Aveva anche dubitato di riuscire a riconoscerlo: se quella per Rose fosse stata solo attrazione acuita dal bene immenso che le voleva, come avrebbe potuto perdonarsi di averla illusa per poi spezzarle il cuore? No no no, per il suo bene avrebbe dovuto perderla, uscire dalla sua vita, concederle il tempo utile a far sbiadire i sentimenti in esubero – e un giorno, quando quella notte non sarebbe stata che un ricordo, s’era convinto che si sarebbero ritrovati, amici più di prima.
Che illuso.
Si era allontanato da Rose senza darle spiegazioni, da un giorno all’altro, facendole credere che il loro legame non avesse importanza e fosse anzi superabile. L’aveva spinta a credere di essere meno di un’amica – doveva aspettarselo, che fosse arrabbiata con lui.
Tuttavia temeva che quella rabbia appartenesse al passato, esattamente come loro due insieme, e che fosse emersa nel presente solo perché l’aveva forzata ad allontanarlo e chiarire quali fossero i confini da non oltrepassare. D’altronde, come avrebbe potuto significare altro? Rose era andata avanti e in lui non vedeva altro che un estraneo – eppure… no, non doveva illudersi, non se voleva tentare di risanare qualcosa, convincerla a dargli un’altra possibilità almeno come amico.
“Non so come fare.”
Erano le quattro del mattino, sapeva che Lysander avesse sonno, eppure lo vide raddrizzarsi al pigolio e stropicciare gli occhi per svegliarsi un po’ di più.
“Inizia dalle cose che dipendono da te, inizia da Sybil, non è giusto neanche per lei tutto questo.”
“È che pensavo… non lo so… pensavo che ripresentarmi come amico… Che idea di merda presentarmi con Sybil.”
“Non darti colpe, eri solo… immaturo?”
“È il tuo modo per dirmi testa di cazzo, ho capito.”
Risero insieme e Lorcan gli rifilò una spallata giocosa.
“Dico sul serio, Lor, inizia da quello che dipende da te. Rose… lei è solo ferita, non penso che questo Dorian…”
“Dovresti vederlo, un coglione. Ho voluto conoscerlo per capire che tipo fosse e lui… Un coglione, non la merita, non sarà mai felice con quello…”
“Sì, certo,” lo interruppe accomodante. “Ma hai capito quello che ti sto dicendo, giusto?”
“Ho capito anche vuoi dormire.”
“Quello sarebbe veramente fantastico.”
“Sei più spiritoso da quanto te la fai con l’americana.”
“Gwenda è solo un’amica, te l’ho già detto. Non siamo come te e Rose.”
“Buon per te.”
Lysander, già sdraiatosi di nuovo, sollevò lo sguardo sul fratello a quelle parole amare.
“Andrà tutto bene.”
“Ci credi sul serio?”
“Sì.”
Non si dissero altro e Lorcan trascorse il resto della notte nel proprio letto; non aveva intenzione di tornare da Sybil né di pensare a lei, si scoprì invece a ripensare a cosa e come s’erano detti lui e Rose solo due settimane prima, a lui che si era presentato a casa sua e a quella nottata trascorsa insieme a dispetto del loro passato e delle persone che avevano accanto. Capì che prima che la razionalità intervenisse, l’istinto di Rose era stato quello di accoglierlo – e forse questo non significava niente, forse significava tutto.
Avrebbe dovuto rischiare.
E per farlo doveva seguire il consiglio di Lysander e iniziare a cambiare ciò che dipendeva da lui.
Poteva e doveva riuscirci. S’era fatto sopraffare dalle paure e poi dalla confusione e poi dall’incapacità di tornare indietro per troppo tempo – aveva la sensazione di aver perso due anni della propria vita, non voleva perderne altri.
 
Tre giorni dopo
 
“Stiamo litigando di nuovo?”
“A quanto pare sì.”
“E questo non ti dice niente?”
“Che sei diventato asfissiante, mi dice questo.”
“E lui non c’entra, vero?”
“Parla chiaro, Dorian, sai che amo la chiarezza.”
“Allora parlerò chiarissimo: da quando Scamander è tornato sei distante. E non negare,” aggiunse, “mi devi almeno questo.”
Rose lo guardò inespressiva, ripensando ai battibecchi che andavano avanti da giorni: Dorian le aveva fatto notare che per un vecchio amico aveva trovato il tempo negato a lui a oltranza, che per un vecchio amico il suo umore era diventato altalenante, che per un vecchio amico sembrava aver messo in pausa il loro rapporto.
Per un vecchio amico.
Rose era ancora così arrabbiata, perché si conosceva e sapeva che Lorcan era tornato a occupare il suo posto al primo saluto – che gli era stato sufficiente tornare affinché due anni sbiadissero e la mancanza premesse forte al punto da spronarla a dare a entrambi una seconda possibilità.
“Non sono innamorata di te.”
“Lo sei mai stata?”
Rose tacque e Dorian si congedò da lei con un’espressione tradita. Mentre si lasciava alle spalle la caffetteria dove erano soliti fare colazione, Rose disse a se stessa di essere una pessima persona, perché si sentiva bene, sollevata, libera, e dentro di lei il ricordo del tempo trascorso con Dorian era già diventato passato – capì solo in quel momento di aver vissuto emozioni artefatte, utili solo a nasconderne altre.
Entrò in ufficio con ritrovato buonumore, indirizzando un ghigno sfrontato ai colleghi che, aveva scoperto, si divertivano scommettendo sui suoi minuti di ritardo. Il sorriso vacillò solo quando scorse una figura nei pressi della sua scrivania, ma anziché svanire del tutto tramutò in una smorfia sorpresa.
“Come hai fatto a entrare?”
“Mio padre, sai, credo sia amico della Robards, lui conosce tanta gente.”
“E cosa ci fai qui?”
“Posso salutarti, almeno? Poi ti prometto che vado via se non vuoi parlarmi.”
Rose scosse la testa e lo abbracciò calorosa, Lysander ricambiò all’istante e le rivolse un gran sorriso quando s’allontanarono.
“Sei mancata anche a me, sai.”
Le labbra di Rose tremarono un po’.
“Faceva un po’ troppo male vederti,” ammise. “So che sai tutto.”
Lysander annuì e la seguì quando Rose lo invitò a uscire dall’ufficio per allontanarsi da quei pettegoli dei suoi colleghi.
“Non voglio crearti problemi, se devi lavorare…”
“Non ti preoccupare, nessuno licenzia la figlia del Ministro, neanche Bernice Robards.”
“La solita privilegiata.”
“Da che pulpito, Scamander.”
“Hai ragione, devo solo stare zitto,” concesse. “Sai perché sono qui.”
“Non voglio vederlo, non ho niente da dirgli. Se ne vada pure… dove vuole… con la sua tizia.”
“Ascolta, non voglio mettermi in mezzo, non dovrei neanche essere qui, però… Però tu parlagli solo un’altra volta, per favore. Solo… una volta soltanto.”
“Cosa credi possa cambiare?”
“Forse niente, ma se non lo fai cambia qualcosa?”
Rose incrociò gli occhi di Lysander e vi intravide speranza – si chiese se fosse tutta quella che mancava a lei. Lo abbracciò una seconda volta, forse perché non sapeva cosa dirgli, forse per illudersi di essere tra altre braccia.
“Nessuno lo conosce meglio di noi due,” mormorò lui stringendola. “È ancora così, sarà sempre così, lo sai anche tu.”
Rose tacque una volta ancora, ma si congedò con un sorriso che somigliava molto a un assenso.
Quella giornata fu l’ennesima a trascorrere lentissima, Rose aveva l’impressione che il tempo si fosse oramai dilatato e che ogni compito da svolgere richiedesse un carico di energie intollerabile.
Si lasciò il Ministero alle spalle con una stanchezza tremenda addosso, preferì addirittura utilizzare i mezzi di trasporto babbani per avvicinarsi a casa, così da rendere la smaterializzazione meno impegnativa. Una parte di lei le suggeriva che quello stato fisico ed emotivo fosse dovuto ad altro e che il suo inconscio stesse lavorando per ritardare quanto più possibile il rientro e la possibilità di trovare Lorcan ad aspettarla – decise di ignorarla.
Perché sbagliava.
Quella parte di lei sbagliava. Lorcan non era il motivo per cui, sbucata fuori dalla metropolitana, aveva deciso di racimolare le energie per smaterializzarsi altrove e non a casa propria.
E Lorcan non era assolutamente il motivo per cui dovette stringersi nella mantella quando una ventata d’aria gelida la colpì in pieno assieme al rumoreggiare del mare – Lorcan non era nessun motivo, lei aveva solo bisogno di pensare e per farlo aveva bisogno di solitudine.
“Ciao, dolcezza.”
“Lorcan?”
“Lys mi ha detto di averti parlato, immaginavo che avrei dovuto raggiungerti qui.”
Erano l’una di fronte all’altro, su degli scogli scivolosi affossati in un buio rischiarato solo dalla luna.
Rose ricacciò le mani in tasca, gelide e d’improvviso tremanti, ma non distolse lo sguardo dal viso di Lorcan – le sue risposte avrebbero potuto essere lì, o magari no.
Lorcan mosse qualche passo in avanti, sino a essere abbastanza vicino da poter raggiungere le mani di lei nelle tasche e stringerle per riscaldarle – sollevò le labbra nel suo sorriso sbilenco quando Rose, pur sussultando al contatto, non si ritrasse.
“Perdonami.”
“Dopo due anni, Lor?”
Lo vide chinare la testa, ma non per mimare una mortificazione, bensì per azzerare i centimetri che li separavano e far sfiorare le loro fronti.
“Ti ricordi cosa ti ho detto dopo il nostro bacio?”
“Di avermi persa.”
Lorcan annuì, trasse un respiro e incrociò quegli occhi chiari che lo fissavano sbarrati – li immaginò alla ricerca di spiegazioni, fughe, senso.
“Ero terrorizzato, io… non ero pronto, Rose, non ero pronto a una relazione, non ero pronto a perderti per essere stato un coglione… Io… Allontanarmi da te mi sembrava la mia unica scelta, allontanarmi prima che ti innamorassi di me e che io rovinassi tutto…”
“Ero già innamorata di te, coglione.”
Rose si allontanò da lui mentre pronunciava quelle parole, e uno due tre passi indietro, ma Lorcan fu lesto quanto lei, e uno due tre passi in avanti, sino a intrecciare di nuovo le loro dita, sopportando il bruciore causato dalle unghie di lei affossate nella pelle.
“Non ho voluto vedere, sono stato uno stronzo, lo so. Rose, io ho sbagliato, ho sbagliato tutto… Ho sbagliato così tanto che continuare a sbagliare mi sembrava l’unica cosa possibile, per questo sono partito… Non ho saputo restare… E ho perso la mia migliore amica insieme alla ragazza di cui sono innamorato.”
“Tu non sei innamorato di me, non dire stronzate.”
“Io sono innamorato di te, lo sono sempre stato, lo sai anche tu. Rose, so che non ti fidi di me, ma fidati almeno di quello che senti, fidati di quello che vedi… Tu… tu mi conosci, mi conosci come nessun altro, non posso mentire a te.”
Non posso mentire a te.
In Rose quelle parole rimbombarono così tanto da sovrastare sia il suono delle onde che il rumoreggiare della strada trafficata avvertito in lontananza. Ripensò alla sua audacia vecchia di due anni e a ciò che ne era seguito, al suo non capire come potesse aver frainteso così tanto i sentimenti di Lorcan – pensò anche alle lacrime, al malessere, alla solitudine vissuta per aver dovuto accettare di aver perso il proprio migliore amico. Si accorse di provare un’infinità di emozioni contrastanti, perché se un lato di lei avrebbe solo voluto godersi questo momento, un altro lato seguitava a essere furioso.
“E lei?”
“L’ho lasciata, non tornerò a New York,” si affrettò a dire. “Io… resto qui, resto qui anche se non vuoi vedermi e continui a frequentare quel coglione… Ti aspetto e… riconquisterò la tua fiducia, mi impegnerò… Ti rivoglio nella mia vita, Rose… Non esisto senza di te.”
“Non mi sembra che in questi due anni tu abbia smesso di respirare.”
Lorcan era pronto a ribattere una volta ancora, raccontarle di quanto si fosse sentito solo, perduto, disorientato senza di lei, ma nell’incrociare i suoi occhi azzurri vi lesse un alone di divertimento. Nell’istante in cui le labbra di Rose si poggiarono sulle sue, avvertì sul serio la sensazione di ritornare a respirare dopo una dolorosa apnea.
 
Un anno dopo
 
“No, non devi ascoltare loro, ti dico io cosa visitare qui, vedrai che con me ti diverti, questi due non frequentano posti babbani se non li trascino io, e i posti babbani sono i migliori! Guardati intorno, non è fantastico qui? Sono sicura che da voi a Londra non avete niente del genere, o forse sì ma tu sei come loro e non ci vai…”
Rose ci provava davvero a seguire il discorso di Gwenda, l’amica nonché collega americana di Lysander, ma quella ragazza parlava a una velocità incredibile ed erano almeno cinque minuti che non prendeva una pausa. Lorcan, seduto accanto a lei, le loro mani intrecciate sul ginocchio di lui, la fissava di soppiatto sogghignando, consapevole che si stesse sforzando di non perdersi in quel vortice di parole.
“Gwenda, abbiamo capito, farai tu da guida turistica,” intervenne Lysander, adocchiando lo sguardo allucinato di Rose. “Che ne dici di mangiare qualcosa?”
“So che questo è il tuo modo gentile di dirmi di stare zitta, non incanti più nessuno, Lys.”
“Dovresti ringraziarlo che è ancora gentile, io ormai ti manderei direttamente a fa…”
“Grazie, Lor, abbiamo capito,” chiosò Lysander. “Mangia anche tu.”
Scoppiarono a ridere tutti e quattro insieme, ma nessuno prestò loro attenzione. Erano in un pub scelto da Gwenda, seduti a un tavolo tondo identico a tanti altri, circondati da visi sconosciuti e sovrastati nel chiacchiericcio dalla musica ad alto volume.
“Quanto tempo resterete qui?”
“Una settimana,” rispose Rose. “Poi dobbiamo rientrare.”
Tu devi rientrare,” puntualizzò Lorcan. “Io frequento ancora il corso di abilitazione, che rottura di cazzo.”
“Puoi restare qui, se vuoi, per il MACUSA sei un Auror.”
Lorcan rifilò a Rose il suo sorriso sbilenco e si allungò a baciarle le labbra, ridendo contro la sua bocca quando lei anziché rispondere al bacio lo morse.
Era stato un anno complicato, per entrambi. Rose, intimorita dai loro trascorsi, non aveva voluto accordagli immediatamente la sua totale fiducia, così avevano ripreso a frequentarsi a piccoli passi, da amici prima e da qualcosa in più poi. Lorcan aveva rispettato i suoi tempi e l’aveva aspettata, a volte rischiando di fare qualche passo di troppo, altre riuscendo a sorprenderla senza neanche averlo voluto – quando era stato bocciato all’esame di abilitazione del Ministero, Rose aveva temuto di vederlo ripartire, invece era rimasto e aveva accettato di iscriversi al secondo anno del corso preparatorio per completare l’istruzione triennale.
Ora sembrava tutto così lontano.
I due anni di silenzio e lontananza, la rottura che era parsa irreparabile. Avevano dovuto impegnarsi, ma si erano ritrovati – non in riva al mare, ma nel quotidiano, nella presenza che non era più assenza.
Erano tornati a esserci.
 
~
 
“E quindi sei innamorato di me.”
“E tu di me, dolcezza.”
“Ne sei sicuro?”
“Sì, di noi due sono sicuro.”
 
 




 
NdA: non credevo sarei mai riuscita a finire questa storia, è in corso da anni e scriverla è stato molto difficile – ho cancellato e riscritto innumerevoli volte, niente mi sembrava funzionare e per un po’ ho proprio rinunciato alla stesura, convinta che non sarei mai arrivata alla conclusione. Neanche oggi mi convince totalmente, ma pubblico perché devo mettere davvero un punto a questo racconto e farlo uscire dalla mia testa.
I personaggi di Dorian e Sybil sono di mia invenzione e compaiono solo qui. Gwenda è la Gwenda di Paradiso perduto, un altro personaggio di mia invenzione.
A chiunque dedicherà tempo a questo racconto va il mio grazie, spero risulti una lettura almeno godibile.
Piccola parentesi: un grazie enorme a chi ha recensito uno o più racconti di questa raccolta, se non ho ancora risposto alle recensioni vi chiedo scusa, ma sappiate che vi leggo sempre e vi sono grata del tempo dedicato alle mie storie.
   
 
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