Da
quando era
arrivato, non
aveva fatto
altro che bere tea ed ascoltare silenziosamente le altre Nazioni
parlare. Non che non fosse interessato, anzi.
Ma ad Inghilterra era sempre piaciuto
poterli controllare senza abbassarsi ad inutili diatribe – a
meno
che non si trattasse di Francia, in quel caso un litigio era
d'obbligo. Lui però – Inghilterra - guardava quasi
con superiorità
tutti gli altri, concentrandosi solo apparentemente sulla sua tazzina
in raffinata porcellana.
Se ne stava più a Nord, sopra la
manica, sicuro mentre le sue nuvole lo ricoprivano; e li osservava
tutti, li studiava per benino, da cima a fondo e imparava a capire
molte cose su di loro.
Non si chiedeva nemmeno come fosse
starsene nel bel mezzo del continente. Non gliene poteva importare
molto.
Inghilterra
mandò giù un altro
sorso. Il tea gli piaceva davvero tanto.
Contemporaneamente vedeva gocce di Coca
Cola attraversare alla velocità della luce lo spazio che lo
divideva
da America ed andare a cadere meravigliosamente
sulla manica
della sua nuova camicia. Firmata, costosa e soprattutto
meravigliosamente candida e pulita.
Quella camicia gli piaceva. Ma la Coca
Cola no. Poi gli piaceva oltremodo lamentarsi, questo era rinomato
tra tutte le Nazioni che avessero avuto a che fare con lui.
«Alfred, razza di idiota, non sai nemmeno bere?!»
I
rimproveri
erano rivolti
sempre ad
Alfred, solo ad Alfred, era chiaro.
Alfred, sei un bambino.
Alfred, sei ingrassato. Alfred, hai fatto questo. Alfred, hai fatto
quell'altro.
Ma lui se li meritava e su questo non
ci pioveva.
Alfred, sciocco. Alfred. Alfred.
Alfred, brutto idiota, Alfred.
America,
dal
canto suo, non
si era
nemmeno reso contro della violenza usata per scagliare la lattina sul
tavolo. Lui non si rendeva mai conto dei suoi metodi, buoni o cattivi
che fossero – questa era ormai una sua prerogativa.
Si voltò verso Arthur. Aveva
quell'adorabile sorrisetto stampato in faccia, quello che rivolgeva
alle persone che riteneva pericolose... O molto stupide, nel caso di
Inghilterra.
«Ah! È perché me lo hai insegnato tu!»
La
risata di
Alfred, poi,
ad Arthur
sembrava qualcosa di ancora più insopportabile. A volte era
grato
all'Atlantico per essere capace di dividerlo da quell'odiosa
Confederazione.
God, se detestava intravedere la
costa occidentale far capolino oltre l'oceano. Fosse stato per lui ci
avrebbe messo in mezzo anche un paio di catene montuose.
Strinse
spasmodicamente tra
le dita la
tazzina in delicata porcellana. Rischiava di romperla, ma poco
importava in una situazione del genere.
Al diavolo il meeting, al diavolo gli
accordi, al diavolo tutti quei documenti, al diavolo Francis che gli
stava palpando il sedere con una certa insistenza.
Perché cavolo Francis gli stava palpando il sedere?!
Inghilterra
lasciò la stanza,
alterato. I passi lunghi e veloci uno dietro l'altro, le mani strette
a pugno e la fronte corrugata, tanto da fargli assumere
un'espressione strana ed anche un po' buffa.
Alle sue spalle aveva sentito solo un
mucchio di commenti mescolati tra loro, intervallati da una risata o
da un “aru” preoccupato
– era anche convinto di aver
chiaramente udito una specie di urlo di battaglia che comprendeva la
frase “Varsavia capitale della Russia”.
E poi c'era stato Peter, che gli si era
piazzato davanti e non aveva voluto farlo passare.
«Che vuoi?»
Se
soltanto
avesse avuto la
gamba
abbastanza lunga e pesante, Inghilterra non ci avrebbe di certo
pensato due volte a calpestarlo con la chiara intenzione di non
lasciarne più nessuna traccia.
Che cavolo gliene poteva fregare, a
lui, se il titolo di cavaliere lì lo svendevano.
Sealand, in tutta risposta, sorrise
radioso. Se Arthur non lo stava ignorando, significava che lo
prendeva seriamente in considerazione, una buona volta. Se lo
prendeva in considerazione, allora voleva dire che era quantomeno
alla sua altezza – forse.
Sealand c'era, era a un passo così dal
diventare una Nazione a tutti gli effetti!
«Stupid, sparisci.»
Arthur
superò
Sealand, la porta, il
corridoio e qualche altra Nazione.
Non aveva voglia di continuare a
stremare la sua mente già segnata dalle pressioni
psicologiche e non
della Francia, nonostante fosse altrettanta la repulsione nei
confronti di scenate di ogni tipo davanti alle altre potenze.
Quella era una cosa più da... Italia
del Sud, forse. Non dalla grande Inghilterra almeno.
Arthur posò la mano sulla maniglia. La
stanchezza che si notava anche in un'azione familiare come quella.
Non era stato il gesto di Alfred in sé
a farlo arrabbiare a tal modo, da un tipo idiota e superficiale come
lui non poteva aspettarsi molto. Aveva capito che non ne valeva la
pena. Più che altro era stato il tono irrisorio –
quello di
sempre, insomma – che aveva usato per rivolgerglisi.
Piccolo,
stupido, irriconoscente moccioso. Che non andasse a lamentarsi da
lui, quando le altre Nazioni non avevano intenzione di attraversare
un oceano per il puro e semplice gusto di fargli compagnia. Che
diavolo era lui? Una specie di calzino usato?
«Fuck.»
Entrò
nella
stanza. Il profumo dello
Scotch inglese che gli si infilava nelle narici quasi con prepotenza
ed arroganza; quasi a voler fargli capire che tra quelle pareti c'era
anche lui, ancora intrappolato tra le mura della bottiglia piena
quasi fino all'orlo, ma infinitamente desideroso di volar oltre il
tappo e riversarsi in un bicchiere.
Inghilterra andò a piazzarsi sul
letto, le zone a sud piuttosto stanche, quelle a nord doloranti.
Dentro la sua Nazione, almeno, c'era armonia anche nei momenti
peggiori, di questo ne era certo.
Stirò la schiena. Non voleva nemmeno
pensarci ai commenti che probabilmente erano stati fatti senza troppi
complimenti, dopo la sua teatrale uscita di scena.
«Ah!
Ormai sta proprio
invecchiando!»
«Dovrebbe darsi una calmata, aru.»
«Oh, c'est magnifique!»
Arthur non voleva proprio immaginarselo.
Allungò
un
braccio verso la bottiglia
di Scotch che se ne stava abbandonata alla sua destra, su un mobile
che sembrava proprio costruito sulla falsa riga dello stile George
III. Diamine, e dire che lui si era anche premurato di far sapere di
pretendere obbligatoriamente una camera arredata all'inglese, con
tanto di bustine del tea su ogni scaffale e il Daily Telegraph del
giorno posato elegantemente su un tavolino in stile vittoriano.
E invece no, a lui dovevano toccare il
caffé ed il New York Times. Perché, si chiedeva
semplicemente,
perché?
Versò
l'alcolico
in un bicchiere, lo
aveva quasi vivisezionato con gli occhi per accertarsi che fosse
quantomeno bevibile. Sapeva bene che non gli stava andando niente
come lui si aspettava, durante quel meeting tra Nazioni.
La forte Inghilterra. Era sempre stato
un Paese solitario e poco incline alle alleanze; aveva sempre
guardato oltre, volendo di più, pretendendo nuove terre,
nuovi
mercati in Africa, Asia ed Oceania. I suoi meriti stavano addirittura
alla base della nascita di una delle più potenti Nazioni.
E cosa cavolo ne aveva avuto in cambio?
Si schiaffò una mano sulla fronte. Era
stanco adesso, non ne valeva nemmeno la pena di mettersi a pensare e
a rimuginare su tutto, come faceva spesso. Borbottava, borbottava e
si lamentava, come se non fosse mai soddisfatto – ed
effettivamente
era così – come se avesse continuamente a che fare
con inutili
perdite di tempo – ed anche questo, comunque, non era del
tutto
sbagliato.
«Englaaand?»
Arthur
roteò gli
occhi. La stanza
dell'albergo che faceva una meravigliosa parata davanti alle sue
iridi stanche e spossate. La voce di Alfred riusciva ad essere
così
squillante da penetrargli le orecchie ed il cervello, come se volesse
restarci impressa dentro, come se quel dannato fratellino
volesse torturarlo più di quanto non avesse già
fatto in passato.
Sadico, stupido ed anche un po'
crudele.
Veramente, estremamente, terribilmente
odioso.
«Non c'è bisogno di urlare, Alfred. È anche cattiva educazione farlo, credevo lo sapessi.»
La
sua voce
tradiva le sue
intenzioni
però. Non riusciva a fare a meno di emettere un lungo
sospiro alla
fine della frase – di quelli dei film, avrebbe aggiunto,
quando la
protagonista si accorgeva di quale realmente fosse l'amore della sua
vita...
Arthur rabbrividì. Il suo pensiero non
stava seguendo affatto un filo logico. Né sembrava
intenzionato a
farlo. Il suo pensiero stava percorrendo una strada piuttosto
pericolosa, molto più simile ad un campo minato circondato
da
pacchianissime rose rosse, che ad un paesaggio Londinese, con tanto
di siepi ai lati delle strade e nuvole sopra la testa.
Il suo equilibrio mentale si era come
intaccato. Questo di solito non accadeva – non a lui.
Inghilterra ponderava ed agiva, pensava
e poi faceva una scelta. Inghilterra aveva sempre la situazione
mondiale stretta in pungo – che si trattasse di Cina,
America,
Giappone o Francia – e non gli accadeva spesso di sentirla
scivolare via, tra le dita, come sabbia troppo sottile per essere
trattenuta.
«Non sto urlando!»
Negare l'evidenza era un fattore che detestava, soprattutto se a farlo era qualcuno che non la smetteva di battibeccare oltre la porta di un albergo piuttosto affollato e di prenderla a pugni, di tanto in tanto; di quel tipo di pugni che avrebbe potuto facilmente scalfire il legno scuro – e il bello era che Alfred non ne era nemmeno consapevole. Se ne stava lì, nel corridoio, e lo si poteva perfino definire eccitato all'idea dell'inglese arrabbiato e su di giri ad appena pochi metri.
«Stai
continuando
a farlo.»
«Non è vero!»
«Smetti di negare l'ovvio!»
«Sei tu che stai urlando adesso!»
«Non è affatto vero!»
«Sì che è vero, dovrei registrarti e
fartelo sentire! È questo il buon esempio che le persone
anziane
danno alla gioventù?!»
«Alfred, smettila immediatamente!»
Arthur
aveva
spalancato la
porta con
una tale violenza che quasi si stupì di non vederla uscire
dai
cardini e cadere pesantemente sul pavimento, magari accompagnata da
una nuvoletta di polvere esalata dalla moquette dopo l'impatto.
Aveva poi guardato Alfred, altrettanto
concitato dalla discussione consumatasi in pochi secondi.
Arthur strinse le dita sulla maniglia,
la voglia di staccarla e sbatterla in faccia a quell'idiota che gli
cresceva inevitabilmente nel petto, il fiatone che si scontrava con
quello di Alfred – il sapore e l'odore statunitensi erano
proprio
come se li ricordava, vagamente dolci, con una punta di sentore di
Coca Cola sul fondo. Non li amava particolarmente, eppure lui non
poteva fare a meno che legarli ad un sacco di ricordi – belli
o
tristi che fossero – e di spegnere il cervello per un po'
– cosa
che tra l'altro poteva definirsi bizzarra quanto rara, almeno nel suo
caso.
Mentre li percepiva, Arthur poteva
benissimo chiudere gli occhi e riaprirli nel Texas o nel Kentucky,
mentre un bambino che non gli arrivava nemmeno all'altezza della vita
gli stringeva la mano e sorrideva. Come se Arthur fosse stato la
persona più bella del mondo, la migliore, il modello da
seguire ed
imitare, un tesoro da venerare e da vantare davanti a tutto il resto
del globo.
Sfortunatamente però –
sfortunatamente per entrambi, avrebbe detto l'inglese – non
era più
stato così, non lo era da un paio di secoli e nessuno dei
due
sembrava soffrirne, almeno apparentemente.
Arthur scosse la testa, i pensieri che tornavano alla maniglia fredda della porta, al New York Times abbandonato nella stanza senza aver ricevuto nemmeno un minimo d'attenzione – non che se la meritasse, ad Alfred che continuava a fissarlo un po' come se non ci avesse capito un bel niente – dio, che faccia ottusa che aveva ogni volta che lo guardava così – un po' come se fosse in attesa e in trepidazione.
«Allora?»
«Allora cosa, precisamente?»
Arthur
si
scostò
per lasciarlo
passare. Alfred lo superò a grandi passi e si
posizionò al centro
della stanza, le braccia incrociate al petto, i capelli in disordine
e la faccia di chi davvero si aspettava delle scuse
– ma che
idiota. Scuse che, chiaramente, non sarebbero mai state pronunciate
dalla bocca di Arthur – questo lui se lo prometteva, fosse
l'ultima
cosa che faceva, fosse affondato tutto il Regno Unito, tutta
l'Irlanda del Nord, ogni cosa che gli apparteneva.
L'America di fronte a lui – soltanto
con lui – aveva una forma un po' differente dalla solita.
Tornava
ad essere quasi se stesso, se non fosse stato per il tono irrisorio,
per l'ego smisurato, per la voglia di sottolineare continuamente
l'inutilità degli interventi inglesi su qualunque
– qualunque
cosa.
Puntiglioso, minuzioso e meticoloso,
tutte caratteristiche che non gli appartenevano. Presuntuoso,
egocentrico ed anche un po' arrogante – questo Alfred lo
sapeva
fare fin troppo bene. Aveva imparato a farlo dal migliore.
«Perché sei andato via? L'incontro non era mica finito.»
E
–
dannazione
– se odiava quando
cercava di fare la persona matura. Le orecchie basse e lo sguardo un
po' pentito – che ad Arthur sapeva fin troppo di
no-in-realtà-non-me-ne-frega-assolutamente-niente-e-voglio-solo-farti-sentire-schifosamente-in-colpa.
Era probabile che fosse così, l'inglese non riusciva a dare
altre
spiegazioni razionali a quei comportamenti che stonavano in tutto e
per tutto con l'Alfred di sempre – quello di “ah!
Io sono il
capo”, per intenderci.
La coda tra le gambe no però. Quella
Alfred sembrava averla lasciata a casa, nascosta per bene.
«Ero
nervoso.»
«Sì l'ho notato. L'hanno notato
tutti, credo.»
E
il moralista.
Alfred in
quelle vesti
non ci stava affatto bene, gli stringevano.
Arthur sospirò, si passò una mano
sugli occhi quasi a voler cancellare parte dei ricordi della giornata
– e il desiderio di eliminare dalla mente anche quelli
rimasti
impressi attorno al Settecento tornava prepotentemente.
«Ero anche stanco.»
Alfred
alzò le
spalle e fece una
smorfia. Non sembrava che le spiegazioni di Arthur gli importassero
granché – nella sua testa c'era solo e soltanto
l'America; e
l'America occupava così tanto spazio che non c'era nemmeno
un
angolino per l'Inghilterra. Nemmeno uno di quegli spazietti polverosi
in fondo ad una soffitta.
Arthur si accorse solo in quel momento
di avere un bicchiere di Scotch ancora in mano, stretto tra le dita e
pronto ad esser mandato giù tutto d'un sorso. Per un attimo
ebbe
anche intenzione di farlo, di perdersi nel turbine psichedelico
dell'alcool e di non pensare a niente di niente – lui non
l'avrebbe
mai ammesso, questo era certo, ma era consapevole di non essere in
grado di reggere nemmeno un paio di bicchierini, specie se a stomaco
vuoto.
«A una certa età succede.»
Arthur
lo
fulminò con gli occhi. Le
sopracciglia aggrottate, l'espressione contratta e tremendamente
simile a quella di una manciata di minuti prima, quando aveva
lasciato la Sala Conferenze con aria furiosa ed accigliata.
Improvvisamente il bicchiere di Scotch gli era sembrato ancora utile
a qualcosa; e non per lanciarlo con forza in faccia ad Alfred
–
l'omicidio era una prospettiva allettante, ma un po' troppo drastica.
Forse.
Inghilterra non era mai stato
incline ai giochi ed agli scherzetti infantili. Preferiva sorridere
divertito – e qualora fosse stato il caso, deridere
– quando
vedeva gli altri impegnarcisi tanto. Come con America quando giocava
coi soldatini, per citare un esempio. Inghilterra stava fermo e lo
guardava, il petto molto gonfio e fiero, gli occhi pieni d'orgoglio.
Alfred
continuava a stare
fermo. Arthur
quello lo colse quasi come un invito.
Sollevò il braccio, il bicchiere di
Scotch che lentamente saliva verso l'altro. Gli sembrò quasi
di
vedere la scena al rallentatore: l'espressione di Alfred che non
mutava, ancora inconsapevole, il bicchiere che si inclinava un po' a
sinistra, fino a piegarsi e capovolgersi, il liquido che lo
abbandonava, si posava sulla testa di Alfred, sulla sua giacca
così
– orribilmente marrone, scendeva sui vestiti e si fermava in
un
alone scuro della moquette verde.
La mente ottusa di Alfred che ancora
faticava a capire cosa fosse successo, probabilmente aveva solo
bisogno di una doccia fredda – letteralmente.
E quanto avrebbe voluto, Arthur, premere il
tasto re-wind e rivivere il momento dall'inizio.
«... Cosa cazzo hai fatto, Arthur?»
Tadaah, uno a zero per l'Inghilterra!
«Ti sta bene, idiot.»
Successe
tutto
in una
frazione di
secondo. Arthur sentì la presa di Alfred, una spinta e il
tonfo del
bicchiere che cadeva per terra e che non si rompeva –
miracolosamente. Sentì le ginocchia urtare qualcosa mentre
veniva
violentemente costretto ad indietreggiare. Urtavano qualcosa e lo
facevano cadere sul letto.
La testa oltrepassò il morbido,
atterrando nel vuoto totale, la nuca un po' dolorante per essere
riuscita ad flettersi all'indietro con così tanta maestria,
alla
fine del materasso, da far emettere al collo anche uno scricchiolio
che avrebbe giudicato un po' troppo sinistro.
Arthur chiuse gli occhi – forse non
c'era solo America in quella stanza a non riuscire a capire le
situazioni al volo.
Il peso di Alfred lo fece sprofondare
un po' di più nel letto, le mani che spingevano le sue
spalle ancora
più a fondo, cercando di immobilizzarlo. L'aroma americano
però era
sparito quasi del tutto, nonostante la vicinanza. L'odore di Scotch
era di nuovo insidiato a fondo nelle narici di Arthur –
strano che
questa volta non fosse lui stesso ad emanarlo, come succedeva di
solito, dopo che si ubriacava e cominciava a parlare dei suoi meriti
e a farneticare improperi e insulti di ogni tipo diretti solo e
soltanto al Nuovo Mondo, poi alla sua stupida – stupidissima
indipendenza, fino ad arrivare agli indiani d'America e anche a tempi
più addietro.
«Questa
me la
paghi, England...»
♫
Uhddiamine
da quanto tempo
che non aggiornavo questa storia. Chiedo scusa a chi la sta seguendo,
ma la scuola mi ha dato davvero troppi problemi. ;_;
Al prossimo capitolo~♥