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Autore: ballerinaclassica    28/11/2009    3 recensioni
Inghilterra detestava gli Hamburger; forse un po' meno l'America. Però gli Hamburger li odiava davvero tanto.
Genere: Romantico, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Da quando era arrivato, non aveva fatto altro che bere tea ed ascoltare silenziosamente le altre Nazioni parlare. Non che non fosse interessato, anzi.
Ma ad Inghilterra era sempre piaciuto poterli controllare senza abbassarsi ad inutili diatribe – a meno che non si trattasse di Francia, in quel caso un litigio era d'obbligo. Lui però – Inghilterra - guardava quasi con superiorità tutti gli altri, concentrandosi solo apparentemente sulla sua tazzina in raffinata porcellana.
Se ne stava più a Nord, sopra la manica, sicuro mentre le sue nuvole lo ricoprivano; e li osservava tutti, li studiava per benino, da cima a fondo e imparava a capire molte cose su di loro.
Non si chiedeva nemmeno come fosse starsene nel bel mezzo del continente. Non gliene poteva importare molto.

Inghilterra mandò giù un altro sorso. Il tea gli piaceva davvero tanto.
Contemporaneamente vedeva gocce di Coca Cola attraversare alla velocità della luce lo spazio che lo divideva da America ed andare a cadere meravigliosamente sulla manica della sua nuova camicia. Firmata, costosa e soprattutto meravigliosamente candida e pulita.
Quella camicia gli piaceva. Ma la Coca Cola no. Poi gli piaceva oltremodo lamentarsi, questo era rinomato tra tutte le Nazioni che avessero avuto a che fare con lui.

«Alfred, razza di idiota, non sai nemmeno bere?!»

I rimproveri erano rivolti sempre ad Alfred, solo ad Alfred, era chiaro.
Alfred, sei un bambino. Alfred, sei ingrassato. Alfred, hai fatto questo. Alfred, hai fatto quell'altro.
Ma lui se li meritava e su questo non ci pioveva.
Alfred, sciocco. Alfred. Alfred. Alfred, brutto idiota, Alfred.

America, dal canto suo, non si era nemmeno reso contro della violenza usata per scagliare la lattina sul tavolo. Lui non si rendeva mai conto dei suoi metodi, buoni o cattivi che fossero – questa era ormai una sua prerogativa.
Si voltò verso Arthur. Aveva quell'adorabile sorrisetto stampato in faccia, quello che rivolgeva alle persone che riteneva pericolose... O molto stupide, nel caso di Inghilterra.

«Ah! È perché me lo hai insegnato tu!»

La risata di Alfred, poi, ad Arthur sembrava qualcosa di ancora più insopportabile. A volte era grato all'Atlantico per essere capace di dividerlo da quell'odiosa Confederazione.
God, se detestava intravedere la costa occidentale far capolino oltre l'oceano. Fosse stato per lui ci avrebbe messo in mezzo anche un paio di catene montuose.

Strinse spasmodicamente tra le dita la tazzina in delicata porcellana. Rischiava di romperla, ma poco importava in una situazione del genere.
Al diavolo il meeting, al diavolo gli accordi, al diavolo tutti quei documenti, al diavolo Francis che gli stava palpando il sedere con una certa insistenza.

Perché cavolo Francis gli stava palpando il sedere?!

Inghilterra lasciò la stanza, alterato. I passi lunghi e veloci uno dietro l'altro, le mani strette a pugno e la fronte corrugata, tanto da fargli assumere un'espressione strana ed anche un po' buffa.
Alle sue spalle aveva sentito solo un mucchio di commenti mescolati tra loro, intervallati da una risata o da un “aru” preoccupato – era anche convinto di aver chiaramente udito una specie di urlo di battaglia che comprendeva la frase “Varsavia capitale della Russia”.
E poi c'era stato Peter, che gli si era piazzato davanti e non aveva voluto farlo passare.

«Che vuoi?»

Se soltanto avesse avuto la gamba abbastanza lunga e pesante, Inghilterra non ci avrebbe di certo pensato due volte a calpestarlo con la chiara intenzione di non lasciarne più nessuna traccia.
Che cavolo gliene poteva fregare, a lui, se il titolo di cavaliere lì lo svendevano.
Sealand, in tutta risposta, sorrise radioso. Se Arthur non lo stava ignorando, significava che lo prendeva seriamente in considerazione, una buona volta. Se lo prendeva in considerazione, allora voleva dire che era quantomeno alla sua altezza – forse.
Sealand c'era, era a un passo così dal diventare una Nazione a tutti gli effetti!

«Stupid, sparisci.»

Arthur superò Sealand, la porta, il corridoio e qualche altra Nazione.
Non aveva voglia di continuare a stremare la sua mente già segnata dalle pressioni psicologiche e non della Francia, nonostante fosse altrettanta la repulsione nei confronti di scenate di ogni tipo davanti alle altre potenze.
Quella era una cosa più da... Italia del Sud, forse. Non dalla grande Inghilterra almeno.
Arthur posò la mano sulla maniglia. La stanchezza che si notava anche in un'azione familiare come quella.
Non era stato il gesto di Alfred in sé a farlo arrabbiare a tal modo, da un tipo idiota e superficiale come lui non poteva aspettarsi molto. Aveva capito che non ne valeva la pena. Più che altro era stato il tono irrisorio – quello di sempre, insomma – che aveva usato per rivolgerglisi.
Piccolo, stupido, irriconoscente moccioso. Che non andasse a lamentarsi da lui, quando le altre Nazioni non avevano intenzione di attraversare un oceano per il puro e semplice gusto di fargli compagnia. Che diavolo era lui? Una specie di calzino usato?

«Fuck

Entrò nella stanza. Il profumo dello Scotch inglese che gli si infilava nelle narici quasi con prepotenza ed arroganza; quasi a voler fargli capire che tra quelle pareti c'era anche lui, ancora intrappolato tra le mura della bottiglia piena quasi fino all'orlo, ma infinitamente desideroso di volar oltre il tappo e riversarsi in un bicchiere.
Inghilterra andò a piazzarsi sul letto, le zone a sud piuttosto stanche, quelle a nord doloranti. Dentro la sua Nazione, almeno, c'era armonia anche nei momenti peggiori, di questo ne era certo.
Stirò la schiena. Non voleva nemmeno pensarci ai commenti che probabilmente erano stati fatti senza troppi complimenti, dopo la sua teatrale uscita di scena.

«Ah! Ormai sta proprio invecchiando!»
«Dovrebbe darsi una calmata, aru.»
«Oh, c'est magnifique!»

Arthur non voleva proprio immaginarselo.

Allungò un braccio verso la bottiglia di Scotch che se ne stava abbandonata alla sua destra, su un mobile che sembrava proprio costruito sulla falsa riga dello stile George III. Diamine, e dire che lui si era anche premurato di far sapere di pretendere obbligatoriamente una camera arredata all'inglese, con tanto di bustine del tea su ogni scaffale e il Daily Telegraph del giorno posato elegantemente su un tavolino in stile vittoriano.
E invece no, a lui dovevano toccare il caffé ed il New York Times. Perché, si chiedeva semplicemente, perché?

Versò l'alcolico in un bicchiere, lo aveva quasi vivisezionato con gli occhi per accertarsi che fosse quantomeno bevibile. Sapeva bene che non gli stava andando niente come lui si aspettava, durante quel meeting tra Nazioni.
La forte Inghilterra. Era sempre stato un Paese solitario e poco incline alle alleanze; aveva sempre guardato oltre, volendo di più, pretendendo nuove terre, nuovi mercati in Africa, Asia ed Oceania. I suoi meriti stavano addirittura alla base della nascita di una delle più potenti Nazioni.
E cosa cavolo ne aveva avuto in cambio?
Si schiaffò una mano sulla fronte. Era stanco adesso, non ne valeva nemmeno la pena di mettersi a pensare e a rimuginare su tutto, come faceva spesso. Borbottava, borbottava e si lamentava, come se non fosse mai soddisfatto – ed effettivamente era così – come se avesse continuamente a che fare con inutili perdite di tempo – ed anche questo, comunque, non era del tutto sbagliato.

«Englaaand?»

Arthur roteò gli occhi. La stanza dell'albergo che faceva una meravigliosa parata davanti alle sue iridi stanche e spossate. La voce di Alfred riusciva ad essere così squillante da penetrargli le orecchie ed il cervello, come se volesse restarci impressa dentro, come se quel dannato fratellino volesse torturarlo più di quanto non avesse già fatto in passato.
Sadico, stupido ed anche un po' crudele.
Veramente, estremamente, terribilmente odioso.

«Non c'è bisogno di urlare, Alfred. È anche cattiva educazione farlo, credevo lo sapessi.»

La sua voce tradiva le sue intenzioni però. Non riusciva a fare a meno di emettere un lungo sospiro alla fine della frase – di quelli dei film, avrebbe aggiunto, quando la protagonista si accorgeva di quale realmente fosse l'amore della sua vita...
Arthur rabbrividì. Il suo pensiero non stava seguendo affatto un filo logico. Né sembrava intenzionato a farlo. Il suo pensiero stava percorrendo una strada piuttosto pericolosa, molto più simile ad un campo minato circondato da pacchianissime rose rosse, che ad un paesaggio Londinese, con tanto di siepi ai lati delle strade e nuvole sopra la testa.
Il suo equilibrio mentale si era come intaccato. Questo di solito non accadeva – non a lui.
Inghilterra ponderava ed agiva, pensava e poi faceva una scelta. Inghilterra aveva sempre la situazione mondiale stretta in pungo – che si trattasse di Cina, America, Giappone o Francia – e non gli accadeva spesso di sentirla scivolare via, tra le dita, come sabbia troppo sottile per essere trattenuta.

«Non sto urlando!»

Negare l'evidenza era un fattore che detestava, soprattutto se a farlo era qualcuno che non la smetteva di battibeccare oltre la porta di un albergo piuttosto affollato e di prenderla a pugni, di tanto in tanto; di quel tipo di pugni che avrebbe potuto facilmente scalfire il legno scuro – e il bello era che Alfred non ne era nemmeno consapevole. Se ne stava lì, nel corridoio, e lo si poteva perfino definire eccitato all'idea dell'inglese arrabbiato e su di giri ad appena pochi metri.

«Stai continuando a farlo.»
«Non è vero!»
«Smetti di negare l'ovvio!»
«Sei tu che stai urlando adesso!»
«Non è affatto vero!»
«Sì che è vero, dovrei registrarti e fartelo sentire! È questo il buon esempio che le persone anziane danno alla gioventù?!»
«Alfred, smettila immediatamente!»

Arthur aveva spalancato la porta con una tale violenza che quasi si stupì di non vederla uscire dai cardini e cadere pesantemente sul pavimento, magari accompagnata da una nuvoletta di polvere esalata dalla moquette dopo l'impatto.
Aveva poi guardato Alfred, altrettanto concitato dalla discussione consumatasi in pochi secondi.
Arthur strinse le dita sulla maniglia, la voglia di staccarla e sbatterla in faccia a quell'idiota che gli cresceva inevitabilmente nel petto, il fiatone che si scontrava con quello di Alfred – il sapore e l'odore statunitensi erano proprio come se li ricordava, vagamente dolci, con una punta di sentore di Coca Cola sul fondo. Non li amava particolarmente, eppure lui non poteva fare a meno che legarli ad un sacco di ricordi – belli o tristi che fossero – e di spegnere il cervello per un po' – cosa che tra l'altro poteva definirsi bizzarra quanto rara, almeno nel suo caso.
Mentre li percepiva, Arthur poteva benissimo chiudere gli occhi e riaprirli nel Texas o nel Kentucky, mentre un bambino che non gli arrivava nemmeno all'altezza della vita gli stringeva la mano e sorrideva. Come se Arthur fosse stato la persona più bella del mondo, la migliore, il modello da seguire ed imitare, un tesoro da venerare e da vantare davanti a tutto il resto del globo.
Sfortunatamente però – sfortunatamente per entrambi, avrebbe detto l'inglese – non era più stato così, non lo era da un paio di secoli e nessuno dei due sembrava soffrirne, almeno apparentemente.

Arthur scosse la testa, i pensieri che tornavano alla maniglia fredda della porta, al New York Times abbandonato nella stanza senza aver ricevuto nemmeno un minimo d'attenzione – non che se la meritasse, ad Alfred che continuava a fissarlo un po' come se non ci avesse capito un bel niente – dio, che faccia ottusa che aveva ogni volta che lo guardava così – un po' come se fosse in attesa e in trepidazione.

«Allora?»
«Allora cosa, precisamente?»

Arthur si scostò per lasciarlo passare. Alfred lo superò a grandi passi e si posizionò al centro della stanza, le braccia incrociate al petto, i capelli in disordine e la faccia di chi davvero si aspettava delle scuse – ma che idiota. Scuse che, chiaramente, non sarebbero mai state pronunciate dalla bocca di Arthur – questo lui se lo prometteva, fosse l'ultima cosa che faceva, fosse affondato tutto il Regno Unito, tutta l'Irlanda del Nord, ogni cosa che gli apparteneva.
L'America di fronte a lui – soltanto con lui – aveva una forma un po' differente dalla solita. Tornava ad essere quasi se stesso, se non fosse stato per il tono irrisorio, per l'ego smisurato, per la voglia di sottolineare continuamente l'inutilità degli interventi inglesi su qualunque – qualunque cosa.
Puntiglioso, minuzioso e meticoloso, tutte caratteristiche che non gli appartenevano. Presuntuoso, egocentrico ed anche un po' arrogante – questo Alfred lo sapeva fare fin troppo bene. Aveva imparato a farlo dal migliore.

«Perché sei andato via? L'incontro non era mica finito.»

E – dannazione – se odiava quando cercava di fare la persona matura. Le orecchie basse e lo sguardo un po' pentito – che ad Arthur sapeva fin troppo di no-in-realtà-non-me-ne-frega-assolutamente-niente-e-voglio-solo-farti-sentire-schifosamente-in-colpa. Era probabile che fosse così, l'inglese non riusciva a dare altre spiegazioni razionali a quei comportamenti che stonavano in tutto e per tutto con l'Alfred di sempre – quello di “ah! Io sono il capo”, per intenderci.
La coda tra le gambe no però. Quella Alfred sembrava averla lasciata a casa, nascosta per bene.

«Ero nervoso.»
«Sì l'ho notato. L'hanno notato tutti, credo.»

E il moralista. Alfred in quelle vesti non ci stava affatto bene, gli stringevano.
Arthur sospirò, si passò una mano sugli occhi quasi a voler cancellare parte dei ricordi della giornata – e il desiderio di eliminare dalla mente anche quelli rimasti impressi attorno al Settecento tornava prepotentemente.

«Ero anche stanco.»

Alfred alzò le spalle e fece una smorfia. Non sembrava che le spiegazioni di Arthur gli importassero granché – nella sua testa c'era solo e soltanto l'America; e l'America occupava così tanto spazio che non c'era nemmeno un angolino per l'Inghilterra. Nemmeno uno di quegli spazietti polverosi in fondo ad una soffitta.
Arthur si accorse solo in quel momento di avere un bicchiere di Scotch ancora in mano, stretto tra le dita e pronto ad esser mandato giù tutto d'un sorso. Per un attimo ebbe anche intenzione di farlo, di perdersi nel turbine psichedelico dell'alcool e di non pensare a niente di niente – lui non l'avrebbe mai ammesso, questo era certo, ma era consapevole di non essere in grado di reggere nemmeno un paio di bicchierini, specie se a stomaco vuoto.

«A una certa età succede.»

Arthur lo fulminò con gli occhi. Le sopracciglia aggrottate, l'espressione contratta e tremendamente simile a quella di una manciata di minuti prima, quando aveva lasciato la Sala Conferenze con aria furiosa ed accigliata. Improvvisamente il bicchiere di Scotch gli era sembrato ancora utile a qualcosa; e non per lanciarlo con forza in faccia ad Alfred – l'omicidio era una prospettiva allettante, ma un po' troppo drastica. Forse.
Inghilterra non era mai stato incline ai giochi ed agli scherzetti infantili. Preferiva sorridere divertito – e qualora fosse stato il caso, deridere – quando vedeva gli altri impegnarcisi tanto. Come con America quando giocava coi soldatini, per citare un esempio. Inghilterra stava fermo e lo guardava, il petto molto gonfio e fiero, gli occhi pieni d'orgoglio.

Alfred continuava a stare fermo. Arthur quello lo colse quasi come un invito.
Sollevò il braccio, il bicchiere di Scotch che lentamente saliva verso l'altro. Gli sembrò quasi di vedere la scena al rallentatore: l'espressione di Alfred che non mutava, ancora inconsapevole, il bicchiere che si inclinava un po' a sinistra, fino a piegarsi e capovolgersi, il liquido che lo abbandonava, si posava sulla testa di Alfred, sulla sua giacca così – orribilmente marrone, scendeva sui vestiti e si fermava in un alone scuro della moquette verde.
La mente ottusa di Alfred che ancora faticava a capire cosa fosse successo, probabilmente aveva solo bisogno di una doccia fredda – letteralmente.
E quanto avrebbe voluto, Arthur, premere il tasto re-wind e rivivere il momento dall'inizio.

«... Cosa cazzo hai fatto, Arthur

Tadaah, uno a zero per l'Inghilterra!

«Ti sta bene, idiot

Successe tutto in una frazione di secondo. Arthur sentì la presa di Alfred, una spinta e il tonfo del bicchiere che cadeva per terra e che non si rompeva – miracolosamente. Sentì le ginocchia urtare qualcosa mentre veniva violentemente costretto ad indietreggiare. Urtavano qualcosa e lo facevano cadere sul letto.
La testa oltrepassò il morbido, atterrando nel vuoto totale, la nuca un po' dolorante per essere riuscita ad flettersi all'indietro con così tanta maestria, alla fine del materasso, da far emettere al collo anche uno scricchiolio che avrebbe giudicato un po' troppo sinistro.
Arthur chiuse gli occhi – forse non c'era solo America in quella stanza a non riuscire a capire le situazioni al volo.
Il peso di Alfred lo fece sprofondare un po' di più nel letto, le mani che spingevano le sue spalle ancora più a fondo, cercando di immobilizzarlo. L'aroma americano però era sparito quasi del tutto, nonostante la vicinanza. L'odore di Scotch era di nuovo insidiato a fondo nelle narici di Arthur – strano che questa volta non fosse lui stesso ad emanarlo, come succedeva di solito, dopo che si ubriacava e cominciava a parlare dei suoi meriti e a farneticare improperi e insulti di ogni tipo diretti solo e soltanto al Nuovo Mondo, poi alla sua stupida – stupidissima indipendenza, fino ad arrivare agli indiani d'America e anche a tempi più addietro.

«Questa me la paghi, England...»















Uhddiamine da quanto tempo che non aggiornavo questa storia. Chiedo scusa a chi la sta seguendo, ma la scuola mi ha dato davvero troppi problemi. ;_;

Ne approfitto per ringraziare a priori RedFraction (lo confesso, mi pettino le sopracciglia anche io), Saeko no Danna (in realtà non era solo quello l'errore sull'oceano asd) e Covianna (sì, la stessa valigia, povere fate!)

Al prossimo capitolo~♥

Fanfiction ~ libera la tua immaginazione


   
 
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