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Autore: Yumeji    06/02/2024    1 recensioni
Galvan il mago delle stelle e Lugh Arud, il guerriero arcano, sono una coppia di avventurieri scapestrati e al quanto incompatibili. Uno è un associale snob cui unico passatempo sembra essere quello di dormire, spacciando poi i suoi pisolini come "viaggi extra-corporei"; l'altro invece è un tipo simpatico, un buon combattente che però sembra portare una letale sfortuna ai propri compagni di viaggio, motivo per cui si è trovato suo malgrado ad affiancarsi all'individuo meno apprezzato della gilda.
D'altronde non si può accettare un incarico se si è da soli, ed entrambi sono sempre a corto di quattrini.
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Serie di avventure di una coppia insolita in un mondo fantastico tra le sue luci e le sue ombre.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- L'infelice -

Quando la loro dimora fu bruciata, la costrinsero a guardare i propri genitori ardere fra le fiamme.
L'umiliazione e la frustrazione le grattavano la gola mentre il bavaglio le impediva d'urlare, il corpo immobilizzato, incaprettata e lasciata in mezzo al fango come un qualunque capo di bestiame, il volto solcato dalle lacrime.
Gettati ancora vivi nel fuoco i coniugi Adularia erano stati imprigionati nel proprio maniero, cui porte erano sempre rimaste aperte per poter accogliere chiunque ne avesse avuto bisogno.
“Non si nega mai la carità, è dovere dei nobili elargirla come una benevola pioggia primaverile” era l'insegnamento preferito di sua madre, fedele di Sivistra, dea della natura - la più dolce fra le due sorelle genitrici. Una splendida donna fatta di dolcezza e carezze, cui unico peccato era stato quello di cercare il buono in qualunque individuo. Preziosa era morta tra atroci tormenti, gridando in maniera disumana, maledicendo coloro che stavano distruggendo la sua famiglia. Era incredibile come maledizioni simili potessero uscire dalla bocca di sua madre, blasfemie tali da rimanere impresse in maniera indelebile nei suoi timpani. Ad anni di distanza, poteva ancora udirle. L'odio, il dolore e la paura per il destino delle figlia ne avevano annientato lo spirito caritatevole, portandola negli ultimi istanti a pregare le divinità di uccidere i loro assassini. Non potevano tacere di fronte a quello scempio, dovevano fermare quell'ingiustizia! Loro non se lo meritavano, altrimenti a cosa era servito rimanere fedeli ai precetti delle chiesa per tutto quel tempo?
Nessuna delle sorelle però sembrò porgerle orecchio in quella terribile notte d'estate, illuminata di un rosso cupo.
Suo padre invece, da uomo dolce e mite quale era, proferì un'unica frase: “mi dispiace Acantha, amata figlia”; consapevole di non poterla in alcun modo proteggere per ciò che le sarebbe accaduto poi.
Nel sentirsi rivolgere quelle parole, la disperazione le aveva colmato il petto mentre, attorno a lei, zotici e bifolchi armati di torce e forconi esultavano nell'osservare l'agonia dei due nobili.
-A morte i nobili! Prendiamoci le loro terre! - gridavano colmi di in indignazione ingiustificata, quasi ritenessero quei terreni gli fossero stati sottratti e ciò ne giustificasse un gesto tanto estremo e violento quanto ingiustificato. Quei campi su cui avevano marciato, calpestando e bruciando il raccolto, su cui aveva lavorato nei mesi e settimane precedenti a quel giorno, non erano mai stati proprietà di altri se non delle sue famiglia. Da secoli ormai erano loro a gestire il terreni, affidandone poi la cura al popolo. Inoltre la loro tassazione non era particolarmente esosa, proprio per via del buon cuore di sua madre stavano sempre attenti a non chiedere più di quanto una famiglia potesse offrire. Studiavano l'andamento dell'anno per prepararsi ad eventuali periodi di magra o carestie, in modo da poter aiutare chi si sarebbe trovato in difficoltà. Se c'era qualcosa  che non andava nelle loro gestione perché non glielo avevano comunicato? Perché erano arrivati a sterminarli? Non capiva, era confusa. All'epoca era una ragazzina fuori dal mondo, quindici anni vissuti nella bambagia e nella cultura, in cui il dialogo era sempre la prima risposta.
Nel mondo al di fuori era però la violenza a vincere su tutto.
Le ore successive per lei furono un inferno, quei porci la spogliarono strappandone i ricchi abiti, rivelandone il giovane corpo nudo solo il loro sadico tornaconto e piacere.
Lei che era poco più di una bambina fu usata come un oggetto di piacere, passata da un individuo all'altro con la stessa semplicità con cui si porgeva una caraffa di vino. La definirono con disprezzo “cavalla da monta”, tenendola legata ed imbavagliata per tutto il tempo, senza lasciarle neppur modo di gridare il suo disprezzo.
Conclusero quando ormai stava sorgendo l'alba e, come nota conclusiva a quell'atto osceno, lasciandola sempre priva di vesti, le misero un cappio al collo e, passata la corda sul ramo di un albero, legarono l'altro capo ad un ciuco. Poi fecero muovere l'animale, il quale a passo lento ma inesorabile cominciò a trainarla, mozzandole il fiato. Inutili furono i suoi tentativi  per liberarsi, era troppo debole a causa delle atrocità subite, inoltre aveva mani e piedi legati. Intanto che gli uomini lì presenti la deridevano spuntandole addosso e gettandole contro dei sassi, lei poteva solo contorcersi nella polvere mentre finiva impiccata per mano della giustizia cieca di una folla priva di senno.

“Voi non siete uomini... siete bestie. E le bestie hanno bisogno di un padrone a cui obbedire.”

- Non lo pensa anche lei, mio caro cavaliere? - dopo averlo stretto al suo seno nudo si scostò da lui, sciogliendo le braccia che gli aveva stretto dietro alla nuca per trainarlo a se. Con una leggera spinta, un semplice tocco sulla spalla, lo fece inginocchiare a terra e nel vederlo non poté trattenere un sorriso, addolcito dallo sguardo speranzoso che l'uomo le rivolgeva. Era così obbediente e voleva che lei glielo riconoscesse facendogli i complimenti, ma di certo non bastava così poco per accomodarla. Per quanto in effetti dovesse ammettere fosse al quando ricettivo, poiché sembrava bastare un cenno perché ne traducesse i pensieri, tramutandoli in azioni, era davvero troppo appiccicoso. Se solo si fosse mostrato meno insistente sarebbe stato il partner perfetto con cui sostituire quell'individuo moscio e noioso che spacciava per suo marito. Peccato solo Lilia si fosse presa una cotta per lui e ciò le precludesse ogni possibilità di eleggerlo a nuovo locandiere.
Nel buio delle sua camera da letto si concesse per una seconda volta a quello straniero dai tratti esotici, che tanto ricordavano gli abitanti delle isole. Lo appagò e si fece appagare, dominandolo e tenendolo sempre in tensione così che i suoi pensieri non andassero altri se non a lei. Stava spingendo un po' troppo, o per lo meno un po' più del solito, ma d'altronde aveva dovuto insistere per portarlo a quell'incontro. Per quanto la sua pelle lo avesse inebriato, soggiogandolo, in qualche modo aveva tentato di opporsi al proprio stesso desiderio.
Ammirevole per un uomo, ma un cane rimaneva sempre tale per quanto pelo potesse perdere. E ora lui la stava in pratica supplicandolo di mettergli un collare, voleva una padrona cui dedicare tutto se stesso, anima e corpo.


Galvan si stupì quando, affacciandosi alla finestra della loro stanza, non trovò Lugh e la sua amante di turno. Non ebbe però il tempo di chiedersi in quale camera si trovassero che i rumori inconfondibili di un amplesso attirarono la sua attenzione. Per lui erano suoni inconfondibili per quanto sommessi,  fin troppe volte nei loro viaggi si era trovato a dover condividere almeno una parete con il compagno, il quale, quando non passavano la notte all'addiaccio, raramente la trascorreva solo.
Si appollaiò sul balcone, le finestre avevano gli oscuranti chiusi ma quello che componeva la parte superiore della porta era invece stato lasciato aperto, forse per una dimenticanza o magari era difettoso.
Con il suo becco si insinuò nel sottile spiraglio, allargando lo spazio in modo da poterci sbirciare dentro, sperando nel mentre la coppia fosse troppo distratta dalle “loro cose” per far caso ad un corvetto curioso.
Gli bastò un'occhiata alla stanza buia, appena illuminata dalla luce lunare, la quale grazie a lui entrava a dissiparne parte dell'oscurità, per comprendere si trattasse della stanza padronale, quella che di norma era occupata dai proprietari della locanda o dai loro parenti.
Strano, eppure Lilia gli era parsa sincera quando aveva negato di essere lei la fonte dell'interesse del buon cavaliere. Allora chi?
Un sussulto di spavento lo attraversò facendogli arruffare tutte le piume e per poco non si mise a gracchiare, non aveva idea che Lugh si dedicasse ad atti tanto estremi. Aveva sentito alcune dicerie per cui la privazione d'ossigeno aumentasse il piacere sessuale, ma il laccio che la donna gli stava stringendo attorno al collo non era un po' troppo stretto?
In più, chi diavolo era quella? Non l'aveva mai vista prima, era davvero un'altra ospite della locanda? Puzzava di magia malsana, quella per cui molto spesso i villici guardavano con astio gli studiosi degli arcani. Sapeva di palude e di bestia in gabbia.
No, forse non si trattava di un atto del tutto consenziente, se poteva avere qualche dubbio sulla parte del giochetto sessuale, ne era invece certo su quella in cui lei lo stava maledicendo.
Irruppe nella stanza sbatacchiando le ali e gracchiando come un forsennato. Non aveva abbastanza spazio per sollevarsi in volo ma con un piccolo aiuto magico si librò abbastanza da atterrare giusto sulla faccia della donna, la quale si mise ad urlare dallo spavento. Di riflesso, per proteggersi si portò le mani al viso, tentando di afferrarlo per toglierselo di dosso. Per Galvan però non era la prima volta in cui si trovava a combattere in quelle dimensioni ridotte e, nonostante la sconosciuta infine riuscì ad allontanarlo, in cambio ottenne di graffarle malamente il viso. Un lungo taglio sulla tempia destra, il quale prese presto a sanguinare copioso, andando ad accecarle un occhio.
Peccato, se fosse stato più attento avrebbe potuto strappargli il bulbo oculare, si rammarico mentre finiva scagliato a terra, rotolando in un ammasso di piume. In quella forma le sue ossa si facevano incredibilmente fragili e non si stupì nel leggero scricchiolio che avvertì dalla propria ala. Tanto finché aveva la magia avrebbe potuto continuare a librarsi quanto preferiva. Era un corvetto molto arrabbiato, e non aveva problema a ridursi a proiettile, il suo becco poteva diventare uno strumento letale.
- Ma che diavol-?! Un famiglio? - gridò lei, mentre si tastava il lungo taglio, il quale Gal sperava le avrebbe lasciato una cicatrice. Non gli piaceva, il suo istinto gli diceva non fosse una facile da gestire.
Per quanto la deduzione della donna fosse errata, il modo lucido in cui riusciva a ragionare dopo aver subito un attacco improvviso, tradiva non fosse qualcuno da sottovalutare.
- Quale è il tuo nome, sciocca cagna? - le domandò, le parole intrise in una magia di comando, sperando l'ordine la raggiungesse prima di un qualunque sistema difensivo dietro al quale avrebbe potuto ripararsi.
- E' buona educazione presentarsi prima di chiedere a qualcun altro di farlo, codardo – era stato ingenuo a sperarlo, era in quella che doveva essere la sua camera da letto, le protezioni dovevano essere state innalzate già da un pezzo. Difatti Galvan non si stupì quando, dall'oscurità delle stanza una frusta d'ombra si scagliò contro di lui, rapido si librò riuscendo ad evitare il colpo ma questa, prima rigida come un'asta, si ripiegò indietro, afferrando per una zampa. Con uno strattone fu scagliato a terra, spargendo un altro mucchietto di piume le quali presero a piovergli addosso, senza però toccare terra. Rabbioso Gal le bloccò a mezz'aria e con un incredibile controllo le indirizzò contro la donna, irrigidendone la struttura in modo da renderle taglienti come dei rasoi.
- E credi che se avessi voluto farmi conoscere mi sarei presentato così? -  gracchiò esultante, osservando una linea di sangue crearsi lungo l'avambraccio di lei. Per quanto le ombre si fossero alzate a farle da scudo, lo spiraglio di luna che, quasi per caso, aveva fatto penetrare nella stanza l'aveva colpita proprio in quel punto lasciandola scoperta.
- Quindi non ombre ma oscurità, altrimenti la luna non sarebbe tua nemica – ragionò attento, sentendo la frusta che ancora non lasciava la presa sulla sua zampa. Nonostante la ferita che le aveva provocato, non era riuscito a farla vacillare.
- Infatti non lo è, solo che ricevo il suo favore in altri modi – sogghignò lei, facendo un cenno al corpo di Lugh, il quale era rimasto del tutto fermo e immobile per tutto quel breve scontro. Non sembrava rispondere agli stimoli esterni e Gal era certo fosse sotto qualche incantamento, la sua attenzione però vacillò quando, nella boscaglia in cui il suo corpo si trovava, avvertì gli ululati farsi assai più vicini, troppo vicini.
- I miei adorati cuccioli ti hanno trovato, questo non è un semplice famiglio, vero? Sei tanto sciocco da aver lasciato il tuo corpo incustodito tesoro? - disse mentre si alzava mettendosi ai piedi del letto, afferrando un lenzuolo con cui si copri i seni bianchi, lo sguardo intelligente e scaltro che lo fissava furbo, assottigliandosi come se potesse vedere oltre quell'apparenza.
- Come hai..? - da una parte Gal voleva chiedere il funzionamento  della sua connessione con i lupi, dall'altra come avesse compreso non stesse usando alcun intermediario per prendere quella forma; era nella sua indole da studioso farlo, ma il suo battito cardiaco prese ad accelerare così come il respiro. Vinto da una paura atavica si trovò privo di parole con cui esprimersi, incapace di mantenere stabile la sua coscienza in quella forma.
- La luna mi guida e le tenebre mi avvolgono, ho rinnegato la mia esistenza per la sopravvivenza – un olezzo di animale misto a sudore si propagò nell'aria facendolo riprendere. Quelle erano parole intrise di magia malevola,
- Non ci provare, cagna infame! - imprecò gracchiante comprendendo avesse approfittato del suo momento di cedimento per riprendere il rito che aveva interrotto.
- Il tuo amico mi si è concesso, accetta la sua decisione e, tranquillo, verrà presto a trovarti assieme ai mie altri animaletti – lo derise dedicandogli un semplice cenno, la frusta attorno alla sua zampa a stringersi d'improvviso, trascinandolo nell'oscurità in un vortice di piume.

Galvan si risvegliò urlando, la tachicardia a rimbombargli nelle orecchie come una serie di tamburi ritmatici, quasi tribali. Per un momento si sentì scivolare nel vuoto e annaspò con le braccia alla ricerca di un appiglio, trovando infine la corda con cui si era legato al ramo.
Si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo mentre tentava di regolare il respiro, l'ossigeno però incapace di arrivargli ai polmoni doloranti, già colmi d'aria. Dopo una manciata di secondi si rese conto di essere nel pieno di una crisi di panico, la quale non era aiutata dall'ululato dei lupi, sempre più vicino.
Non riusciva a ragionare, la sua mente era un susseguirsi di campanelli di allarme. Sentiva il pericolo ad un passo e un timore istintivo, viscerale, naturale come se fosse sempre stato parte dell'animo umano.
Non era una paura normale. La perfida donna nel cacciarlo doveva avergli fatto qualcosa, lo sentiva. Quell'emozione aveva di certo un'origine magica, non poteva essere altrimenti. Lui non era un codardo o almeno non del tutto e, per quanto perso, ne aveva già avute di esperienze disperate. Mai, nemmeno una volta gli era capitato di avvertire quel cerchio alla testa per cui i pensieri vorticavano in una spirale scura, girando su se stessi senza un capo né una coda.
Lei gli aveva messo quel sentimento addosso e, per quanto non fosse sicuro di ricordarsi bene, gli pareva di aver sentito che i canidi percepissero l'adrenalina presente nel sangue. E non vi era emozione capace di riversarne di più della paura. In pratica gli aveva messo un bersaglio sulla fronte, furba la cagna.
Insulti a parte, chi era quella donna? La sua magia cos'era? Tenebre dissolte dalla luce lunare ma allo stesso tempo protetta dall'astro silente? O almeno era quello che lei aveva dichiarato, ma dubitava la luna accettasse passivamente di rimanere piena al di là del proprio ciclo.
Lo sguardo di Galvan era rivolta al cielo, appena visibile tra i rami di quell'albero a cui si era legato, ma nonostante ciò fu quasi accecato dalla luce del satellite notturno. Era tanto potente da oscurare la presenza delle sue amate stelle.
Uno scalpiccio gli fece accapponare la pelle, accompagnato da latrati e ringhi sommessi, Gal sentì il corpo irrigidirsi, il collo quasi bloccato mentre tentava di voltare il capo per portare lo sguardo alla base del tronco.
- Merda, merda, merda...- iniziò a biascicare, la paura a tornare, azzerando ogni pensiero e ragionamento, sentiva gli artigli grattare, graffiare la corteccia. E per quanto avesse sperato che la natura di lupo vincesse su quella umana, rendendoli incapaci di arrampicarsi sugli alberi, se c'era una coscienza lucida a comandare, ad indirizzarli, quella blanda difesa diventava nulla.
Un gruppo di sei lupi grigi, grandi il doppio del normale, avevano circondato il pioppo e ululavano in un coro inquietante, capace di riverberare nel suo petto, smuovendogli gli organi. Un senso di gelo gli aveva preso lo stomaco e stretto la vescica.
Mireranno alla gola, rifletté, la donna aveva compreso sapesse usare la magia, e poiché anche lei era una sorella delle arti arcane,  di certo non si sarebbe lasciata sfuggire la possibilità di assimilare nuovo potere.
- Aiutami – sospirò mentre osservava il corpo uno di quei lupi deformarsi, le ossa e spezzarsi in inquietanti scricchiolii, presto i suoi arti sarebbero stati adatti ad arrampicarsi, in una forma bestiale vagamente umanoide, ricoperta di pelo marcescente, colma di chiazze glabre che mostravano frammenti di pelle scura, di un rosso virulento, come se si fosse squarciato le carni, mettendo in bella mostra i muscoli e i legamenti. Gli parve persino di vedere spuntare un osso a lacerarne i muscoli.
- Ti sto chiamando: Bianca – si mise a concentrare l'energia magica, un leggero calore a riempirgli l'addome, risalendo dallo stomaco e creando una tenue luce, la quale gli si propagò dal petto, rischiarendo le ombre. D'improvviso sentiva di poter respirare meglio, come se fosse riuscito a sciogliere le radici oscure che si erano avviluppate al suo animo, la sola presenza di quella luce aveva scacciato la paura.
L'entità di cui si era nutrito la sera prima, una pura essenza dell'universo per quanto solo una sua piccola briciola, infinitesimale, ma abbastanza potente da mantenere una sua forma per quanto l'avesse assorbita. Una degna alleata in quel momento di disperazione.
- Hai chiam-ato? - riprese forma, i lunghi capelli corvini, il corpo sinuoso e il volto privo di lineamenti. La sua voce non si propagava più nell'ambiente, ma gli arrivava diretta nel cervello, un legame ormai indissolubile. Ora quell'essenza viveva in lui, e aveva tutto l'interesse a mantenerlo in vita. Il nome Bianca glielo aveva donato in modo potesse mantenere un io e non dissolversi, non ci aveva pensato molto in realtà, era per via della luce che sprigionava.
- Salvami – gli ordinò mentre ancora rimaneva disteso sul ramo, legato alla vita. Per quanto si sforzasse, non riusciva a celare l'emozione, la mano a tenersi come se cercasse di aggrapparsi a quella figura, un piccolo faro di speranza, la fiammella di una candela. D'altronde la luce lunare era fin troppo intensa, era quasi nauseabonda, soffocava quella delle sue stelle.
- Ti proteggerò, n-on temere – affermò il tono dolce ma fermo, svelando una forte fiducia in se stessa, la quale pareva stonare con la fragilità del suo essere. Probabilmente era stata un poco influenzata dalla natura un po' spaccona ed arrogante di Galvan.
Sperava ciò non le si ritorcesse contro.


Aveva fame, una fame bestiale, incontenibile, gli divorava il corpo dall'interno squarciandogli gli organi, deformandogli le ossa e i muscoli. Faceva male, era un dolore capace di far impazzire un uomo. Ma lo era ancora? Perché era a quattro zampe? Cos'erano quegli artigli, quelle zanne? Una pelliccia?
Un manto rosso tornò alla mente di Lugh squarciandogli i pensieri come una lama rovente, occhi di un argento vivo a posarsi su di lui, sondandogli l'animo, capaci di innalzarlo alla gloria o esortarlo alla calma con un semplice cenno.
Un senso di soffocamento lo colse, portandolo a rantolare, a guaire come una povera bestia presa a calci. Una stringa di cuoio gli circondava il collo, togliendogli il fiato, cancellando la riverente, possente e splendida figura che per un'istante gli aveva riempito lo sguardo. Ora c'era solo lei, la sua padrona.
Dove obbedirle, perché per lui ora non esisteva nient'altro, neppure il suo nome gli apparteneva più, anzi, finché non fosse stata la padrona a donarglielo, non ne possedeva più uno. Era solo un animale, non aveva bisogno di una coscienza, di un io.
Eppure, in una parte del suo cervello, sentiva ancora quegli occhi rivolgergli uno sguardo. Era deluso, rammaricato. Lo infastidiva, ma non capiva: chi era quel individuo?
Non se lo ricordava.
  
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