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Autore: Padme92    24/02/2024    0 recensioni
Lui è un pianista con una grande carriera concertistica alle spalle, mentre lei è una giovane nobildonna con una salute fragile. Una storia d'amore tragica, tra due anime amanti della musica, che iniziai a scrivere qualche anno fa, ispirata dalla lettura del romanzo "La dama delle Camelie" di Dumas.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Storico
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2.




Trascorsi il finesettimana fremendo all’idea di passare del tempo da solo con quella donna meravigliosa, ma allo stesso tempo mi angosciava l’inevitabile avvicinarsi del momento in cui avrei dovuto rimettere mano sul pianoforte. E se non ce l’avessi fatta? Se mi fossi scoperto incapace per sempre di fare musica? Temevo innanzitutto una figuraccia, e ancora di più l’idea di perdere ogni scusa per trovarmi in compagnia della signorina. Ciò a cui invece non dedicai un solo pensiero, era il fatto che lei potesse risultare un’allieva difficile: nessun’ombra scuriva l’immagine che ormai mi ero fatto di lei, ora al pari di una Beatrice dantesca.
Il lunedì arrivò presto, rimpiazzando la domenica con una fretta quasi sconveniente. Quel mattino mi alzai dal letto con la sensazione di essermi appena messo a dormire, e passai la giornata nella vana speranza di riuscire a toccare quei tasti bianchi e neri prima ancora di recarmi a casa Innocenti. Ma alla fine, alle quattro meno dieci minuti, mandai al diavolo la sagoma del mio pianoforte - sempre avvolto dal lenzuolo – e uscii in preda a un impeto d’incosciente spavalderia. Pochi minuti dopo ero introdotto di nuovo nella villetta, ma stavolta la domestica – che scoprii chiamarsi Rosa – mi guidò su per la scala principale e poi lungo un corridoio che portava a un’unica porticina di legno pitturato di bianco. Al di là si trovava la stanza da letto di Narcisa, che era molto grande, ed ospitava un Bluethner a coda, nero e dall’aria vissuta. Lo strumento sembrava riempire tutta la stanza con la sua presenza imponente, tanto che non notai subito il piccolo scrittoio di legno e il letto, sistemati in un angolo, accanto a un’ampia finestra. Il letto era molto alto, dall’aria soffice, e un focolaio spento dominava la parete in fondo, di fronte al quale stavano due poltroncine. L’atmosfera generale era di profonda quiete, ma dei cinguettii irregolari provenivano da un altro angolo della stanza, dove un canarino dal piumaggio rosato saltellava con allegrezza all’interno di una gabbia, che però mi parve troppo grande per un solo animaletto. Narcisa non c’era.
“Potete attendere qui. La padroncina farà presto,” mi informò Rosa, prima di lasciare la stanza. Una volta solo, nonostante mi guardassi intorno con attenzione, non osai quasi muovermi, tenendo stretta in mano la mia cartella contenente gli spartiti che avevo scelto di portare. Percepivo la presenza del pianoforte come un’ombra minacciosa in attesa di afferrarmi, dunque non mi azzardavo ad avvicinarmi allo strumento. Consapevole della necessità di risolvere il prima possibile quel problema assillante che – senza dubbio alcuno – risiedeva solo nella mia immaginazione, tentai di ricompormi e affrontare almeno con lo sguardo quel concerto chiaroscuro di tasti che ora ai miei occhi rassomigliavano quanto mai a un sinistro sorriso.
“Che hai da ridere?” bisbigliai infastidito in direzione del Bluethner. Ovviamente non rispose. Dovevo sembrare pazzo, ma ho sempre avvertito gli strumenti musicali come provvisti di una sorta di anima musicale. Oggetti inerti che però prendevano vita in mano a un musicista. Ora, l’anima musicale dell’oggetto e quella dell’artista – almeno secondo la mia discutibile teoria – si fondono nell’atto creativo del fare musica insieme, tanto che non è più possibile separare nettamente ciò che viene dall’uno e dall’altro. La bellezza che ne nasce non è altro che l’espressione di questa armonia di anime, che s’incontrano, si riconoscono e si amano profondamente. Dunque, siccome anche tra musicisti e strumenti musicali esistono le cosiddette affinità elettive, - esattamente come tra gli esseri umani – è normale che non sempre s’instauri quel feeling che permette la nascita di una relazione duratura. Può darsi che qualcuno abbia già scritto un trattato dal titolo: “Anche gli strumenti musicali hanno un’anima”. Se così non fosse forse un giorno lo farò io. Ad ogni modo, il rapporto tra me e il pianoforte si è sempre basato su un imprinting avuto quando ero solo un marmocchio di tre o quattro anni, e la paura che provavo in quel momento all’idea di rimettermi a suonare probabilmente era dovuta non tanto al fatto di avere una mano offesa, quanto alla sensazione che quella naturalezza del rapporto fosse ormai mutata e divenuta qualcosa di artificiale. Proprio come quando, nel rapporto di coppia, tutto diventa un’abitudine al punto che, un giorno qualunque, ti alzi e capisci che non la ami più. Ecco, forse era proprio questa la domanda giusta da pormi: all’alba dei trent’anni avevo già consumato tutto l’amore per il piano? Ma se così fosse stato, la ragione da ricercarsi era solo una: l’avevo amato male. In musica, come in ogni cosa, prendersi le proprie responsabilità è fondamentale. Eppure il senso di colpa non dovrebbe mai essere tale da annegare il desiderio di riscoprire la gioia di amare ancora, e amare meglio. Perché un rimorso – o un rimpianto – che non funga da molla per un cambiamento, è inutile e nocivo come un veleno che, protratto nel tempo, ti corrode internamente in modo irrimediabile. Ora, la cura del senso di colpa non può risiedere che in un due cose differenti: l’una è il perdono, e l’altra è l’azione volta a rimediare. Ed ecco ciò che avrei dovuto fare in quella situazione, qualcosa di molto semplice: sedermi e suonare, e – comunque fosse andata – perdonarmi di aver tanto a lungo trascurato il mio compagno. Tanto da essere quasi diventati due estranei. Ma cosa impedisce a due sconosciuti di ripresentarsi da capo? Solo la paura irrazionale di scoprirsi troppo cambiati. Ero dunque in codardo? Sicuramente lo ero stato. Ma non volevo esserlo più, dovevo smetterla di alimentare i sentimenti negativi, e spezzare una volta per tutte quel circolo vizioso. O almeno provarci, ed era esattamente per questo che mi trovavo in quella stanza. Tutti questi pensieri mi girarono per la testa nei pochi minuti che mi separavano dall’inizio di quella prima lezione di piano dopo tanto tempo, e s’interruppero solamente all’arrivo di colei che aspettavo: Narcisa entrò silenziosa come un fantasma, e il suono della sua voce mi ridestò bruscamente da quel viaggio interiore, facendomi voltare di scatto, palesemente colto di sorpresa.
“Siamo nervosi,” mi disse come prima cosa, con una vena canzonatoria nella voce.
“Nient’affatto,” mentii con decisione, maldisposto a esser giudicato così in fretta.
Ma non c’era risentimento in me. Anzi, il carattere spigliato di Narcisa era una delle cose che più apprezzavo della sua persona. Riusciva ad essere insieme estremamente sincera e piena di tatto, ma mi era ignoto il modo in cui vi giungeva.
“A ogni modo, buongiorno!” salutò lei con un sorriso radioso.
E già mi ero dimenticato perché mi trovavo lì, perso nei tratti del suo viso allegro.
“B-buongiorno,” balbettai in risposta. Ella ridacchiò. Poi scostò la panchetta del pianoforte e vi batté sopra con la mano, invitandomi a sedermi.
“Fatemi sentire qualcosa, vi va?”
Inarcai un sopracciglio.
“Dunque l’allievo sono io, qui?”
Rise di nuovo.
“Scherzavo. Sapevo che sareste stato terrorizzato. Non importa.”
Lo disse con semplicità, e alzando di nuovo le spalle, come se davvero fosse di poca importanza il fatto che non mi mettessi lì a suonare e basta. Mi sembrava di essere tornato per davvero un principiante, ma dal modo in cui lei mi parlava non mi riusciva di sentirmi umiliato. Al contrario, colsi l’occasione di reimparare a suonare da capo, se questo era ciò che mi toccava fare.
Narcisa s’attardò un momento a recuperare la sedia dello scrittoio per disporla accanto alla panchetta, lasciando il giusto agio per le braccia. Mi sedetti e lei fece altrettanto. Sul leggio era già presente uno spartito aperto: una composizione di Bach.
“Avete già preso lezioni prima d’ora?” domandai, incuriosito.
“Da ragazzina,” rispose lei, “Per qualche anno. Ma poi smisi quasi del tutto. Adesso che mi è venuta voglia di riprendere, mi sono messa da sola a provare qualche pezzo che studiavo all’epoca. Ma non sono molto brava.”
“Perché avete smesso?” domandai, con sincera curiosità.
“E voi?” replicò lei all’istante.
La domando mi spiazzò.
“Chiedo scusa. Ad ogni modo… Avevo un insegnante molto bravo, ma anche molto severo. Troppo, in effetti. Almeno per me. Non faceva che bacchettarmi sul tempo… Alla fine avevo delle crisi di nervi, in cui lanciavo gli spartiti nel camino.”
“La frustrazione è un nemico da tenere a bada, quando si studia uno strumento.”
“Forse dovrò farmi un cartello. Per tenerlo a mente.”
Sorrisi, poi tornai a rivolgere l’attenzione allo spartito.
“Questa è un’invenzione di Bach. Eravate già avanti.”
“Aspettate a dirlo. Ve la faccio sentire. Va bene?”
“Vi siete già scaldata le dita?”
“Sì, vicino al fuoco,” disse lei con disinvoltura.
Rimasi un attimo senza parole, poi scoppiai a ridere.
“Fatemi sentire un po’ di scale,” richiesi con fare da insegnante.
Allora Narcisa, docile, posò le dita sottili sulla tastiera, e fece una scala di do a moto parallelo. Poi la relativa minore. E così per le altre. Su alcune era un po’ incerta, ma tutto sommato le conosceva. Il moto non era regolare, e nemmeno particolarmente sciolto. Il polso della mano destra tendeva a muoversi su e giù, e il ritmo non era perfettamente regolare.
Quando ebbe terminato mi rivolse un sorriso di scusa.
“Chiedo venia per il mio dilettantismo.”
“Non devi scusarti. Fai quello che puoi e basta,” le risposi scuotendo la testa, “Fammi sentire Bach adesso.”
Narcisa prese un respiro profondo, e poi cominciò. Si trattava dell’invenzione numero quattro. Inizialmente era titubante, il tocco debole e svelto, quasi come se i tasti le scottassero i polpastrelli. Verso metà invece si era rilassata e procedeva per lo più grazie alla memoria muscolare, incurante delle piccole sfumature, ma in egual modo ispirata dal desiderio di esprimere qualcosa di normalmente ineffabile. Verso la fine in modo particolare mi stupì, interpretando con una sicurezza inattesa l’ultimo quarto del brano, che riuscì in qualche modo a farmi vibrare qualcosa dentro. Non saprei dire cosa esattamente mi colpì – forse solo l’aggressività con cui affrontò le ultime righe del pentagramma, così lontana dalla delicatezza del suo tocco sul resto del brano – eppure, nonostante nel complesso la sua esecuzione fosse stata imprecisa e il suono poco coltivato, essa suscitò qualcosa di curioso in me, durante l’ascolto. Mi accarezzò dentro.
Verificare il suo livello di preparazione, e conoscere i vizi a cui era inconsapevolmente attaccata, era basilare per poter stabilire una serie di obiettivi da perseguire. Uno alla volta avremmo rimosso i sassi dal letto del fiume – prima quelli più grandi, poi quelli più fini – dopodiché avremmo levigato il fondo a furia di far scorrere le dita sui tasti. Infine ci saremmo occupati degli argini. Era principalmente un lavoro di limatura, di grande pazienza. Non si finiva mai. Questo fu in sintesi quello che le spiegai dopo aver ascoltato la sua esecuzione.
   
 
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