Andrea.
1.
I am tired, I am weary,
I could sleep for thousand years
A thousand dreams that would awake me
Different colours made of tears…
Dio, cos’è questa canzone.
Come l’eroina.
Anzi, meglio.
Non lo so.
Forse prima dovrei iniziare a farmi di eroina per scoprirlo.
Che uomo Lou Reed.
Già uno che si chiama Lurido, ha tutta la mia ammirazione di adolescente pippaiolo.
Ma comunque.
Mi brucia una gamba.
Ma che cazz…
Porca puttana.
La sigaretta.
Addio 501 nuovi.
Che palle di vita.
Un sussurro passa attraverso le cuffie.
Sono certo non esista.
Shiny boots of leather…
Qualcuno bussa alla mia spalla.
Toc toc, chi è?
Mamma. Ciao mamma.
Cos’è che stai sillabando? Cena? Cibo?
Non se ne parla neanche, non ho fame.
Cosa dici? Spegnere cosa? Si si, lo spengo lo stereo.
Vengo a cena, si. Almeno la smetti.
2.
Vorrei proprio sapere chi è che fa i palinsesti di Mediaset. Dico davvero, vorrei conoscere quell’uomo per sputargli in un occhio. Ah, è un capo di stato? Cavoli, rischio il carcere.
Beh, se servisse a cacciare dal pianeta Enrico Papi, potrei anche sacrificare la mia limitata libertà vigilata.
“Suuu…Gira la Ruotaa!!!”
Cristo, come lo odio. Cristo come lo odio.
Mia madre sembra adorarlo.
Non credo di aver mai conosciuto un essere più insulso di lei.
Spero vivamente di esser stato adottato.
La sua maggiore occupazione consiste nello sperperare in vestiti inutili tutto quello che riesce a guadagnare fingendo di lavorare in ospedale.
I capelli sempre ordinati, accuratamente ossigenati, ritoccati dove serve, gambe depilate ed abbronzate anche in dicembre, botox in faccia, silicone in petto, e moscerini nel cervello.
Non l’ho mai vista leggere neanche il dosaggio dell’aspirina.
Dio ti prego, se esisti, dimmi che sono stato adottato.
Beh, posso sempre sperare per parte di padre.
Non averlo mai conosciuto mi rende libero di immaginarlo diverso ogni volta.
A quattro anni era un ometto rotondo coi baffi che mi comprava i libri di favole.
A undici era un po’ come Papà Gambalunga, un amico immaginario con cui parlare.
Adesso che di anni ne ho quasi diciotto spero con tutto me stesso che sia un maledetto dottorone che una sera di ubriachezza molesta si sia scopato mia madre e accortosi dell’errore sia scappato via…
In fondo l’illusione è un buon placebo per la vita.
Finisco il pasto e faccio per andarmene. Vengo arpionato.
“Tesoro ma sei felice che domani ricomincia la scuola? Conoscerai un sacco di gente nuova qui…”
Si, che bello. È esaltante trasferirsi dall’altra parte del paese dove parlano un dialetto che si riesce malapena a capire.
Voglio tornare a casa mia.
“Si mamma, felicissimo.”
Mento sapendo di mentire. Solo così sono libero di pensare ad altro.
Dio come odio questa situazione.
Meglio tornare in camera mia, la voce che urla dal televisore inizia davvero ad infastidirmi.
3.
Oh Nico, se tutte le donne fossero come te.
She’s a femme fatale…
È lunedì. Io odio i lunedì.
Ziggy Stardust mi osserva, con quei suoi occhi diversi e i capelli color carota.
In realtà gli occhi sono dello stesso colore, ma sembrano uno nero e uno blu perché una botta ricevuto da piccola gli ha dilatato in maniera esponenziale la pupilla.
Mi sa che è partita l’aria condizionata. Ho la pelle d’oca sulla pancia.
Come deve esser squallido vedermi da fuori. Un ragazzo dalla carnagione pallida che in mutande attende ad occhi aperti qualcosa che non sa neppure lui.
Forse è ora che mi tagli i capelli. Non ci vedo più.
Mi alzo, l’aria fredda dritta in faccia.
Condizionatore del cazzo.
Entro in bagno. Lo specchio riflette solo una lanosa matassa nera e due occhi dello stesso triste banale marrone.
Qualcuno del palazzo vicino sta ascoltando qualcosa che somiglia a Vasco Rossi.
Che non amo particolarmente, a dire il vero.
Mi sta ricrescendo la barba. Che si fotta.
La doccia mi fa rabbrividire.
Vago nudo e bagnato per la stanza, alla ricerca di qualcosa da mettermi.
Cazzo, è tutto da stirare, la donna di servizio arriva solo oggi pomeriggio.
Ripiego sui miei bei jeans bucati e su una neutra camicia con le maniche arrotolate.
Butto nello zaino qualche quaderno, borsellino, chiavi, telefono e sigarette. E accendino.
La cucina è illuminata da un piccolo spiraglio di luce ribelle che filtra attraverso la persiana.
Che spalanco per abituarmi al nuovo panorama mattutino.
La vicina sta ballando davanti alla finestra su qualcosa che credo si chiami Rewind.
È giovane, di certo meno di trent’anni, ancora in canottiera e mutandine, e non mi ha ancora visto.
Continua a sgambettare allegramente. Ha un bel corpo, in fondo.
Si ferma di botto, e mi guarda da dietro il vetro. Mi saluta.
Ricambio. Poi fa una cosa buffa.
Continuando a sorridere e a ballare, si alza la canottiera.
Benissimo, ho una vicina esibizionista.
Finisce la canzone. Abbassa la canottiera e mi fa un inchino.
Applaudo, e mi allontano dalla finestra. Belle tette, comunque.
In cucina non c’è lo stereo, solo il televisore. Beh, mi godo il silenzio.
Esco e mi incammino verso la nuova strada, zaino in spalla.
Dio, come non ci voglio andare.
Mi accendo una sigaretta.
Non possiedo un lettore mp3 portatile, per un semplice motivo: mi piace ascoltare i suoni del mondo che mi circonda, le cuffie mi isolerebbero soltanto. Gli unici rumori che detesto sono quelli di casa mia.
I discorsi dei passanti, i diversi accenti, le auto, i gatti che si corteggiano…alla fine potrei anche abituarmi a questa città.
Intravedo uno zainetto rosso davanti a me: magari è una mia nuova compagna di scuola, o magari di classe. Ma non mi piace il modo in cui cammina. Va troppo veloce, sembra una di quelle persone che non perde tempo a riflettere, troppo impegnata a sopravvivere. Si ferma ad un incrocio.
La affianco. Mi guarda (è più bassa di me, e di parecchio).
Mi pende ancora il mozzicone dalle labbra.
“Mi sono per caso spuntate le antenne?”
“…scusa?” Temo di averla scandalizzata.
“Non so, è da cinque minuti che mi guardi. Ed è da almeno due che non passa una macchina”.
Abbassa lo sguardo e ricomincia a marciare.
Si, l’ho imbarazzata. Ma stiamo andando dalla stessa parte.
L’edificio scolastico è davvero orrido. Mi domando chi potrebbe mai averlo fatto costruire. Ci scommetto che è un amico dell’omino dei palinsesti di Mediaset.
Zainetto Rosso sta entrando. Probabilmente è andata talmente veloce che non si è accorta che sono qua anche io.
Tante facce nuove nel flusso che mi porta via allo scoccare della campanella.
Tutti si conoscono, tutti sono amici.
Me escluso.
Il mio compito è quello dell’eccezione. Talvolta, del capro espiatorio.
Ma non mi interessa.
Cerco la mia classe, e faccio il grande passo.
Sono dentro.
Le frasi in corsivo sono di due canzoni dei Velvet Underground: Venus in Furs e Femme Fatale. Vorrei averle scritte io, ma purtroppo non è così.