Ne parlò a Camilla; doveva farlo. La salutò abbracciandola teneramente, le disse di sedersi, di preparare un the – un altro the, non importava. Si riunirono in cucina davanti a due tazze con dentro gli infusi di frutti di bosco, rinchiusi nei rispettivi cucchiaini, pronti a liberare i propri sapori nell'acqua che stava bollendo.
A casa sua, quando c'era Camilla, sentiva in continuazione il rumore dell'acqua che bolliva.
E poi il fruscio delizioso dell'acqua che scrosciava nella tazza, assorbendo gli aromi.
-Mi ha raccontato delle cose – spiegò, conciliante – Bianca ha dei seri problemi a casa.
-Il padre che la picchia – annuì Camilla – e la madre.
-Già. Sì, beh. Mi ha detto dell'altro. Pare che la madre non sia completamente a posto con la testa. Prende il valium.
-Lo immaginavo. È sempre nevrotica. È sovraccarica di lavoro e quel municipio è un covo di vipere.
-Aggredisce spesso Bianca, con violenza, la copre di accuse. Il padre le picchia entrambe.
Emanuele abbassò gli occhi. Iniziò a giocherellare con il centrotavola.
-C'è dell'altro...? - chiese Camilla, che lo conosceva molto bene.
-Sì, Camilla, c'è dell'altro – rispose, lentamente – c'è dell'altro. Ma faccio fatica a ripeterlo. Hai presente quelle cose che non vorresti mai sentir dire a un tuo studente...?
-Purtroppo no – mormorò lei, sorseggiando il suo the.
-Già. Naturale. In realtà è perché pensi che non esistano davvero. Pensi che non succeda a una tua alunna che vive ad Altichiero con mamma e papà e può permettersi un iPod nuovo e una PSP.
-Che cos'è successo?
Camilla sembrava solo molto stanca. Sembrava che ascoltasse la storia di Bianca perché lui ci teneva a raccontargliela, ma che in realtà avrebbe preferito fare tutt'altro.
-Il padre usa molestie sessuali su di lei – mormorò – e la confonde così tanto che le fa pensare di essersi inventata tutto.
Questa volta Camilla alzò gli occhi. Nonostante sembrasse odiare Bianca e tutto ciò che la riguardava, questa volta non poté non interessarsi al discorso.
-Ha avuto una crisi di panico, quando sono andato lì – raccontò – mi ha detto che le capita spesso. Che passa intere giornate a piangere, e che a volte non ha nemmeno la forza di fare quello; sta a letto immobile senza pensare a niente, in stato catatonico.
Lei lo guardò, in attesa di ulteriori informazioni. Proseguì.
-Dice che per un certo periodo riesce a dimenticare... ad accantonare. Che per un po' riesce a distrarsi con altre cose. Ma che poi, a volte, le torna in mente tutto ciò che c'è di negativo nella sua vita. E in quei momenti io incomincio a vederla piangere in classe, e chiedermi di andare a casa a dormire.
Camilla aspettò che dicesse dell'altro, ma Emanuele tacque e prese a fissare la fruttiera. Lei prese la parola.
-Succede perché il padre la molesta...? - chiese, con voce roca.
-Succede perché dice di non sentirsi amata. Dice che i genitori non la sopportano, che i coetanei la odiano, che tutto ciò che fa è vuoto e senza significato.
-Capisco – mormorò Camilla. Emanuele si accigliò.
-Capisco? - ripeté, adirato.
-Capisco perché voleva morire – precisò Camilla – so che non si dovrebbe nemmeno pensarlo, ma... si può darle torto? Chi vorrebbe vivere una vita così?
-Alla sua età potrebbe ancora rimediare. Cambiare tutto, andarsene da qui, smetterla di farsi del male da sola. Può fare moltissime cose.
-Non finché ha sedici anni, abita coi genitori ed è iscritta a quella scuola – osservò la sua ragazza, razionale – in questo momento, è bloccata lì dov'è almeno per un altro paio d'anni.
-Devono sembrarle un tempo lunghissimo.
-Perché in effetti lo sono.
Camilla aveva un tono così freddo e distaccato che Emanuele si chiese se stesse davvero parlando con la sua fidanzata; quella dolce, comprensiva, che si preoccupava per lui e per Bianca.
-Ce l'hai con lei? - le chiese all'improvviso – Ce l'hai con lei perché occupa il mio tempo e una parte dei miei pensieri?
Lei abbassò gli occhi.
-Camilla, è così?
-Non posso negarlo – ammise lei, guardandosi le mani.
-Lo sai che ha sedici anni.
-Sì.
-E lo sai che è l'alunna che mi sta più a cuore. Sta a cuore a molti altri, oltre a me. Siamo tutti preoccupati per lei.
-Lo so. Ma oggi era il nostro anniversario. Non dico che non avresti dovuto andare a trovare Bianca, o che avresti dovuto chiedere un permesso e venire a prendermi al lavoro, con un mazzo di rose, per portarmi via in un posto speciale dove saremmo stati soli io e te lontani dal mondo. Mi bastava un bacio questa mattina, e “auguri”. Stasera, magari, un brindisi alla nostra.
Emanuele impallidì. Fece per aprir bocca, ma Camilla continuò.
-Dispiace anche a me per quella ragazzina. Davvero. Mi dispiace. Ma in questo momento non riesco a far altro che pensare alla nostra storia che viene logorata poco alla volta da questa bambina e dai suoi problemi.
-Non sta logorando la nostra storia. Tra di noi va tutto bene. Abbiamo forse mai litigato? Ho avuto delle mancanze nei tuoi confronti?
-No – fece stancamente Camilla – non dico questo. Dico che pensi a lei molto più di quanto pensi a me. Ti sei innamorato di quella ragazzina...?
-Cristo, Camilla, no – sbottò indignato, scattando in piedi – stai per caso scherzando? Non sono come quel pedofilo di suo padre. Non sono innamorato di una bambina che potrebbe essere mia figlia.
-No, non potrebbe. Al massimo potresti essere suo fratello.
-Ma di cosa mi stai accusando?! Mi credi capace di una cosa simile? E tu saresti quella che mi ama...?
-Lo vedi? Ora stiamo litigando. E tutto a causa di Bianca.
-Camilla, mi ci hai intrappolato tu, in questo giochetto!
-No, ti ci ha intrappolato lei. È questo che tu non hai capito. Lei ha intuito che tu la seguirai ovunque, e quindi ti porta dove vuole. Hai delle prove, che suo padre l'abbia molestata...?
Emanuele spalancò gli occhi.
-Camilla, stai scherzando? Mi meraviglio che tu, come donna, faccia un'insinuazione del genere.
-Sono solo molto stanca. - Sugli occhi di Camilla spuntarono due grosse lacrime brillanti. - Sono stanca di questa storia. E ora sto anche facendo la parte della cattiva. Tutto quello che voglio è che quella ragazza stia lontana da te e la smetta di tormentarti, vorrei solo la vita tranquilla che avevo prima, e invece... invece finisco col recitare il ruolo della strega. Eppure – si asciugò le lacrime, ma ne nacquero di nuove sugli angoli dei suoi occhi – eppure ho sempre cercato di capirci qualcosa. Di dare una mano. Di starti vicino senza lamentarmi. E ora guarda, guarda cos'è successo.
Emanuele si alzò e si avvicinò a lei; l'abbracciò, dispiaciuto.
-Non volevo dire che sei cattiva – sussurrò – non lo penso. Ero solo agitato.
-Sono agitata anch'io – gemette Camilla – ho paura. Ho paura che rovini la vita che abbiamo creato assieme, che tu dedichi a lei le tue giornate e i tuoi pensieri, e ti faccia trascinare da tutta quella tristezza. Io rivoglio il mio fidanzato. Rivoglio la mia felicità, rivoglio anche la tua – iniziò a singhiozzare, con la stessa spontaneità di una bambina sperduta. L'abbracciò ancora più forte.
Due donne durante quel pomeriggio aveva abbracciato piangendo. Entrambe lo tiravano dalla propria parte, chiedendogli di rinunciare all'altra, sostenendo che fosse l'unico modo per porre finalmente fine alle loro sofferenze.
Non voleva abbandonare nessuna delle due, ma sapeva che, un giorno o l'altro, si sarebbe trovato di fronte a una scelta, e che tutto il tempo in cui avrebbe temporeggiato sarebbe stato costellato di liti, lacrime e abbracci colmi di struggente disperazione.
Comunque, per quel weekend decise di fare un reset mentale. Bevve un caffè doppio, si rinfrancò con una fetta del dolce che Camilla aveva preparato per l'occasione e decise che, per liberarsi da una corda troppo stretta, era necessario dare uno strattone altrettanto forte.
-Ok; mettiti il cappotto – disse ad un tratto a Camilla.
-Il cappotto? Perché?
-Perché noi usciamo.
-E dove andiamo?
-A Parigi – sbottò, senza sapere bene nemmeno lui cosa stesse dicendo.
-A Parigi? - fece Camilla, sbalordita – Ma... a Parigi?! Perché?
-Perché è la città degli innamorati, dicono. Be', lo è anche Venezia, ma Venezia possiamo vederla quando vogliamo. Parigi no.
-Ma... ma come facciamo? Non abbiamo i biglietti.
-Tu non preoccuparti.
-Ma Ema, sono le quattro del pomeriggio, ormai.
-E quindi? - Le sorrise, accattivante. - Non ti piacerebbe che ti portassi a cena a Parigi, e passeggiare con me lungo la Senna dopo aver gustato les champignons e il Dom Pérignon in un delizioso ristorantino del centro, e farci una foto sulla terrazza che dà sulla Tour Eiffel?
-Sei impazzito – mormorò Camilla, ma i suoi occhi erano luccicanti e sulle sue labbra iniziava ad incresparsi un luminoso sorriso.
-No – precisò lui – ero impazzito, ma chérie, ma adesso ho recuperato la raison, e ho voglia di festeggiare l'anniversario assieme a toi.
Allargò il suo sorriso. Camilla fece lo stesso.
-Alors? - la incitò.
-Mais oui! - fu la gioiosa risposta, Camilla si gettò tra le sue braccia e si precipitarono in macchina con direzione Marco Polo.
Passò un dolcissimo weekend.
Durante il viaggio d'andata in macchina, Camilla telefonò all'aeroporto, riuscirono a scovare due posti in un last minute e sfrecciarono lungo la A4 ridendo come due ragazzini.
Al Marco Polo acquistarono i biglietti d'andata e quelli di ritorno, e, nell'attesa, collegarono il portatile alla connessione via chiavetta; in un'ora, tempo che arrivasse l'aereo, avevano già scelto e prenotato il loro hotel. Camilla era raggiante.
-Non avrei mai pensato che avresti fatto una cosa del genere – trillava, eccitata – pensavo che... cioè...
-Pensavi che avrei lasciato tutto com'era – sospirò Emanuele, e scosse scherzosamente la testa – quanta, quanta malafede in questa signorina. - Le scompigliò i capelli, lei rise e gli diede un colpetto leggero sulla mano. - Ehi, io, se faccio un errore, vi pongo rimedio. Ho ben salde nelle mani le redini del cavallo bianco, chérie.
-Avevo paura che ne fossi sceso per sempre – ammise lei. Ma lo disse con quell'aria serena, pacifica di cui lui si era innamorato.
Aveva solo bisogno di essere rassicurata, ma lui non se n'era mai accorto. Non aveva dovuto fare poi molto per farle recuperare la tranquillità, come aveva potuto non pensarci? Certo, con quel weekend si era giocato quasi mezzo stipendio, ma cosa valevano i soldi, quando il sorriso era tornato sulle labbra di Camilla?
-Cami, in questo periodo ho fatto troppo affidamento su di te. Siccome tu sei comprensiva e disponibile e non mi fai pesare i tuoi problemi, allora io ho focalizzato tutta la mia attenzione sui miei. E anche la tua attenzione. Non mi ero mai reso conto che la situazione ti pesasse così tanto.
-Avrei dovuto dirtelo – confessò lei – la colpa è anche mia. Mi sono tenuta tutto dentro, cercando di fare la fidanzata perfetta, perché non volevo riempirti di lamentele la sera quando tu arrivavi a casa stanco dal lavoro. Cercavo di non essere la solita moglie o fidanzata pedante che dimentica sempre che anche il suo compagno ha dei grattacapi.
-Tu puoi parlarmi quando vuoi – l'assicurò – altrimenti, cosa te l'ho dato a fare, quell'anello che hai al dito? Quell'anello è una promessa. E non è solo la promessa che il 18 aprile andremo in chiesa vestiti come due bamboline a sorridere davanti agli obiettivi e baciare le guance ai parenti. È la promessa di starti vicino qualunque cosa accada, di asciugare le tue lacrime, proteggerti dalle tue paure, dalle ipocondrie... dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via...
Camilla sorrise.
-Dalle giustizie e dagli inganni del tuo tempo – continuò, intonando con voce flebile – dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai...
-Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore – cantò, a voce bassa – dalle ossessioni, dalle tue manie... - Lei si unì alla sua voce – Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare...
E guarirai
Da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io
Avrò cura di te.*
Non conclusero con il ritornello, stavano abbracciati tanto stretti che non sarebbero mai riusciti a parlare.
Quella canzone gli era venuta in mente per caso, tra le tante che conosceva e a cui non aveva mai prestato particolare attenzione. Da quel giorno, ogni volta che la sentirono per radio o in qualche locale, si guardarono quel sorriso appena accennato tipico di chi condivide un ricordo che nessuno può afferrare o anche solo sfiorare.
Il ricordo di una canzone di Battiato illuminata all'improvviso da un caldo raggio d'amore, cantata in aeroporto tra il brusio di migliaia di persone che si affannavano senza riuscire a toccare quel momento, svanendo lentamente in un silenzio astratto.
Il ricordo dell'amore che lasciava fuori tutto il resto.
-E dire che il momento romantico era previsto per la passeggiata lungo la Senna – gemette Emanuele – e adesso come faccio? La proposta di matrimonio te l'ho anche già fatta, e ho esaurito gli assi nella manica.
Camilla rise e afferrò un guscio di lumaca. Lei aveva lo stomaco abbastanza forte da mangiarle, Emanuele invece aveva optato per una zuppa di cipolle. Insieme avevano ordinato la fonduta.
-Ce la tiriamo da degustatori? - aveva proposto Emanuele.
-Ma non è un po' snob intellettual-chic?
-Certo che lo è, ma ricorda che qui siamo in territorio nemico. Loro sono in maggioranza, cerchiamo di mimetizzarci. - Afferrò il suo bicchiere di vino d'annata. - Vedi? Faccio dondolare il vino nel bicchiere con aria scettica e gli occhi socchiusi.
-Ricorda di annusarlo storcendo il naso.
-Mi infilo una baguette sotto l'ascella?
-Parbleu, non senza un completo a righe verticali.
-Avverto inoltre la tragica mancanza di una tavolozza.
-E di un basco.
-E di un bidet.
-Oh, non fare l'italiano, je vous en prie.**
Ma gli andava bene, in fondo, parlare di sciocchezze e ridere di Camilla che trangugiava tranquillamente lumache come fossero state caramelle. Gli andava bene, fintanto che poteva vederla allegra e sorridente, felice assieme a lui, come lo erano sempre stati.
-Ti prometto che non servirà più venire a Parigi per essere sereni – asserì all'improvviso, sorprendendo Camilla che fece cadere il pane nel formaggio fuso, annegandolo nella fonduta.
-Cosa? - fece lei, tentanto di recuperare la fetta di baguette perduta con la forchettina.
-Sarà così ogni giorno, com'è sempre stato. Non avrò più bisogno di portarti lontana da Padova, per vederti felice. Lo sarai anche nella nostra casa, nella nostra vita di tutti i giorni. Senza dover fuggire per un weekend.
Lei sorrise.
-Ema, prima mi dicevi che non avevi più assi nella manica per la passeggiata romantica lungo la Senna – incominciò – beh, volevo dirti una cosa. La Senna è solo un fiume, la torre Eiffel è solo una costruzione di ferro, e le lumache potrei cucinartele anch'io, se non ti venisse uno scompenso solo a guardarle da lontano. Ma il fatto è che tu hai visto che ero triste e hai deciso di rimediare, costi quel che costi, e dal mio punto di vista, ecco, questa è la mia cena francese e la foto davanti alla torre e la passeggiata romantica sul lungofiume. Io sono già felice. Non ho bisogno che tu faccia altro.
Sorrisero entrambi.
Si sentiva così sereno e appagato che pensò, al di là di questo non c'è nient'altro. Oltre a questa felicità non potrò mai andare.
Ebbero la loro passeggiata lungo la Senna, tenendosi per mano; le luci della città, la notte blu chiara di stelle e le nuvolette soffici dei loro respiri crearono un'atmosfera tale che in realtà parlarono molto poco. Si fermarono spessissimo ad abbracciarsi, a lungo, stringendosi forte e dimenticando che erano a Parigi, che erano nel mondo reale. Per quella sera avevano deciso di essere altrove.
Il giorno dopo si svegliarono quasi all'ora di pranzo; la sera prima avevano fatto l'amore fino a notte fonda. Fecero la doccia assieme, infilarono i vestiti del giorno prima nello zaino ed uscirono, silenziosi ma sorridenti, nel corridoio ricoperto di moquette del piccolo albergo di Montmartre.
Nelle ore che gli rimanevano, salirono sulla collina e passeggiarono tra i ritrattisti; pranzarono con un panino che mangiarono passeggiando, poi presero la metropolitana diretti verso l'aeroporto, con in mano un ritratto.
Un ritratto solo, non due, che li ritraeva entrambi, due volti felici nel sole tiepido e dorato della Francia.
*
-Credi
di riuscire ad affrontare la giornata? - gli chiese Camilla,
premurosa.
Sembrava che il weekend l'avesse tranquillizzata, che
si fosse convinta di essere ancora la priorità di Emanuele.
Ora che
si era rassicurata, sembrava più disposta ad affrontare
l'argomento
'Bianca'.
-Ci provo – fu la pacifica risposta – provarci
è
l'unica cosa che posso fare.
-Ti sono vicino.
-Anch'io sono
vicino a te.
Si salutarono con un bacio, ed Emanuele le accarezzò
una guancia. Lei sorrise e per un momento gli sembrò una
bambina,
più piccola ancora di Bianca.
Mentre s'incamminava verso la
stazione, si sentì come se avesse avuto lo scudo in una mano
e una
lancia nell'altra.
E sotto le gambe un solido e veloce cavallo
bianco.
Come si aspettava, Bianca era uguale a come l'aveva
lasciata sabato. Era strano rivederla, dopo quel fine settimana di
fuga. Gli era sembrato strano anche prendere il solito treno e
attraversare la solita città; era stato a Parigi solo per
ventiquattr'ore, ma si sentiva come se fosse stata Padova la
città
straniera.
-Buongiorno – esordì in classe; i suoi alunni lo
salutarono con calore.
-Prof, che aria allegra – commentò
Francesca. Sapeva che stava cercando di farlo chiacchierare per
rimandare la lezione, ma per quella volta poteva anche andargli
bene.
-Davvero? - replicò – Beh, ci hai visto giusto.
Oggi è
una bella giornata.
-Perché, prof? - fece Benetazzo, che, per
qualche oscuro motivo, gli si era affezionato.
-Ho passato un bel
weekend con la mia fidanzata – confessò
– e oggi sono
particolarmente felice.
-Woo, il prof ha una fidanzata! - esclamò
Francesca – Non lo sapevamo!
-Ebbene sì, con tanto di anello al
dito.
-Vi sposate?!
-Ad aprile. Siete tutti invitati –
sorrise, poi si accorse che Bianca aveva un'espressione tutt'altro
che rassicurante.
Forse avrebbe dovuto evitare quei discorsi, ma
non era riuscito a farne a meno; era poi così sbagliato
voler
gridare al mondo quanto si era felici, specialmente dopo che si
avevano passati momenti tanto bui?
-Congratulazioni, prof –
esclamò Giulia – raga, dobbiamo organizzarci per
fare il regalo al
prof.
-Ma no, non ce n'è bisogno.
-Come no – fece Benetazzo
– una bella spada medievale intarsiata. Qualsiasi salotto
dovrebbe
averne una.
-Sì, vabè, PeneCazzo, e dopo? Una cotta di maglia
al
posto del completo?
-Sarebbe veramente il massimo – mormorò
incantato Benetazzo, con gli occhi luccicanti.
-Ragazzi, davvero,
non vi preoccupate...
-Ma no, prof, guardi che non diamo mica
retta a PeneCazzo – intervenne Crivellaro – oh, ho
l'idea!
Regaliamo al prof una bella festa d'addio al celibato!
Spogliarelliste, alcool, follia...
-Crivellaro!
- lo riprese Giulia – Non approfittare del matrimonio del
prof per
imbucarti a un locale di strip, testa di cazzo.
-Allora non ho
altre idee, mi arrendo.
-Una batteria di pentole in acciaio
Inox1810? - fece dubbiosa Valeria – I novelli sposi vogliono
sempre
cose di questo genere. Cose per la casa.
-Non siamo mica tutti
così noiosi – protestò Emanuele
– e se invece io vi dicessi che
voglio l'Action Figure di Re Leonida...?
-GLIELA REGALEREI IO –
gridò Benetazzo – SPARTANI! Qual è il
vostro mestiere?! - Al che
tutti i maschi della classe urlarono in coro “A-HU! A-HU!
A-HU!”,
e fu lì che Emanuele decise di chiudere il discorso.
Durante
tutto quel tempo, Bianca era rimasta muta e immobile, guardando fuori
dalla finestra con aria assente.
Bianca passò così tutta la
settimana, ed Emanuele cercò di non farci caso.
Mercoledì non venne
da lui. Passava le ore di lezione prendendo svogliatamente appunti,
e, arrivati verso la fine della settimana, smise di fare anche
quello. Guardava il banco e basta. Ogni tanto apriva e chiudeva la
bocca, come se volesse mormorare qualcosa.
Sabato osservò una
scena piuttosto tenera a ricreazione, ma osservò soltanto,
attento a
non farsi vedere.
-Cos'è che hai? - continuava a ripeterle
Cappelletto, con aria preoccupata – Perché stai
così? Sei triste
per qualcosa?
Bianca lo lasciò parlare per un po', prima di
rispondere un fievole “lasciami stare”.
-No che non ti lascio
stare, se prima non mi dici cos'hai.
Lei lo guardò, con aria
spenta.
-Non capiresti – si limitò ad apostrofarlo, con
tono
lugubre.
-Beh, senti, non fare tanto la superiore. Magari invece
capisco.
Scosse la testa. Lui si accigliò.
-Ehi – la afferrò
per le spalle – senti, tu dimmelo. Anche se poi non posso
fare
niente, cosa ci perdi?
-Non voglio parlare a te degli affari
miei.
-Ma perché? - fece Cappelletto, sinceramente dispiaciuto.
A
quel punto, all'improvviso, Bianca iniziò a piangere.
-Ecco, vedi
che sei triste? Cos'hai? Cos'è successo?
-Lasciami stare –
singhiozzò, sottovoce.
-Ma non voglio lasciarti stare.
-Per
favore
– lo implorò lei, e lui, a malincuore, dovette
allontanarsi.
Bianca si accorse di Emanuele sulla porta, ma si
limitò ad incrociare le braccia sul banco e appoggiarvi la
testa,
abbandonandosi ai singhiozzi.
Gli metteva addosso un'enorme
tristezza, ma sapeva ormai di non poter fare niente.
Con
febbraio se ne andò anche Bianca.
I primi di marzo iniziarono le
sue assenze. Gli ultimi giorni in cui aveva frequentato erano passati
immersi nelle sue lacrime silenziose. Faceva male vederla,
perché
piangeva senza rumore; si limitava a guardare fuori dalla
finestra, o il banco, o un punto nel vuoto di fronte alla lavagna,
inespressiva; solo che le lacrime le rigavano il viso, costantemente,
lente, ma continue.
Emanuele non ebbe il coraggio di chiedere sue
notizie.
Non ebbe nemmeno il coraggio di pensarci.
Si limitò a
fare lezione con il solito brio, con la solita passione, e la sera
parlava a Camilla dei progressi dei suoi alunni peggiori, delle
soddisfazioni che stava avendo con loro, dell'affetto che gli
dimostravano.
Avevano recuperato la loro serenità, anche se
Emanuele aveva uno spillo appoggiato al cuore che, a ogni minimo
movimento, pungeva e spingeva sempre più nel profondo,
riaprendo
continuamente quella piccola ferita che gli aveva inflitto.
Dopo
una settimana di assenza da parte di Bianca, però,
Cappelletto e
Valeria si presentarono alla sua ora di ricevimento. Emanuele sapeva
già perché fossero venuti a cercarlo.
-Vorremmo parlare con lei
– esordì imbarazzata Valeria, tormentandosi i
guantini di
rete.
-Su Bianca – spiegò Cappelletto, con
più
decisione.
Sospirò e fece loro cenno di accomodarsi.
In quel
momento, in aula insegnanti era presente anche Sonia, che
lanciò
loro uno dei suoi sguardi penetranti. Una sola occhiata, veloce e
indecifrabile, e poi tornò ai suoi compiti da correggere.
-Ditemi,
ragazzi. Di cosa volevate parlare?
-Delle sue assenze – rispose
pronto Cappelletto – volevamo chiederle se lei ne sappia
qualcosa.
-Anche se lo sapessi, non sarei autorizzato a
comunicarvelo – fu tutto ciò che riuscì
a rispondere.
-Ascolti,
prof, a me non è di certo simpatica, ma il suo comportamento
mi è
sempre sembrato strano – intervenne Valeria, un po' nervosa
– non
è normale.
Tutti noi abbiamo periodi brutti e periodi belli, ma capitano una
volta l'anno, tutt'al più. Lei, invece... è
sempre estrema.
-Tutti
quanti la giudicano male perché si comporta da stupida
– riprese
concitato Cappelletto – e, ok, è vero, fa la
stupida. Però ha
fatto comodo a tutti che lei si comportasse così.
-Ma più che
altro, anche se spesso le darei una botta in testa perché fa
un
casino della Madonna, devo ammettere che sono un po' preoccupata.
Secondo me, sta male per qualche motivo. Ha reazioni troppo... come
posso dire...
-Estreme – ripeté Emanuele, che trovava
l'aggettivo perfettamente calzante. Valeria annuì.
-So che lei è
preoccupato come noi – insistette Cappelletto – e
gli altri non
si rendono conto.
-O non vogliono rendersi conto – rincarò
Valeria.
-Quindi, se non ci aiuta lei, non sappiamo da dove
iniziare.
-Beh – Emanuele ci ragionò un momento –
beh,
potreste iniziare voi stessi. Perché non andate a trovarla?
Sapete
dove abita?
-Ho il suo indirizzo – borbottò Valeria
– se sta
ancora ad Altichiero.
-Credo abiti ancora lì.
-Andiamo? -
propose Cappelletto, in direzione della sua compagna. Quella
tirò un
gran respiro, ma alla fine cedette.
-E andiamoci – decretò;
Cappelletto le sorrise.
-Ma allora non sei una strega malefica –
la punzecchiò – tutta croci e bare, e poi invece
sotto sotto sei
una tenerooona!
-Ma chi ha mai detto che sono malefica? Siete voi
che mi chiamate Morticia, manica di cretini. Dai, andiamo e lasciamo
stare il prof – sbuffò Valeria, afferrando
Cappelletto per la
manica. Mentre quello lo salutava con una mano, ad Emanuele
sfrecciò
in testa un pensiero.
-Ehi, voi due – li chiamò. Valeria si
fermò e si voltò a guardarlo; Cappelletto rimase
in attesa. - Sono
orgoglioso di voi. E adesso sparite – li cacciò
con un gesto della
mano, ma, un attimo prima di abbassare lo sguardo sulle sue cartelle,
notò che entrambi sorridevano.
Quando furono usciti, incontrò lo
sguardo di Sonia.
-Devo dirti la verità? Anch'io –
affermò
lei, poi ritornò ai suoi compiti senza più
voltarsi verso di
lui.
Fu il turno di Emanuele di sorridere.
I due tornarono
a scuola il giorno dopo carichi di notizie. Non appena lui
entrò in
classe presero a gesticolare e a parlargli in labiale; li
liquidò
con un uno scuotimento di testa, e i due furono irrequieti fino a
ricreazione.
Suonata la campanella, la strana coppia – lui con
la felpa Hydrogen e le Hogan, lei con la gonna che spazzava terra e
il corsetto – si precipitò al piano di sotto,
nell'aula
professori. Emanuele, nel vederli, si stupì che due
individui tanto
diversi si fossero presi a cuore la stessa persona.
-Allucinante,
prof – esordì Valeria, agitata – no, le
giuro, è preoccupante.
Bisogna fare qualcosa.
-E pensi che sua mamma non voleva neanche
che la vedessimo. Ma noi abbiamo rotto le palle. Sono un maestro
se si tratta di fracassare i coglioni, e ha visto? Stavolta
è
servito a qualcosa.
-D'accordo. Ok. Calmatevi. Cos'è
successo?
-Eh, praticamente...
-Allora, prof, in
pratica...
-Uno alla volta. Valeria.
-Perché Valeria?!
-Perché
non infila una bestemmia ogni due parole. Dimmi tutto,
Valeria.
-Allora – riprese, torcendosi le mani – siamo
arrivati lì. Sua mamma ci apre. Mi guarda tipo stramale, ma
vabé,
guardasse sua figlia come viene vestita a scuola. Ci chiede chi
siamo.
-E gli diciamo, siamo compagni di Bianca. E lei non è che
dice: oh, entrate, che gentili, siete venuti a trovarla. No. Ci
chiede di cos'abbiamo bisogno.
-Con quel sorrisino
falso come una moneta da trecento lire – sbottò
Valeria –
comunque, le abbiamo detto che eravamo venuti a trovarla, a vedere
come stava. E lei fa: è molto malata, non se la sente di
alzarsi dal
letto. Vabé, le diciamo, solo per farle un saluto. E lei:
sta molto
male, non vorrei che si stancasse troppo.
-E io le faccio, vabé,
signora, andiamo via subito, la salutiamo, le portiamo i compiti e
poi andiamo via. Vede, prof? Ci eravamo anche preparati la scusa.
-E
insomma, dai e dai, ci ha fatti entrare, continuando a ripeterci che
stava molto male, che aveva la febbre alta, che non riusciva ad
alzarsi dal letto né a parlare. Va bene, le dicevamo noi
ogni volta,
ok, nessun problema, tanto restiamo poco. E quella che insisteva,
Bianca sta male, sta molto male, è molto debilitata. Alla
fine siamo
entrati in camera sua; c'era la persiana abbassata, tutto buio, e lei
sotto la trapunta, che neanche la vedevi in faccia.
-Siamo andati
vicino al letto e lei era sdraiata di fianco e guardava nel vuoto,
con la bocca aperta, così – Cappelletto
l'imitò: occhi fissi
spalancati, bocca socchiusa, sguardo perso. - E non si è
accorta di
noi. Continuava a guardare chissà cosa.
-Io mi sono preoccupata,
così le sono andata davanti, le faccio: Bianca, sono io,
Valeria.
Stai bene? E lei non rispondeva, non mi ha neanche guardata. Allora
è
venuto anche Cappelletto, tra l'altro il romanticone le ha fatto una
carezza sulla guancia... - Valeria sorrise; l'altro arrossì
e le
diede una botta sul braccio. - Ahia. Comunque, prof, lei a quel punto
ha alzato gli occhi e ci ha visti, ma aveva una faccia...
-Sembrava
tristissima – intervenne Cappelletto – non so come
spiegarglielo.
Era completamente triste.
-Ci ha guardati, ha aperto la bocca...
poi ha chiuso gli occhi, le sono scese due lacrime dagli occhi e si
è
voltata dall'altra parte.
-E allora noi siamo andati dall'altra
parte, anche se sua mamma ha allungato un braccio come per fermarci.
Ma noi siamo stati più veloci. E così le abbiamo
parlato un po'; le
abbiamo detto che avevamo i compiti per lei, che lei la salutava,
prof, che l'altro ieri Tognon di quarta C ha dato fuoco ai capelli
della Miotto... ma niente.
-Noi parlavamo e lei ci guardava e
taceva. Sembrava che non capisse neanche una parola. Aveva una faccia
confusa, ci guardava con gli occhi spalancati e muoveva le labbra al
passo con le nostre, ha presente come fanno gli anziani quando
iniziano a non capire più cosa gli dici? Ecco.
-E dopo un po', a
discorso finito, ha parlato. Sempre guardandoci con quella
faccia.
-Sbalordita, incantata... non saprei come spiegarle.
-E
fa...
-Con voce roca, prof, come se non parlasse da giorni. Ha
mormorato: “il prof ti saluta...” e poi ha guardato
da un'altra
parte. Al che le faccio, no, il prof saluta te.
E sua mamma è arrivata d'un tratto e fa, scusate, ragazzi,
Bianca
non si sente bene, forse è il caso che si riposi un po'. E
lei non
ha battuto ciglio. Ha continuato a guardare per aria.
-Le giuro,
prof, mi sono spaventato. Nel senso che proprio ho preso
paura.
-Cioè, sua mamma non ha neanche avuto bisogno di spedirci
fuori, siamo proprio scappati via, senza quasi salutarla, le
facciamo, torna presto, e poi siamo andati via di fretta. E mentre
eravamo sulla soglia l'abbiamo sentita dalla camera che diceva
“torna
presto” e sua mamma che diceva, sssh, stai calma, dormi.
Emanuele
deglutì.
Valeria e Cappelletto lo guardavano in attesa di una
risposta:i loro occhi chiedevano di sentirsi dire una bugia
rassicurante.
-Probabilmente aveva la febbre molto alta –
stabilì Emanuele – in quei casi, non è
raro che uno non sia molto
presente.
-Può essere – mormorò Valeria,
sollevata da quella
spiegazione quanto mai pretestuosa.
L'altro non disse nulla, ma
s'incupì. Si allontanò senza dire nulla, e, dopo
qualche attimo di
silenzio imbarazzato, anche Valeria lo salutò ad occhi bassi
e se ne
andò.
Camilla ascoltò attentamente il suo resoconto, ma
anche lei non sapeva bene che dire di fronte a un racconto del
genere.
-Sono sempre più sicura che si tratti di depressione
–
ragionò – una depressione molto grave. Forse suo
padre le ha messo
le mani addosso un'altra volta.
-Mi aveva promesso che me
l'avrebbe detto – ribatté Emanuele – ma
forse non ci è
riuscita. Non le sono stato molto vicino, in effetti. È che
non
sapevo come aiutarla – si giustificò.
-Credo sia normale. Non è
facile stare accanto a una persona che periodicamente sprofonda in
una tristezza così annientante.
-Ho mandato due ragazzini a
parlarle, al posto mio – mormorò, deluso
– avrei dovuto andarci
io.
Ma subito cambiò discorso, perché non voleva
riprendere a
tormentare Camilla con i problemi di Bianca. E neanche a tormentare
se stesso.
-Ad ogni modo, per ora posso solo aspettare –
concluse – staremo a vedere. E tu, tesoro? Com'è
andata oggi?
-Ti
dirò, ora che mi ci fai pensare, la Milanesi ultimamente
sembra
molto affaticata. Ultimamente ci ha delegato diversi compiti dei
quali prima insisteva ad occuparsi personalmente, nonostante fosse
sufficiente la sua supervisione.
-Probabilmente sua figlia la sta
preoccupando molto.
-Sicuramente è così. Magari, in fondo, ci
tiene.
-O forse è troppo occupata a nascondere al mondo che nel
suo mondo perfetto ci sono diverse macchioline di sporcizia.
-Non
lo escludo. Quella donna vive sempre in alta tensione. Deve sempre
essere all'altezza, sempre fare tutto alla perfezione ed entro i
tempi, sempre essere inattaccabile. E se per caso ti azzardi a
contestarla, lei trova sempre la parola che tu hai detto in mezzo a
un discorso e te la contestualizza in modo da dimostrare che lei
ha ragione, e tu
invece hai torto. È sempre attenta ad ogni dettaglio,
perché non
vuole mai essere colta in fallo: vuole coglierci te. E in questo modo
diventa ogni giorno più nervosa. E odiata.
-Se accettasse di
essere umana e fallibile, forse vivrebbe un po' più
tranquillamente.
E anche la sua famiglia vivrebbe più tranquillamente.
-Il punto è
che lei, per come la vedo, ha fatto voto con se stessa di diventare
infallibile.
-Dev'essere uno shock per lei rendersi conto che sua
figlia, il suo prolungamento, il suo bambolotto, sta crescendo
diversamente da come lei l'aveva progettata. Fuori dal suo controllo,
e per di più così criticabile.
-Lo
credo anch'io. Bianca ti aveva detto che il marito la picchia? Credo
che in quella famiglia nessuno sia molto stabile emotivamente. Non
c'è da sorprendersi che la figlia sia cresciuta
così.
-Ma che
cos'ha la gente? - sbuffò Emanuele –
Perché non riescono a star
tranquilli? Perché non si comprano una Playstation con una
serie di
picchiaduro e non sfogano le loro frustrazioni lavorative?
Camilla
rise, e per quella sera decisero di sfogarsi con una sessione di
Tekken, per prevenire la possibilità di diventare dei
cinquantenni
frustrati o di mettersi a insultare Gengis perché quel mese
non
avevano avuto l'aumento.
Bianca rimase assente un'altra
settimana.
I commenti della classe erano ogni giorno più
velenosi, ma gli insegnanti avevano deciso di scoraggiare i
pettegolezzi. Rimproverarono ad alta voce tutti coloro che si
ritennero in dovere di criticare pubblicamente Bianca. Ma questo non
fece che inasprire le antipatie nei suoi confronti, e nessuno ne
poteva più di sentirsi chiedere perché la Ferreri
avesse sempre un
trattamento di favore.
-Ma insomma, fatevi gli affari vostri –
sbottò un giorno Emanuele – volete spiegarmi
perché perdete così
tanto tempo a chiedervi perché Bianca riceva un ipotetico
trattamento di favore, e non ne perdiate neanche un po' per pensare
che magari avete voi per primi delle mancanze scolastiche?
-Alle
mie mancanze ci penso separatamente – sibilò
Monica Miotto – ma
non capisco perché le mie,
di mancanze, non passano, mentre sulle sue
si chiude sempre un occhio in qualche modo.
-Ma è un problema
tuo, Monica? Ti riguarda in qualche modo?
-Sì che mi riguarda,
perché io penso sempre per me prima di tutto, ma pretendo di
essere
trattata come gli altri. O che gli altri vengano trattati come me, in
questo caso.
Il suo discorso in effetti aveva senso, ed Emanuele
non sapeva bene come replicare. Fortunatamente, Cappelletto decise di
intervenire proprio in quell'istante.
-Senti, Miotto – sbottò,
minaccioso – se non chiudi quella bocca ti avverto che ti
spacco il
naso un'altra volta.
-Lo sente, prof?! - strillò Monica – Vede?
Qua ci sono delle preferenze!
-Che
preferenze ci sono?! Non ti ho neanche toccata, cretina. Ma faccio
presto a toccarti se continui con i tuoi discorsi del cazzo.
-Uuuh!
- fece qualcuno dal fondo della classe; Cappelletto si
voltò, con
sguardo truce.
-Sia ben chiaro che io, la Miotto, non la toccherei
mai
in quel senso. Solo con un pugno o con le tenaglie –
precisò,
rabbioso.
-Lo sente, prof?!
-Ragazzi, veramente, piantatela
– Emanuele si stava seccando – e va bene,
dedichiamo quest'ora
alla discussione sul fatto che Bianca secondo voi viene trattata
meglio di tutti gli altri. Ci perdo volentieri un'ora di lezione. In
cambio, però, voglio sentire da voi argomentazioni sensate.
È chiaro? Voglio che mi facciate capire
come mai avete così a cuore questa faccenda delle assenze, e
in
quale modo queste assenze influiscano sulla vostra vita
scolastica.
La classe si zittì velocemente. Tutti lo guardarono,
ma nessuno aprì bocca.
-Allora? - insistette – Nessuno che mi
sappia spiegare quali danni irreparabili sono stati inflitti sulla
vostra persona dalle assenze di Bianca?
-Se io stessi assente per
tutti questi mesi, mi boccerebbero – grugnì
Valentina Tessari, dal
fondo della classe. Era una che passava metà della sua vita
sui
libri, e aveva sempre odiato Bianca perché a lei i buoni
risultati
uscivano senza sforzo.
-Forse ti boccerebbero perché hai cinque
materie sotto e il resto con un sei tirato, Valentina, non tanto per
le assenze – specificò Emanuele.
-E allora solo perché quella
è brava a scuola può stare a casa tutti i giorni
che
vuole?!
-Scusa, noi dovremmo bocciare una studentessa valida, che
per di più dopo le assenze recupera con le interrogazioni
tutto il
programma, che di solito si studia da sola, perché ogni
tanto si
ammala e ha problemi a venire a scuola? Ma che discorsi stai facendo,
Valentina? Ragazzi, che ragionamenti fate, voi, nella vostra
testa?
-Vede? - esclamò Monica, sbarrando gli occhi e puntando un
pugno sul banco – Fate le preferenze perché ha
voti alti!
-Non
siete altro che un branco di vipere! - si esasperò
Cappelletto,
scattando in piedi e fissando torvo Monica – Se una
è brava a
scuola e quando torna dalle assenze dimostra di sapere il programma,
che motivo c'è di bocciarla?! Questo
ti sta dicendo il prof, stronza pettegola del cazzo! -
guardò
Emanuele, nervosamente – Giusto...?
-Giusto – confermò
Emanuele – ma vediamo di mantenere un linguaggio decoroso.
-Il
mio linguaggio è
decoroso!
-Non parlava con te, serpe. Parlava con me.
-Non ti
permettere di chiamarmi “serpe”!
-Beh, sei
una serpe, e serpi siete tutte quante – diede uno sguardo
accusatorio in giro – beh, a parte Morticia, lei si salva.
Voi non
sapete niente,
però pretendete di parlare. Giudicate, e criticate, e
rompete sempre
le palle. Ma una vostra vita di cui occuparvi non ce l'avete mica...?
Dovete per
forza
parlare tutto il tempo di quella di Bianca?
-Non è colpa nostra
se lei si mette in mostra!
-Monica, Dio santo, come fa a mettersi
in mostra se è assente?! - intervenne finalmente Valeria,
sbuffando.
Valeria parlava spesso sbuffando e borbottando, ma stavolta
sbuffò
più forte del solito. - Per favore, facciamoci gli affari
nostri. È
vero che rompeva le palle quando c'era. Ma adesso che non
c'è, non
vedo il bisogno di stare qui a farle la festa alle spalle.
-Io le
direi le stesse cose esattamente in faccia!
-E allora digliele
quando torna, no? Invece che farci perdere ore di lezione per queste
stronzate.
-Non sono ore perse. È giusto
discutere di queste cose.
-Ma fammi il piacere. Tu ti sei vista
troppo Gossip
Girl.
-Bianca
non ha niente a che vedere con Serena Van Der...
-Ragazzi, non vi
ho lasciato un'ora di discussione per parlare di Serena Van Der
Woodsen.
-Non l'ho tirata fuori io – si inasprì Monica.
-Per
favore, piantiamola – borbottò Valeria, con un
sospiro, alzando
gli occhi al cielo.
-Avete qualcos'altro da dire? - invitò
Emanuele – Prego. Ormai l'ora è stata dedicata al
dibattito.
Proteste? Suggerimenti? Veleno gratuito-ops, scusate, mi è
sfuggita?
-Lei sta dalla sua parte come tutti gli altri –
sputò
Valentina – l'ha data anche a lei, per caso?
La classe ammutolì.
Perfino Monica guardò Valentina con stupore. Quella si
guardò
attorno, nervosa.
-Beh? Cosa c'è? Lo pensate tutti, no?
-Ma
solo tu puoi essere così cretina da dirlo –
mormorò nella sua
direzione Crivellaro, scuotendo la testa.
-Lo sai che potrei
prendere seri provvedimenti per questa insinuazione? - le fece
notare, con calma, Emanuele – Non puoi muovere simili accuse
a un
professore. È molto grave. Potrei denunciarti per
diffamazione, se
non fossi un po' più umano di molti colleghi e non prendessi
le tue
parole per ciò che sono, ovvero gli sfoghi di una ragazzina
di
sedici anni infuriata.
-Dica pure frustrata
e
imbecille
– borbottò Cappelletto, lanciandole
un'occhiataccia.
-Vi prego,
piantiamola – gemette Valeria, con aria estremamente seccata,
reggendosi la tempia con una mano – vi giuro, siete
deprimenti.
-Detto dalla regina dei depressi...! - sibilò
Valentina, ma Valeria si limitò a sospirare e a scivolare
sempre di
più verso il banco – E a proposito di depressi, lo
so benissimo
come fa a ottenere quel che vuole ogni volta. Buu-huu, lacrimucce di
coccodrillo. Poverina, quanto mi dispiace per lei,
buu-huu-huu.
Cappelletto si alzò e iniziò a marciare verso il
banco di Valentina, ma fu prontamente fermato dalla mano di Valeria,
che si sporse dal banco ad afferrare il lembo della sua felpa. Questa
sospirò ancora, guardando davanti a sé con aria
tremendamente
annoiata.
-Spero che il resto della classe serbi delle
argomentazioni più serie a sostegno delle proprie accuse
– riprese
Emanuele – ma prima che me le esponiate, lasciatemi dire una
cosa.
So che è molto facile fermarsi alle apparenze e puntare il
dito
contro qualcuno, e so anche che creare un capro espiatorio da
caricare di tutte le nostre frustrazioni è ancora
più semplice. Ma
la verità è che non sappiamo niente di quello che
provano gli
altri. Un vecchio proverbio indiano dice: prima di giudicare un uomo,
cammina per tre lune nei suoi mocassini.
Ci fu un attimo di
silenzio.
Poi Valentina fece schioccare la lingua con
sprezzo.
-Sono tre anni, non tre lune,
che ce l'ho in classe. Giunti a questo punto credo di avere il
diritto di giudicarla.
Emanuele si passò una mano sugli
occhi.
-Allora io ho diritto, dopo tre anni, a giudicarti una
vipera pettegola come la tua amichetta Miotto – insorse
Cappelletto, instancabile.
-Io me ne vado – fece Valeria,
alzandosi e incamminandosi verso la porta – prof, aspetto qua
fuori
in corridoio con l'iPod. Mi fa un chiamo quando riprendiamo con la
lezione?
-Aspetta – la chiamò Emanuele; lei si
fermò
sull'uscio. Tornò a rivolgersi alla classe. - Sinceramente,
mi
aspettavo qualcosa di più da voi –
incominciò, con un tono calmo
che li fece ammutolire. Continuò. - Quantomeno che aveste la
decenza
di zittirvi, dopo che vi è stato spiegato che non
c'è nessun
trattamento di favore. Sto ancora cercando di capire cosa vi sia
stato tolto, cos'è che vi rode così profondamente
il culo, ma
proprio non ci arrivo. - Scosse la testa. - Perdonatemi. Non riesco
a mettermi nei vostri panni.
Detto
ciò, chiuse la Divina
Commedia
e si abbandonò beatamente sulla sedia.
-Fate quello che volete,
per quest'ora – li esortò – tanto, la
lezione era comunque
andata persa.
Ma nessuno osò più aprire bocca. Valeria rimase
ferma sulla soglia fino alla fine dell'ora, tormentandosi i guantini
di pizzo, Cappelletto fissò rabbiosamente quel punto fuori
dalla
finestra su cui Bianca era solita posare lo sguardo, e il resto della
classe rimase solennemente in silenzio finché non
suonò la
campanella della sesta ora; ma anche in quel momento, fino a che
Emanuele non ebbe recuperato la ventiquattrore ed ebbe varcato la
porta con un noncurante “a domani”, non
volò una mosca in tutto
lo spazio dell'aula.
Mariolina, più tardi in corridoio, gli
chiese cos'avesse mai fatto per farle trovare la classe muta e
perfettamente immobile al temibile cambio della quinta ora.
Camilla
fu scandalizzata dal comportamento della classe, e prese apertamente
le difese di Bianca.
-Com'è possibile che non si siano accorte
dei suoi problemi? - fu il suo commento – C'erano anche loro,
quando lei piangeva.
-Ma per loro era buu-huu-huu. Questi sono i
livelli della terza A. E io che speravo di avergli insegnato
qualcosa; non la Divina
Commedia,
per carità... ma un po' di comprensione umana. E anche un
po' di
sana voglia di farsi gli affari propri.
-Non ho veramente parole –
mormorò Camilla, scuotendo la testa – che
ragazzini crudeli. Una
loro compagna è assente da due settimane, e loro non pensano
ad
altro che a sparlare di lei quando è assente.
-Per la verità,
non ci vanno leggeri nemmeno quando è presente –
le rammentò –
però è orribile da parte loro fare questi
paragoni. Se non fosse
evidente che ha dei problemi, potrei forse capirli. Ma è
talmente
lampante.
-Questo
succede quando uno non vuole vedere – osservò
Camilla – se si
togliessero le mani dagli occhi, sarebbero costretti a guardare, e a
prendere atto di quelle che sono le ragioni di Bianca. È
più
semplice coprirsi la visuale e sostenere pervicacemente le proprie
idee, per miopi che siano.
-Precisamente. So che come insegnante
dovrei mantenere la neutralità, ma non riesco a stare calmo
e
cercare di conciliare. Se mi fanno infuriare, io li tratto da
stupidi. Non dovrei, ma non riesco a fare altrimenti.
Camilla
sorrise e gli accarezzò dolcemente un braccio.
-Se servisse a
qualcosa, poi – continuò, imbronciato –
se trattarli da idioti
servisse a farli crescere, a farli rendere conto. Ma poi li guardo e
mi rendo conto che non è servito a niente, che ci ho solo
rimesso un
pezzo di fegato per avere come risultato un muro di ottusità
che si
alza di giorno in giorno. Capisci? Tu pensi di averlo abbattuto, poi
alzi gli occhi e vedi che è più alto di prima.
-Capisco molto
bene.
-Pensi di aver lasciato il segno, di aver significato
qualcosa. Di averli cambiati,
almeno un po', di aver indotto una piccola riflessione, almeno.
E invece nulla. E sai qual è la cosa peggiore? Non so
nemmeno
distinguere se sia io, il fallimento, o se lo siano loro.
-Il tuo
solito problema – commentò Camilla, seguendo
delicatamente il
contorno del suo viso con l'indice.
-Sì, è il mio solito
problema. Mi do la responsabilità delle mancanze degli
altri,
pensando che se io davvero valessi qualcosa, sarei riuscito nel mio
intento di migliorarli.
-Mi sembra di averla già sentita, questa
– sorrise lei.
-Lo so, è storia vecchia. E so che è sbagliato
definirmi in base alla misura in cui riesco a scalfire una parete di
pietra con una forchetta di plastica. Ma non riesco a farne a meno,
capisci. Forse idealizzo troppo il ruolo dell'insegnante. Magari ho
sbagliato mestiere.
-E che mestiere vorresti fare? - Camilla era
divertita.
-Non so. Forse lo psicologo della scuola – scherzò
–
o forse semplicemente il papà.
A quell'affermazione seguì un
silenzio stupito da parte di Camilla, che boccheggiò per
qualche
secondo fissandolo con uno sguardo spaesato.
-Ehi – ridacchiò,
dandole un pizzicotto su una guancia – Emanuele chiama base.
Sei
ancora tra noi?
-Io... - fece lei, confusa – cioè... io...
cioè... ma tu... cioè. Tu vorresti... davvero?
-E perché no?
Sì, direi che una graziosa piccola Camilla che trotta per la
casa
non mi dispiacerebbe.
Lei lo guardò, a bocca aperta. Emanuele
rise. Per un bel po', rimasero così; lei che alzava gli
occhi dal
piatto e lo guardava sbalordita, lui che incontrava il suo sguardo e
rideva.
Sì, pensò. Una piccola Camilla che zampettava
attorno al
tavolo non gli sarebbe dispiaciuta affatto.
Bianca non si
presentò per un'altra settimana di fila.
Emanuele sapeva cosa
stava succedendo: Bianca era immobile nel suo letto a piangere.
Sapeva che stava andando avanti da una ventina di giorni. Sapeva; e
nonostante questo, pensava disprezzandosi, cercava di allontanare
l'immagine di Bianca dalla sua mente, riempiendola con qualsiasi cosa
gli capitasse sottomano.
Tornando da scuola, il mercoledì, si era
fermato alla Feltrinelli ed era tornato a casa con una quindicina di
volumi.
-Così tanti? - si era stupita Camilla.
-Troppo pochi –
aveva replicato – insegno pur sempre Lettere; questi
dovrebbero
essere il minimo.
Non
amava mentirle, ma non voleva, a nessun costo, torturarla di nuovo
con la figura di quella ragazzina. Preferiva consumarsi dentro e
combattere ogni singolo istante coi suoi sensi di colpa, ma farlo
rigorosamente da
solo.
Aveva promesso a se stesso e a lei che non l'avrebbe mai più
coinvolta. Intendeva mantenere.
E fu così che Emanuele decise che
era tempo di farsi la tessera d'abbonamento al cinema, e, quella
settimana, ci andarono una sera sì e una no.
Nei giorni che
rimanevano, si organizzò come meglio poteva: un giorno
osservò che
era da tanto che non si vedevano con Simonetta e Nicola, e quindi li
invitarono a cena; un altro giorno accettò la proposta di un
happy
hour da parte degli amici del paese, che poi tirò avanti
fino a sera
tardi; il giorno rimanente era sabato, e il sabato poteva anche
prendere e andare via con Camilla in giornata.
Ma Camilla voleva
rimanere a casa.
-Come, a casa? - le chiese; ma si rese conto di
suonare piuttosto ansioso – Non ti va di fare una piccola
gita
assieme? Torniamo stasera. Una cosa tranquilla.
-È una bella
idea, amore, ma oggi sono un po' stanca. Stasera usciamo, e andiamo
dove vuoi, ma oggi posso rilassarmi un poco a casa mia? Solo per oggi
– promise, con il suo sorriso dolce.
Ma Emanuele era nervoso.
Quando non aveva nulla con cui occuparsi, i pensieri lo assalivano,
come un plotone di soldati che attaccasse un forte
medievale.
Pranzarono pigramente – si erano alzati piuttosto
tardi – e, dopo il caffè, Camilla prese un libro e
si sistemò
comodamente sul divano. Emanuele fece un po' di zapping, ma non
trovò
nulla d'interessante – doveva ricordarsi di andare a
informarsi sul
digitale terrestre.
Propose una sessione di shopping in centro, ma
Camilla rispose che per quel mese, per via del weekend a Parigi,
avevano già speso parecchio, quindi non era il caso.
-Un giretto?
- implorò Emanuele – Solo per uscire di casa.
Lei sollevò due
occhi molto sorpresi dal libro che stava leggendo.
-Ema –
incominciò, perplessa – è tutta la
settimana che siamo in
giro.
-Lo so – fece lui, incapace di replicare.
-Stasera
usciamo, te l'ho promesso. Non va nemmeno a me di stare chiusa in
casa. Andiamo anche a prendere lo spritz prima di cena, se vuoi. Ma
lasciami qualche oretta di pace, sii gentile.
Camilla sfoderò uno
dei suoi famosi sorrisi, ed Emanuele non poté rispondere
nulla. Si
rassegnò ad afferrare un libro e ci mise un'ora solo per
leggere una
decina di pagine. Continuava a perdere il filo, e a riaggrapparcisi
con forza non appena il suo pensiero premeva per raggiungere
Bianca.
Ad un certo punto, Camilla chiuse il libro e si voltò
verso di lui.
-Che cosa c'è? - chiese, pacata, ma decisa.
-Io?
Nulla – Emanuele fece una faccia sorpresa; ma mentire era una
cosa
che non gli riusciva molto bene, specie con la ragazza con cui
conviveva da ormai tre anni.
-Mi sembri irrequieto – osservò
quest'ultima – lo sei da tutta la settimana.
-Dici? -
temporeggiò; tornò ostentatamente al proprio
libro.
-Dico –
insistette lei – sembra che tu non riesca a stare fermo e in
silenzio due minuti.
-Ma va'.
-Allora mi sono
sbagliata?
-Amore, è tutto a posto. Davvero.
Camilla tacque
per qualche secondo; Emanuele continuò a fissare le pagine
del
libro, senza però leggere nemmeno una sillaba. Sentiva che
lei lo
stava guardando, e aveva la brutta sensazione di stare
arrossendo.
-Bianca è stata assente, questa settimana? - chiese
lei alla fine.
-Eh? - fece lui, guardandola con aria
sorpresa.
-Bianca è ancora assente, vero? Sei preoccupato per
lei? È per questo che non riesci a tranquillizzarti?
-Ma no –
esclamò, con fin troppa enfasi – non c'entra
niente. Sì, è
assente, ma non è per lei che... cioè...
-Allora ammetti di
essere un po' teso.
-Cami...
-È per lei...?
Abbassò la
testa, sconfitto.
-Credo di sì – ammise. - Cioè.
È per me,
più che per lei.
-In che senso? - chiese Camilla. Non sembrava
arrabbiata. Ma non sembrava nemmeno partecipe. Quella
neutralità un
po' lo spaventava.
-Nel senso che lei è a letto a piangere, e io
lo so. Ma benché io lo sappia cerco comunque di
dimenticarmelo.
Cerco di allontanarla dai miei pensieri, e questo non è
giusto. È
egoista.
-È per non pensare a lei che stiamo facendo questo tour
de force?
-Camilla,
ti prego, non fraintendere. Ti prego.
-Non c'è molto che io possa
fraintendere.
-Sì, ma... non fraintendere.
-Ema... - Camilla
sospirò, rassegnata. - Non so cosa pensare. Sembra che,
qualunque
cosa io faccia, quello che fa lei sia sempre più importante.
Il tuo
umore cambia in base al suo. E io non riesco nemmeno a far qualcosa
per riportarlo alla stabilità.
Emanuele ammutolì.
-Sai –
continuò Camilla – se lei non avesse sedici anni,
penserei che tu
te ne sia innamorato.
-No
– esclamò – no. Nel modo più
assoluto, no.
-Già.
È per questo che è triste. Non ne sei innamorato,
eppure riesce a
coinvolgerti più di quanto riesca a fare io. Devo dirti la
verità?
Mi sento molto triste. E insignificante.
Camilla non pianse, non
si arrabbiò, non lo guardò nemmeno. Si
limitò a mettere il segno
al libro che stava leggendo e ad avviarsi su per le scale, con
un'espressione amara che non le aveva mai visto.
Emanuele si sentì
sprofondare.
Che cosa doveva fare? Cosa doveva fare?
Preoccupandosi per Bianca, feriva Camilla. Preoccupandosi per
Camilla, doveva trascurare Bianca. Trascurare Bianca significava
ferire anche sé stesso. Ma anche ferire Camilla significava
ferire
sé stesso.
E d'altronde, cosa poteva fare? Andare da Bianca,
dirle: “esci da quella stramaledetta depressione, cazzo, mi
stai
rovinando la vita”? O andare da Camilla e dirle
“è mio pieno
diritto rovinare la mia esistenza e la tua perché quella
ragazzina
mi sta divorando anima e corpo”? E a se stesso, cosa poteva
dire?
Non era nemmeno in grado di reprimere quello che provava. Ma era poi
giusto, reprimersi? Sarebbe cambiato qualcosa, anche se avesse finto
indifferenza verso Bianca? Ed era davvero una colpa, se si ritrovava
a preoccuparsi così tanto per lei? Non l'aveva certo chiesto
lui;
fosse stato per lui, avrebbe continuato a vivere sereno nella sua
casa con la sua fidanzata e la sua vita tranquilla.
Fermo, si
disse a un certo punto. Qui siamo a un punto morto.
Aveva evitato
di affrontare il problema per tutta la settimana, e, quando l'aveva
affrontato, si era ritrovato davanti a un muro. Ma era tempo di porsi
una domanda: possibili soluzioni?
Poteva andare a parlare con
Bianca. Ma questo non avrebbe risolto molto. Tanto più che
non
sembrava fosse in grado di parlare con chicchessia.
Oppure poteva
parlare con Camilla, rassicurarla, farle un'altra sorpresa magari, ma
sapeva che non avrebbe funzionato. Le sorprese funzionano una volta
sola. Ed era certo che ormai lei non credesse più alle sue
promesse.
Ma poi un pensiero gli attraversò la mente.
Il
problema, in fin dei conti, non era suo.
Certo, era anche suo,
dato che sia Bianca che Camilla facevano il possibile perché
lui
avesse ben chiari i loro tormenti e se ne preoccupasse. Ma il vero
problema, in fin dei conti, era tra quelle due. Non suo.
Perché
doveva perderci lui
il sonno, solo perché Bianca non era in grado di accettare
che lui
amasse un'altra, e Camilla non era in grado di accettare che lui
avesse un legame profondo con un'altra persona?
A quel pensiero si
risentì parecchio contro le due, e improvvisamente si
sentì di
nuovo forte.
Salì le scale a passo di marcia e scovò Camilla
seduta sul letto, che leggeva il suo libro con aria profondamente
contrariata. Spalancò la porta e la guardò,
determinato.
-Vestiti
– le disse – per favore. Vorrei portarti in un
posto.
-Quale
posto? - chiese lei, con distacco. Non si fece scoraggiare.
-Ti
porto dalla fonte di tutti i tuoi malesseri.
-Cioè...?
-Ti
porto da Bianca – replicò tranquillamente, e,
quando lei aprì
bocca per protestare, riprese immediatamente. - Ti porto a vedere lo
stato in cui versa, e, se siamo fortunati, forse ci potrai anche
scambiare due parole. Purtroppo devi arrenderti davanti a un fatto:
non intendo smettere di preoccuparmi per lei. Finché lei si
rivolgerà a me, io continuerò a risponderle. Per
cui, se vuoi che
io smetta di pensare a una ragazzina di sedici anni che due mesi fa
ha tentato il suicidio e ora sta in un letto a piangere in stato
catatonico, dovrai andare lì personalmente e dirle di uscire
dalla
mia vita. Perché io non ce la butterò mai
fuori di mia volontà, mettitelo bene in testa.
Camilla lo guardò,
e nel frattempo iniziò a piangere in silenzio. Ma Emanuele
era
deciso a proseguire.
-Mi dispiace, Camilla. Mi dispiace davvero
per quello che sta succedendo. Ma tu stai comportandoti decisamente
da bambina, scusa la franchezza. Tu sei meravigliosa, e dolce, e
intelligente, e io ti amo da morire. Ma non puoi pretendere che tutte
le mie attenzioni siano per te, in un momento come questo. Sembra che
tu non voglia capire una cosa: io non
sto
pensando a lei come fa un innamorato. Sto pensando a lei come faresti
tu stessa se una tua nipotina di sedici anni si ammalasse di
depressione. Tu hai una cuginetta che ha più o meno la sua
età,
vero? Vittoria. Giusto?
Camilla annuì tra le lacrime.
-Ecco.
So che le vuoi molto bene. E so che se tentasse il suicidio ti
preoccuperesti molto, sbaglio? Se non la vedessi per quasi un mese, e
sapessi che in tutto quel tempo è chiusa in casa a pensare
che la
vita è una merda e che quindi non vuole più
viverla, tu non saresti
preoccupata? Cazzo, non ti tormenteresti giorno e notte...?
Annuì
ancora, singhiozzando ed asciugandosi il viso.
-Ecco. E allora
perché mi costringi a dover far finta di niente? Se una
persona a
cui tieni versasse in questo stato, non verrei mai da te a pestare i
piedi perché non sei perfettamente concentrata su di me e
sul nostro
rapporto. Penserei che passi un periodo di merda e che sei
preoccupata per quella persona. E allora perché tu non puoi
fare lo
stesso con me?!
Camilla scoppiò a piangere rumorosamente, ed
Emanuele le si avvicinò. Si sedette su una sponda del letto.
-Io
non ti ho mai trascurata per lei, in fondo –
continuò, a bassa
voce – non ho mai rifiutato di uscire, o di fare l'amore, o
ti ho
risposto male. Eppure tu te la prendevi con me, perché
spesso ero
triste. Avrei preferito che tu mi stessi vicino, anziché...
accusarmi.
L'aveva detto.
Quella sensazione che aveva sempre
avuto, ma che non era mai riuscito a distinguere chiaramente, ora era
uscita a parole senza che lui dovesse cercarla. Era venuta
così,
naturale.
Era la verità.
-Non volevo fare i capricci –
singhiozzò Camilla – io volevo... volevo essere
una brava
fidanzata, che non ti dà problemi. Però... tu mi
dici che devo
parlarti, quando qualcosa non va. E allora io ho parlato. Ma tu ti
sei arrabbiato. E allora vedi? Dovevo stare zitta –
singhiozzò
ancora più forte, nascondendo il viso tra le ginocchia. Le
accarezzò
dolcemente la schiena.
-Hai fatto bene a parlare – le sussurrò
– perché, se non avessi parlato, io non avrei
potuto dirti che ti
preoccupi inutilmente. Non ti sto dicendo che non esprimere le tue
sensazioni, né ti sto accusando per il fatto di provarle: se
ti sei
sentita messa da parte, probabilmente hai avuto le tue ragioni. Ma ci
tenevo a spiegarti quel è il mio atteggiamento nei confronti
di
Bianca, perché tu la stai mettendo sul tuo stesso piano,
mentre lei
non è affatto sul tuo stesso piano, e non lo sarà
mai. - Sospirò.
- Io non ti permetterei mai di ucciderti. Non cercherei di
dimenticarti solo perché lei me lo chiede. E se tu passassi
le
giornate a piangere, lo farei anch'io.
Camilla sembrò calmarsi.
Lo guardò, sperduta, in attesa che continuasse.
-Però, adesso a
trovarsi in difficoltà è lei –
spiegò – e quindi devo
dedicarle le mie attenzioni, il mio aiuto. Io le voglio bene,
Camilla. Mi spezza il cuore vedere come si è ridotta quella
ragazzina così giovane, dato che, per quanto tu lo odi, mi
ci sono
affezionato. Non puoi chiedermi di non essere in pensiero per lei,
perché mi ha detto delle cose che mi hanno paralizzato.
Cerca di
capirmi, ti prego. Cerca di starmi accanto. Perché se ti ho
scelto è
perché non ritenevo che nessuna ne fosse in grado... a parte
te.
Tacque. Posò lo sguardo da qualche parte sulla trapunta
colorata, come se le chiedesse cosa fosse più giusto fare.
Poi lo
spostò sulla finestra, e infine tornò negli occhi
di Emanuele.
-Io
– iniziò con voce roca – posso
accettarlo. Ma lo faccio
fidandomi ciecamente di te. È l'unico modo in cui riesco a
scendere
a patti con una cosa del genere.
-Tu puoi fidarti – esclamò –
qualsiasi cosa accada, tu devi sapere che io non me ne andrò
mai.
Non ti sei fidata di me, fino ad oggi?
-Sì – mormorò lei,
abbassando gli occhi.
-Ehi – la chiamò – ti sei sempre fidata
di me?
Ma lei non rispondeva.
-Camilla.
Lei sollevò il viso
e gli rivolse un'occhiata molto triste. Aprì la bocca, poi
la
richiuse. Poi sembrò ancora più triste.
-Non ti fidi...?
-N...
non è che non mi fidi – incominciò,
incerta – è che tu hai
sempre avuto decine di ragazze. In paese ti avevano anche
chiamato...
-Ok, tralasciamo come mi hanno chiamato.
L'avevano
rinominato il maiale del paese, per dirla in termini diplomatici. Una
fama che si era decisamente guadagnato.
-Perché ne conquistavi
una dietro l'altra. E non sono mai riuscita a capacitarmi che tu
avessi scelto proprio me. E solo
me.
-Ma, scusa, Camilla, perché avrei dovuto chiederti di
sposarmi, se avessi avuto ancora voglia di fare il coglione?
-Non
lo so. In tanti lo fanno perché a
trent'anni è ora di sistemarsi,
e poi magari tradiscono la loro compagna, o...
-Senti, ma è
questo che pensi di me? No, perché, se questa è
l'opinione che ti
sei fatta sul sottoscritto, c'è da domandarsi
perché tu abbia
risposto 'sì'.
-Perché io ti amo.
-Lo dici come se intendessi
'a differenza tua, io
ti amo'.
-Non intendevo questo.
-Davvero...?
-Per favore,
basta – gli occhi di Camilla si bagnarono di lacrime
– non voglio
litigare con te. Voglio solo stare tranquilla. Voglio solo... voglio
solo...
Incapace di esprimersi, scoppiò nuovamente in lacrime.
Emanuele rimase vicino a lei, guardando la trapunta, inespressivo.
Alla fine, molto lentamente, parlò.
-Mi sembra di capire – le
disse – che il problema non sia Bianca.
-No – ammise Camilla,
tra i singhiozzi.
-Il problema è che tu non ti senti sicura di
me.
Lei non rispose, ma pianse più forte. Lo prese come un
'sì'.
-Non che non ce l'abbia con te, ma dev'essere in parte
colpa mia, se lo pensi. Ho fatto qualcosa perché tu lo
pensassi?
-No
– sussurrò lei – mai.
-Ma neanche niente perché tu non lo
pensassi, giusto?
-Io ho sempre cercato di fare del mio meglio –
fece lei, con voce tremante – perché tu rimanessi
vicino a me. Di
essere sempre calma e gentile, di non darti pensieri. Perché
ho
paura che tu te ne vada.
-E da chi dovrei andare...?
-Da... da
quelle che ci provano. Da quando ti conosco ce n'è sempre
state, in
continuazione.
-Ah, beh, sì. Io vado con chiunque me lo chieda.
Sicuro.
-Non volevo dire questo!
-Però purtroppo l'hai detto,
si vede che ti è sfuggito. Mi spiace che tu lo pensi, ma,
no, non
sono assetato di sesso al punto di andare con tutte quelle che ci
provano. A questo punto, dovrai pensare che la proposta di matrimonio
sia stato qualcosa come un pesce d'aprile, dato che comunque io sto
con te per finta, vado con le altre e non me ne frega niente di
te.
-No! - gridò Camilla, e scoppiò in singhiozzi
disperati.
Fantastico, pensò Emanuele. Dovunque si girasse,
c'erano donne che piangevano perché l'amavano.
Era un po'
arrabbiato, perché anche lui avrebbe voluto urlare che
rivoleva la
sua vita di prima, quella senza dubbi e problemi e lacrime.
Ma non
poteva più accusare Bianca di avergliela rubata.
Bianca non aveva
fatto altro che risvegliare delle vocine addormentate sepolte nella
parte più profonda di loro stessi; quella parte in cui
finora,
nonostante dormissero fianco a fianco e respirassero in coro, non
avevano ancora avuto modo di scavare.
Modo, oppure volontà.
Oppure coraggio.
Perché era pur vero che, in fondo, i timori di
Camilla non erano per nulla infondati, e di questo non poteva
accusare altri che se stesso.
Quel giorno non andarono da
Bianca. Nemmeno Emanuele ci andò, non ce la faceva.
C'era troppa
tristezza dentro di lui per riuscire a sostenere anche quella di
Bianca. Quelli per ritornare in sella del suo candido destriero non
erano stati altro che vani tentativi.
In realtà, quel giorno
avrebbe voluto dormire da un'altra parte, lontano da Camilla. Aveva
voglia di starle lontano, e ne soffriva enormemente, perché
non
aveva mai voluto starle lontano nemmeno per un secondo.
Capì che
si può perdere l'amore anche quando non sono gli altri a
negarcelo:
può anche sfuggirci scivolando attraverso le nostre stesse
dita, e
noi possiamo solo guardarlo andarsene, volando lontano come granelli
di sabbia cullati dolcemente dalla brezza che, alla fine del loro
viaggio, si disperdono nel mare per sempre.
Quella settimana
si parlarono poco, sempre cortesemente, fingendo che qualcosa non si
fosse rotto tra di loro; ma era nell'aria, l'avvelenava e la rendeva
irrespirabile. Quella gentilezza formale non era ciò a cui
erano
abituati. Non fecero mai l'amore, quella settimana, e dormirono senza
abbracciarsi per qualche giorno. Alla fine si riavvicinarono, ma
quando si toccavano sembrava toccassero una superficie rovente.
Nessuno disse nulla al riguardo.
Stiamo per sposarsi, pensava
Emanuele, ed ecco come siamo ridotti.
E ciò che più gli faceva
male era che Camilla aveva un grande peso nel cuore, ma non ne
parlava, e probabilmente non ne avrebbe parlato mai più,
né di
questo né di altro, per paura di causare una nuova rottura.
Un
giorno, quando il pensiero di Camilla che soffriva dentro di se in
silenzio gli divenne insopportabile, l'abbracciò forte sotto
il
piumone e versò qualche lacrima tra i suoi capelli.
Lei gli
strinse forte le mani e lui circondò la sua schiena
tremante.
Entrambi cercarono di mantenere il silenzio, perché
sentivano che, se avessero parlato, il momento si sarebbe spezzato.
Era un momento così fragile che sembrava ammonirli di non
perderlo,
poiché poteva essere l'ultimo.
*
Bianca
tornò con aprile, con i venti più tiepidi e i
primi timidi
boccioli.
Emanuele ora riusciva a guardarla con reale distacco.
Aveva realizzato che non era lei a costituire la barriera innalzatasi
tra lui e Camilla, quindi si sentiva pronto a guardare la situazione
non come a un problema che lo affliggeva, ma come a un problema che
affliggeva Bianca stessa.
Il due di aprile Emanuele varcò la
soglia della terza A e vide Cappelletto e Valeria attorno al banco di
Bianca; le parlavano. Sorrise. Quando entrò, Cappelletto lo
guardò,
e vide negli occhi di quel ragazzino un sincero sollievo. Nel mentre,
sembrava che Valeria faticasse molto a parlarle – d'altronde
provenivano da due universi totalmente differenti – ma gli
sembrò
un buon segno che ci stesse provando. Del resto, Valeria era una che
parlava poco e aveva un carattere abbastanza scontroso; naturale che
si trovasse a disagio con una come Bianca.
Quanto a Bianca, lei
era come al solito; i capelli rossi sembravano una vampata di fuoco,
l'ombretto nero e l'eyeliner le davano un'aria quasi maledetta che
Valeria, nonostante la sua cipria e il suo trucco da dark lady, non
riusciva in nessun modo ad emanare. Non si era risparmiata
né sulla
scollatura, né sulla porzione di gambe scoperte; i primi
venticelli
caldi l'avevano portata ad eliminare le calze pesanti e a sfoggiarne
un paio di quasi trasparenti, tanto che sembrava avesse le gambe
nude. Portava un paio di ballerine, questa volta, ma l'effetto totale
non ne risultava diminuito di carica sessuale. Benché la
disprezzassero, parecchi dei suoi compagni non riuscirono a non
guardarle le cosce.
-Buongiorno – esordì sorridendo. I ragazzi
lo salutarono, tranquilli. - Come va?
La faceva spesso, questa
cosa del chiedere come andasse. Ci teneva a sapere se i suoi alunni
fossero scontenti o tristi per qualcosa. E sapeva che questo li
faceva sentire considerati anche come esseri umani; bastava
così
poco per andare incontro ai ragazzi, eppure tanti non se lo sognavano
neppure, di domandare loro se andasse tutto bene.
A ben pensarci,
era davvero brutto: se avessero incontrato un conoscente per strada,
sicuramente come prima cosa gli avrebbero detto 'come stai?'. I suoi
colleghi vedevano quei ragazzini ogni giorno, e mai che trovassero la
voglia di chiedere se fosse tutto a posto.
-Male, prof –
bofonchiò Monica, guardando di sottecchi Bianca. Valeria
l'apostrofò
con un:
-Chiudi quella fogna, ogni tanto – mentre Cappelletto le
mostrava il pugno, alzando un sopracciglio con un'occhiata
eloquente.
Bianca aveva trovato due angeli custodi. Gli sembrò di
vedere le sue labbra incresparsi in un accenno di sorriso.
Fu nel
notare questo che si accorse che, sul suo labbro inferiore,
troneggiava un piercing nuovo fiammante a forma di spirale.
E
Cappelletto lo fissava con un'aria decisamente più che
incuriosita.
Notò anche alcuni segni sotto l'occhio destro, e
dalla sciarpina di seta che portava attorno al collo facevano
capolino delle macchie bluastre che Emanuele aveva già visto
in
passato.
Prese un respiro profondo, appoggiò la ventiquattrore e
si disse, resisti.
Cedere non avrebbe mai risolto nulla.
Bisognava
combattere.
-E con questa direi che posso lasciarvi in pace –
asserì, alla fine della spiegazione – siete stati
proprio bravi,
oggi.
Si trattenne dall'aggiungere 'se solo foste sempre
così', cosa che, sapeva, avrebbe avuto il potere di
irritarli
enormemente. Tenne per sé questa considerazione, e vide dei
sorrisi
sulle labbra di alcuni alunni, orgogliosi di sé stessi.
Tentavano di
trattenerli, ma non erano molto astuti. Se ne rendeva conto ogni
volta.
-Questi ultimi cinque minuti sono tutti vostri, fate quel
che volete: colazione, iPod, PSP, disegnare draghi e cavalieri...
basta che non alziate la voce, io intanto mi leggo il mio libro,
ok?
La classe accolse la notizia con entusiasmo e tutti fecero per
lanciarsi sulle loro attività di preferenza; chi
aprì il libro
dell'ora successiva, chi azzannò una merendina, chi, come
Valeria e
Benetazzo, disegnava furiosamente sulle copertine dei quaderni.
Ad
un tratto, però, una ragazza che si chiamava Francesca ebbe
un'illuminazione.
-Prof – esordì – ma lei tra due
settimane
si sposa!
Emanuele alzò gli occhi dal suo Diario
di un vecchio sporcaccione.
Non fece in tempo ad aprire la bocca, che un coro di voci
iniziò a
spargersi nell'aria:
-Ma dai! È vero!
-Il prof si sposa!
-Il
nostro scapolo d'oro!
-Ha per caso cambiato idea, su quel discorso
della spada...?
Sorrise e lanciò loro un'occhiata, senza però
aggiungere altro. Non era certo che a Bianca quel discorso facesse
piacere.
-Allora siamo invitati alla cerimonia? - insistette
Francesca – Possiamo, prof? Non facciamo casino.
-Posso entrare
un attimo prima del bacio urlando 'questo matrimonio non s'ha da
fare'? - lo implorò Cappelletto – Posso, posso,
prof? È il mio
sogno da una vita!
-Semplicemente ti
ammazzerei –
replicò tranquillamente, e Cappelletto sospirò,
scuotendo la testa
– ma se volete venire, prego. Dovete solo prendere un autobus
o due
e farvi un'oretta di treno. Di domenica. E la cerimonia inizia sul
presto. Ricordatevi che la sera precedente è un sabato
– ghignò.
I
ragazzi si guardarono in giro per un attimo, incerti, e un mormorio
percorse l'aula. Ma, alla fine, fu Giulia a prendere una decisione
per prima.
-Io vengo – dichiarò decisa – ci sono
cinquantadue
sabati sera in un anno, ma il prof si sposa una volta sola nella
vita. Almeno questo gli si augura – precisò.
-Grazie, eh,
Giulia?
-Comunque vengo anch'io – asserì Cappelletto
–
sicuro. E viene anche Bianca, vero? E anche Morticia.
Valeria alzò
un dito verso Cappelletto ma poi guardò Emanuele, scocciata,
e
annuì.
Bianca, invece, guardava il davanzale e ridacchiava.
Accortasi che Emanuele e Cappelletto la guardavano, si
affrettò a
tornare seria e fece:
-Cosa? Io? Quel giorno temo di avere un
impegno. Mi dispiace.
Altra ondata di mormorii, questa volta
perfidi. Valeria lanciò in giro delle tali occhiatacce che
smisero
quasi subito, ma la voce che Bianca, oltre che facile, fosse anche
cattiva e maleducata, ormai era partita e difficilmente si sarebbe
fermata.
Tuttavia, ora in classe c'era qualcuno che la difendeva;
a ricreazione notò che i due le stavano vicini, rinunciando
lui alla
compagnia dei suoi amici ricchi e griffati, lei ai suoi amici di nero
vestiti delle altre sezioni. Probabilmente i tempi non erano ancora
maturi per amalgamarla ad altri gruppi, ma il fatto di vederla in
compagnia di quei due le giovò molto: Cappelletto,
nonostante non
fosse granché sveglio, era piuttosto popolare, mentre
Valeria non
era popolare, ma era rispettata, e, laddove non lo fosse, suscitava
comunque una certa inquietudine in coloro che non la conoscevano
bene.
Erano davvero uno strano trio, così diversi, ed Emanuele si
domandò di che accidenti parlassero, perché erano
davvero il
gruppetto peggio assortito di tutta la scuola. Eppure forse proprio
per quello chiacchierarono fitto fitto per tutta la ricreazione, e
vide Cappelletto passarle un braccio attorno alle spalle, e Valeria,
che non era altrettanto propensa alle smancerie, le offrì un
the
alla macchinetta e lanciò insulti e occhiatacce a chiunque
facesse
battute inopportune, che era il suo modo di dimostrare
affetto.
Emanuele decise di azzardarsi a parlarne con
Camilla.
-Sai, oggi è tornata Bianca – esordì,
timidamente.
Lei annuì, e lo guardò in attesa.
-Ha trovato
degli amici – proseguì, con un sorriso incerto
– Cappelletto e
Valeria. Te ne ho mai parlato?
-Mmh, sì.
-Ecco. Ora girano con
lei a ricreazione, la difendono. La situazione è
migliorata.
Inaspettatamente, Camilla sorrise.
-Mi fa piacere –
disse – davvero. Sono felice per lei.
Allungò una mano verso di
lui, e suonò come l'alzata della bandiera bianca.
Emanuele la
strinse e chiuse gli occhi, sentendosi un peso scivolare giù
dalle
spalle come una colata di cemento.
Il giorno dopo, al
gruppetto si unì Benetazzo. Si era avvicinato principalmente
per
parlare a Valeria di un concerto, ma poi rimase a chiacchierare anche
con gli altri due. Ad un certo punto, lo sentì esclamare:
-Ferreri,
ma tu non sei stupida, cazzo. Fai di tutto per sembrarlo, ma non lo
sei
–
decretò, mani sui fianchi. Cappelletto gli mise una mano
sulla
spalla.
-Mi dispiace dirlo, ma PeneCazzo ha ragione –
affermò –
non dovresti far finta di avere il cervello vuoto, o che dentro ci
siano solo enormi cappellotti.
-Così come questa qui non dovrebbe
far finta di essere una strega cattiva – soggiunse Benetazzo,
guardando Valeria con una certa dolcezza. Lei lanciò
un'occhiata
eloquente alle borchie e alle catene, sollevò un
sopracciglio e lui
alzò le mani in segno di resa.
Forse non sarebbero mai stati
amici per la pelle, ma non aveva mai visto Cappelletto o uno dei suoi
amici rivolgere la parola a Benetazzo o a uno dei suoi amici.
Notò
con stupore come Bianca fosse stata capace non solo di separare, ma
anche di unire.
I giorni passarono e sempre più spesso, in
classe, si parlava del suo matrimonio. Curioso, perché in
casa sua
non se ne parlava mai, anche se i parenti chiamavano in continuazione
per confermare gli inviti all'ultimo minuto, chiedere delucidazioni
su una lista nozze che non esisteva nemmeno, parlare delle
decorazioni in chiesa e al ristorante. I vestiti erano già
stati
acquistati, li avevano già provati. Le fedi erano nella loro
scatolina, chiuse a chiave in un cassetto.
Con Camilla si era a
una specie di armistizio. Non avevano ancora riparlato della
questione 'fedeltà', ma sapeva che avrebbero dovuto farlo,
prima del
venti aprile. E mancavano meno di quindici giorni.
Nel frattempo,
a scuola, Bianca era strana.
Come al solito, era irrequieta, non
stava mai ferma, faceva la stupida – anche se ora aveva due
poliziotti che vigilavano sul suo comportamento. Ma sembrava molto
più interessata a quanto accadeva nella sua mente, piuttosto
che a
ciò che succedeva in classe.
-Bianca? Ci sei? - le chiese un
giorno Cappelletto. Lei stava mormorando qualcosa in direzione della
finestra.
-Eh? - si risvegliò – Sì, ci sono.
Quella volta
andò così, ma la volta successiva Bianca
continuò a mormorare a un
destinatario sconosciuto.
Un giorno arrivò con due scarpe diverse
a scuola. Guardò spaesata coloro che ridevano davanti al
tronchetto
e alla décolleté mischiati assieme.
Il giorno successivo, alla
sesta ora, si mise a piangere e, quando Cappelletto le chiese cosa
fosse successo, spiegò che non si ricordava dove fosse casa
sua. Lui
la rassicurò dicendole che l'avrebbe accompagnata; la prese
per mano
e la portò fino alla fermata dell'autobus, e poi ci
salì sopra con
lei e le accarezzò i capelli mentre lei singhiozzava in un
modo che
stringeva il cuore.
Valeria guardò Emanuele, e in quella
ragazzina sempre sicura di sé vide qualcosa che assomigliava
molto
alla paura, e alla sensazione di non sapere cosa fare.
Lui era
molto preoccupato, ma non ne parlò a nessuno, nemmeno a
Camilla.
Soprattutto, non a Camilla.
E il giorno dopo ancora lui non aveva
Bianca, ma lei andò nel suo studio, disperata, chiuse la
porta di
scatto e lo guardò angosciata, dicendo che tutti la odiavano.
-Ma
no che non ti odiano – le disse; ormai sentiva di aver perso
la
confidenza con lei, ma la sua richiesta d'aiuto la
ripristinò
immediatamente – hai anche trovato degli amici, hai visto?
Lei
scosse la testa.
-A loro faccio pena – spiegò –
perché mi
hanno vista quand'ero a letto. Ma mi odiano tutti, prof.
Fu mentre
parlava che notò una brutta ferita sul punto dove pochi
giorni prima
c'era il suo piercing. Deglutì.
-Non ti odiano – ripeté –
davvero. E a loro non fai pena.
Bianca scosse ancora la testa.
Emanuele sapeva che lei aveva ragione, per questo non riusciva a
convincerla delle sue parole.
-E lei... - incominciò Bianca; poi
s'interruppe – comunque non importa! - continuò,
improvvisamente
gioviale, asciugandosi le lacrime – Scusi il disturbo! Ora
vado!
Scappò fuori dalla porta prima che potesse dirle
alcunché.
Antonella più tardi gli raccontò di averla
sentita
raccontare a Cappelletto che il padre era un membro dell'ISO*** negli
Stati Uniti, anche se tutti sapevano benissimo che il padre era un
piccolo imprenditore nel settore calzaturiero. Poi gli aveva
raccontato di quella volta che era andata in Erasmus per un anno a
New York, cosa che non poteva essere successa, perché aveva
frequentato quell'istituto da quando era uscita dalle medie e non era
mai stata lontana da scuola per più di un mese o due. Infine
aveva
asserito con molta convinzione di avere un posto già
riservato come
commessa nell'atelier di Vivienne Westwood a Milano, tutto grazie
alle conoscenze del padre.
-Dubito molto che siano cose vere –
gli confessò Antonella – e se il padre
è come me l'hai descritto,
ho ancora più ragione di dubitarne.
Emanuele non disse nulla,
tornò a casa e non ne parlò a Camilla. Lei rimase
fuori quasi tutto
il giorno per i preparativi. A cena chiacchierarono dei loro amici,
che si sposavano, che avevano figli, dei libri che avevano letto, e
anche quella sera si addormentò con Camilla appoggiata al
suo petto,
ma ancora le cose non davano l'idea di essersi sistemate.
Mancavano
dieci giorni al suo matrimonio, all'incirca, e lui avrebbe voluto
pensare solo a quello. La classe non faceva che ricordarglielo,
esprimendo felicitazioni, appendendo fiorellini in giro per la
classe. Anche i più antipatici dimostrarono autentico
affetto nei
suoi confronti; gli chiesero di portare una foto di Camilla, lui
acconsentì. Quel giorno gliene chiese il permesso,
così si portò
dietro il portatile e, di nascosto, con la Wireless dell'istituto, si
collegò a Facebook e mostrò loro qualche foto.
-Ma allora lei ha
facebook, prof! - esclamò Francesca – La aggiungo
subito!
-Ma
allora anch'io!
-Anch'io!
-Mi accetta prof, vero?
Sospirò;
se l'era cercata. Dopotutto, nell'era del digitale, sarebbe stato
assai difficile trovare una foto in vera e propria carta fotografica,
quindi non aveva visto molte alternative.
Guardarono le foto di
loro due nelle vacanze di Natale, quando avevano fatto il Capodanno
da amici. Si mostrarono molto sorpresi.
-Ma prof... quella è
vodka!
-E quella è Anima Nera!
-Ma prof, qua fa finta di
baciarsi con un tipo!
-Ehi – protestò Emanuele – ero coi miei
amici a festeggiare. Scommetto che anche voi avete foto del
genere.
-Sì, ma... - iniziò Crivellaro; cercava di
spiegarsi, ma
non ci riusciva.
-Fammi indovinare – l'aiutò – pensavi
che
siccome ho un lavoro e un mutuo allora non ho più voglia di
farmi
una bevuta coi miei amici.
-Be'... più o meno – ammise quello,
imbarazzato.
-E se ti dicessi che il fatto di avere un lavoro e un
mutuo mi mettono ancora più voglia di ubriacarmi?
-Quindi –
s'illuminò l'altro – l'addio al celibato...
-Non lo farò –
chiarì – lo trovo molto irrispettoso nei confronti
di Camilla. Non
ne sarebbe affatto felice.
-Ma la sua fidanzata lo fa un addio al
nubilato? Ché al limite mi faccio trovare da quelle parti.
Si
immagini, trenta donne ubriache che hanno voglia di fare le ultime
stronzate! E magari ci scappa anche la scena lesbo...!
-Fai schifo
– dichiarò Giulia.
-Se vuoi la scena lesbo, non c'è bisogno
che tu vada all'addio al nubilato – intervenne una voce, e,
quando
si girarono, videro il viso sorridente di Bianca. Fece un occhiolino
a Crivellaro.
-Ma le amiche di Camilla hanno figli...? - domandò
Cappelletto, con una certa agitazione.
-Eh? Beh, alcune sì.
Perché?
-LEEE MIIIILF****! - gridò Cappelletto, al settimo
cielo; si gettò addosso a Benetazzo ed insieme sprofondarono
in
quegli irrealizzabili sogni di gloria.
Be', avevano trovato
qualcosa in comune. Anche lui, a tempo debito, era rimasto piuttosto
affascinato dalla categoria, e non aveva esitato a togliersi la
voglia appena gli era stato possibile.
Ci ragionò su un attimo.
Si era davvero portato a letto un discreto numero di donne.
Forse
Camilla non aveva tutti i torti a sentirsi insicura.
Alla fine,
tornarono tutti al proprio posto, ed Emanuele iniziò la
lezione.
Mentre spiegava qualcosa a proposito delle simbologie in
ambito dantesco, e la classe era piuttosto tranquilla,
iniziò a
sentire qualcuno che mormorava. All'inizio non ci fece caso: di
solito non li rimproverava se avevano qualcosa da dirsi; lasciava che
finissero e nel frattempo continuava a parlare. Molto spesso era
questione di pochi secondi: avevano abbastanza rispetto di lui da
concludere in fretta il discorso e tornare alla spiegazione. Ma
questo mormorio non accennava a spegnersi; Emanuele non smise di
parlare, ma lanciò una breve occhiata in giro per la classe,
e si
accorse che a mormorare era Bianca.
Dopo un po' – e dopo che
anche gli altri se ne furono accorti, e dopo che Cappelletto l'ebbe
tirata per una manica – non poté più
ignorarla, anche perché lei
aveva alzato la voce, e ora sentiva distintamente cosa stesse
dicendo.
-Volete starvene zitti? - sbottò a un certo punto,
scocciata, voltandosi verso la classe.
Gli altri si guardarono
l'uno con l'altro, sconcertati: nessuno aveva aperto bocca.
-Cazzo
stai dicendo? - fece Fiorenzato, che sedeva dietro di
lei.
-Smettetela. Fatevi gli affari vostri. Non dite sempre che
bisogna seguire la lezione? Beh, fatelo!
Si voltò verso la
finestra e mise su il broncio. Emanuele era allibito, ma decise di
non prestare attenzione a quell'episodio, e riprese a spiegare.
Per
un minuto o due ci fu silenzio, ma notò che Bianca era
agitata,
nervosa, che continuava a contorcersi sulla sedia e ogni tanto
lanciava occhiatacce in giro. Poi sbuffò. Si morse le
labbra. Si
torse le mani. Si mise le mani nei capelli e iniziò a
tirarli.
Poi
ricominciò a parlare, in direzione dei suoi compagni.
-Vi avevo
detto di smetterla – li implorò – basta,
state zitti. Seguite la
lezione, per favore.
-Ferreri, ti sei rincoglionita? - parlò di
nuovo Fiorenzato – Nessuno ha aperto bocca.
-Non è vero –
protestò lei – vi ho sentiti. State parlando di me.
-Nessuno ha
aperto bocca! - ripeté seccato l'altro.
Gli occhi di Bianca si
riempirono di lacrime. Guardò Emanuele, disperata.
-Non è vero,
prof – gli disse – li sento benissimo. Stanno
parlando di me. Non
li sente? Non tacciono un secondo.
-Bianca – fece Emanuele, con
calma – non devi disturbare la lezione con questi scherzi.
-Ma
prof, non sto scherzando! Continuano a dire che sono una troia.
Dicono sempre che non mi sopportano, che ho l'AIDS, che piango
lacrime di sperma...
-Nessuno sta parlando – replicò
tranquillo; in realtà, stava sudando freddo – ora
ascolta la
lezione e non interrompere, ok?
Lei tacque, ma le lacrime le
rotolarono giù dagli occhi, e la sua espressione era
inondata di
pura angoscia. Cappelletto si alzò, la prese per mano e
chiese il
permesso di portarla fuori a passeggiare per l'atrio.
-Forse è
solo stanca – dichiarò – le
farà bene.
Emanuele annuì ed
aprì loro la porta.
Quando i due furono fuori, Fiorenzato lo
guardò, perplesso, e gli chiese:
-Ma è diventata matta, quella
là?
Sospirò.
-Non lanciamoci in dichiarazioni insensate. E
per questa volta, fatemi un favore personale: non mettetevi a
spargere in giro la voce che è matta, d'accordo?
Tacquero tutti.
Ma Emanuele sapeva che stavolta perfino loro non sarebbero stati in
grado di gettare benzina sul fuoco.
Spiegò fino al suono della
campanella, che gli sembrò enormemente lontano per tutto
quel tempo;
quando finalmente arrivò la ricreazione, si
precipitò fuori e
raggiunse Bianca e Cappelletto che erano seduti sulle scale. Stavano
chiacchierando; lei sembrava stare meglio, lui la guardava
incuriosito e le accarezzava i capelli con una dolcezza che ad
Emanuele scaldò il cuore.
-Tutto a posto? - chiese a Cappelletto.
Lo considerava un po' responsabile per lei.
-Boh, mi pare di sì.
Si è calmata – replicò quello; la
guardò in cerca di conferma –
vero, Bianca? Adesso è a posto.
Ma lei, quando vide Emanuele, si
nascose sulla spalla di Cappelletto. Quello arrossì, ma la
circondò
con le braccia e la strinse a sé. Guardò
Emanuele,
sperduto.
-Rimanete qui un altro po' – suggerì –
parlo io con
l'insegnante dell'ora successiva. Chi avete?
-Francese – rispose
il ragazzo, guardando ora Bianca, ora il suo
interlocutore.
-Benissimo. Voi state qui tranquilli,
ok?
Cappelletto annuì e, mentre si allontanava, Emanuele vide
che, timidamente, azzardò un piccolo bacio sulla testa
fiammeggiante
di Bianca. Sorrise e si allontanò, un po' sollevato.
Il giorno
dopo, contrariamente alle aspettative, Bianca fu spumeggiante. Era
sempre sorridente. Chiacchierò anche con i suoi compagni.
-Ma
buongiorno, Chappy! – apostrofò Cappelletto,
allegramente, non
appena entrò in classe.
-Come, scusa...? - fece quello, alzando
un sopracciglio.
-Chappy! - ripeté lei, gioiosa, un attimo prima
di abbracciarlo affettuosamente. Poi identificò Benetazzo;
gli mandò
un bacio con la mano, e infine fece un occhiolino e la linguetta a
Valeria. La qual ultima reagì con una smorfia inorridita.
L'intera
classe la osservò sbalordita mentre, canticchiando, metteva
giù lo
zaino semivuoto e incrociava con nonchalance
le gambe sul tavolo, incurante del fatto che, da quella posizione,
chiunque potesse vederle la biancheria senza affatto faticare.
-Ti
sei ripresa, Bianca? - le chiese Benetazzo, con un sorriso.
-Sto
da Dio, Penecazzo, sto davvero una meraviglia. Ah, che giornata
meravigliosa! - inspirò a fondo l'aria fresca che proveniva
dalla
finestra aperta; allargò le braccia, chiuse gli occhi,
scosse
teatralmente la testa e si abbandonò contro lo schienale.
Poi si
alzò di scatto e saltellò verso il compagno, che
la guardava
stranito. - E tu, Penny? Che è il diminutivo di Penecazzo?
Come va?
Hai combattuto con qualche drago, oggi? Salvato qualche principessa
in pericolo?
-Io... no – fece quello, allibito, mentre Bianca
raggiungeva Valeria a giravolte. Lei la guardava con tanto
d'occhi.
-Eccola qui, la mia donna. Vieni qua e dammi un bacino –
la chiamò; ma prima ancora che quella potesse reagire le
afferrò il
volto tra le mani e la travolse in un bacio mozzafiato che
lasciò
senza respiro la porzione maschile degli astanti.
-Ma... sei
SCEMA? - strillò Valeria, pulendosi la bocca affannosamente
– Io
ti ammazzo! - aggiunse, stridula. Era diventata rossa come una
fragola.
-Grande! - affermò Cappelletto estasiato, e gli altri
uomini presenti non parlarono, ma nemmeno protestarono. Ovviamente
tra le ragazze ci fu un coro di “che schifo!”
“lesbica di
merda” e “ew”, ma Bianca tornò
tranquillamente al suo banco e
vi si sedette soddisfatta; poi guardò Emanuele e gli disse:
-Oh,
mi scusi, prof, ho solo salutato i miei amici.
-Non voglio saperne
nulla – lui alzò le mani a scudo – a me
basta poter fare la mia
lezione senza intoppi, poi per il resto fai quello che ti
pare.
Bianca mandò qualche bigliettino di scuse a Valeria, che
era arrabbiata e quindi la ignorò; Cappelletto continuava a
supplicare entrambe di ripetere la scena, e a un certo punto vide che
Bianca aveva gattonato fino alla sedia di Valeria e le si stava
strusciando contro facendo le fusa. Le ordinò di tornare al
suo
posto e lei ci tornò, ma poi si accorse che, quando lui si
girava
verso la lavagna, lei e Cappelletto si scambiavano intense effusioni
sporgendosi oltre il banco. Finse di non vedere e ignorò i
commenti
scandalizzati dei suoi compagni, esclusivamente per amore del quieto
vivere. Non aveva voglia di riprenderla.
Alla fine dell'ora, però,
le ordinò di raggiungerlo a ricreazione nella sala
professori, e lei
acconsentì con un sorriso. L'ora dopo aveva un'altra classe,
ed era
così agitato che decise di dedicare l'ora alla discussione
sull'aborto, di modo che si accapigliassero tra di loro senza che lui
dovesse dire una sola parola per portare avanti la conversazione. Si
godette gli scontri verbali e si limitò a riportarli alla
discussione civile quando gli scontri verbali diventarono veri e
propri scambi d'insulti.
La ricreazione arrivò e Bianca lo
raggiunse in sala professori. C'erano altre persone, per cui
spostarono la sede della loro chiacchierata in palestra, che in quel
momento era deserta.
-Se ci fossi io in giro, stia sicuro che non
la troverebbe vuota – commentò Bianca –
vengo spesso qui a fare
le mie cose. E glielo dico in via del tutto confidenziale, la prego
di mantenere il riserbo.
-Mi limiterò ad evitarla attentamente –
rispose Emanuele, poi indicò una pila di materassini
– prego.
Questo sarà il nostro salotto.
Bianca rise e si avviò verso la
pila. Con la minigonna stretta, ci mise un po' a salirci sopra, ma
alla fine si sedette, e iniziò a far dondolare le gambe
sottili.
Emanuele le si accomodò di fianco.
-Allora? - introdusse lei –
Voleva parlarmi? Ah, già, voleva darmi carne
perché ho fatto la
stupida durante la lezione. Ha ragione, prof. Mi dispiace.
-Beh,
sì, in effetti anche – realizzò
Emanuele – e se pregata di
tenere un contegno mentre sei in classe, grazie. Lo dico per te, eh?
A momenti Valeria ti sgozzava.
-Ah, ma can che abbaia non morde,
prof. È solo che è timida e si spaventa di fronte
alle effusioni,
ma è dolce dolce dolce.
-Dici?
-Beh, no, ok, non è dolce, ma
non mi odia, credo. È solo che è fatta
così. Ma so che non è
davvero arrabbiata.
-Eppure, ieri sostenevi che tutti ti odiavano.
Dicevi che parlavano di te.
-Uh, non ci faccia caso.
-Beh,
Bianca, non posso non farci caso, era abbastanza preoccupante.
Vorresti spiegarmi che è successo?
-Ma nieeente, prof. Non
crucciatevi invano, mio signore. Bianca Ferreri è in super
forma. È
come se avessi mangiato un fagiolo magico!*****
-Mi sembra quanto
mai appropriato, come paragone: una pillolina magica che
immediatamente ti rimette in sesto e ti riempie d'energia come non
mai.
-Prof, basta con questa storia – lo ammonì
bonariamente.
-E va bene, basta. Non è questo. E allora
cos'è?
-Oh, ero un po' agitata. Ero nervosa. Forse ero un po'
preoccupata. Sa, lei che si sposa. Mi ha spezzato il cuoricino! -
pigolò, scherzosa – E poi mi sentivo sola e messa
in disparte e
blaa bla bla. Il solito. Ah, e mio padre mi ha quasi strappato via il
piercing a schiaffi. Forse è per quello che ero un po'
così. Ma ora
va bene.
-Non capisco se sei seria o se mi prendi per il culo.
-No
no, prof, serissima! È che adesso è passata,
perché piangersi
addosso? La vita è una sola!
-Giusto – mormorò, incapace di
replicare.
-Vede? Ecco, ultimamente questa cosa che lei si sposa
mi aveva un po' sponata, ecco. Più delle altre cose, in
effetti. O
forse è la classica goccia che. O forse ho ragione io e sono
veramente innamorata di lei, dal profondo del cuore. E insomma ecco,
lei comunque si sposa. E io devo reagire ed essere felice anche senza
di lei! Quindi ecco. Per questo l'ho un po' evitata. Io devo andare
avanti senza il suo aiuto, e le confesso che se non le parlo, per un
pochino, poco poco poco, mi dimentico quanto lei sia importante.
È
che ci sono giorni in cui è peggio e ieri era uno di quei
giorni. Ma
oggi no. Oggi ho preso un bel voto in fisica, materia che odio!, e
mia mamma non mi romperà più le palle
perché ho la media dell'otto
e mi abbassa gli altri voti, perché io ho la media del nove
e dovrei
mantenerla, eppure ho anche yoga e degustazione e quell'altra cosa, e
palestra, tra l'altro non sono ancora riuscita a dimagrire quanto
volevo, sa? Però adesso mangio bene. Mi hanno detto che per
l'alimentazione quotidiana bisogna ingerire...
-Bianca, aaalt –
la interruppe, mettendole una mano davanti alla bocca. Lei
sbarrò
gli occhi e si azzittì. - Una cosa alla volta, ok? - Lei
annuì;
agitava freneticamente le gambe e faceva schioccare le dita di
entrambe le mani. - Quindi sostieni che adesso stai bene,
giusto?
-Mh-hm.
-Ma non è la prima volta che mi dici che stai
bene e poi ti ritrovo il giorno dopo che stai di merda.
-Eh, ma
non posso prevederlo, prof! In quel momento magari le dico che sto
bene perché sto bene, e poi il giorno dopo sto male e non
immaginavo
di stare così male, e così lei pensa che io le
dica bugie, ma non è
così. Se lo potessi sapere in anticipo, sarebbe
meraviglioso!
No?
-Certo, ma...
-E comunque prof, si è accorto che
Cappelletto è innamorato cotto? - Le brillarono gli occhi. -
Ha
visto come mi sta sempre attorno? Lo sa che è la prima
persona che
s'innamora di me?
-Gli altri volevano solo l'avventura?
-Beh,
sì, penso si possa dire di sì. Alcuni credevano
di amarmi, e me lo
dicevano, e poi si stancavano di me e del mio modo di fare... beh, li
capisco. Anche lei li capisce, vero? - rise, e poi riprese –
E
comunque è una figata, quando qualcuno s'innamora di te. Ti
senti
come se da una parte avessi un materasso ad acqua, no? Nel senso: sai
che da quel lato lì non puoi cadere e farti male.
È rassicurante!
Credo che sia così quando ti sposi, no? A parte che se ti
sposi in
teoria vuoi fare da materasso anche tu alla persona che lo fa a te,
solo che io non voglio fare da materasso a Cappelletto, a meno che
non significhi stare sotto di lui, e a dire la verità
neanche in
quel caso; cioè, in realtà gli farei da materasso
perché gli
voglio bene, ma non quel
tipo di materasso, y'
know what I mean?
Sa che in inglese mean
significa sia un verbo, 'significare', che l'aggettivo 'perfido,
cattivo'?
-Sì, lo sapevo.
-L'inglese è una lingua molto più
bella della nostra. Pensi a una cosa: noi diciamo 'mi piaci', loro
dicono 'i
like you'.
Il che significa che loro fanno dell'altra persona un oggetto, e di
sé stessi un soggetto, in quest'azione di esprimere una
predilezione
verso qualcuno. E noi, invece? Pensi un po': facciamo dell'altro il
soggetto dimenticandoci di noi stessi, e finisce che ci releghiamo al
rango di semplici complementi di termine, che se ci pensa bene sono
un gradino più in basso dei complementi oggetto.
È o no un
ragionamento sensato?
-Beh, diciamo che sussiste.
-Siamo un
popolo di personalità dipendenti, prof – rise
– dovevo andare a
fare la psicologa, altro che l'interprete. Sarebbe decisamente il mio
momento d'oro.
-Pensa a te stessa, Bianca – la rimproverò con
dolcezza – prima che degli altri, occupati di te.
-Ma lo sto
facendo, sto pensando al mio futuro. Non fanno che dirci che la mia
generazione è destinata a non avere lavoro, pensione, una
famiglia,
dei figli, l'amore... quindi almeno mi preoccupo di trovarmi uno
stipendio – replicò allegramente. Emanuele sorrise.
-Vorrei
rassicurarti, ma con quello che mi danno temo che potrei soltanto
preoccuparti ulteriormente. Faresti più soldi tu dando
ripetizioni a
un ragazzino delle medie.
-Ah-ha, quanto le danno al
mese?
-Bianca, senza offesa, sarebbero anche un po' cazzi
miei...
-Su, su, se vuole io le dico quanto mi danno i miei di
paghetta. Mi danno quindici euro. Una miseria, vero? Non mi bastano
mai, non posso quasi mai fare niente.
-Come ti capisco –
sospirò.
-Su, me lo dica! Prometto che non lo dico a nessuno. Oh,
voglio saperlo! Sono terribilmente curiosa, e odio che lancino il
sasso e poi nascondano la mano.
-So che sei curiosa come un
gattino, ma non saprai mai qual è il contenuto della mia
busta
paga.
-Guardi che dico in giro il suo soprannome.
Emanuele
impallidì.
-... cosa sai?
-Oh, quello che posso arrivare a
sapere googlando il suo nome – sorrise maleficamente
– caro il
nostro Por...
-Millecentocinquanta – esclamò di scatto,
saltando giù dal materassino.
Bianca scoppiò a ridere, ma subito
dopo, davanti agli occhi attoniti di Emanuele, scoppiò a
piangere
senza nessun apparente motivo.
-Ehi – la chiamò, preoccupato –
che c'è?
-Niente – pigolò lei, poi si asciugò le
lacrime e
sorrise – adesso sto bene. Tutto a posto!
-Sicura?
-Sicurissima!
Si figuri. Con una giornata così bella. Ha visto i ciliegi
in fiore
della casa qui accanto? Sono di una bellezza stupefacente. A volte ti
scordi che le cose più belle sono lì davanti a te
ogni giorno,
vero? Se posso guardare fuori dalla finestra e vedere quel
bell'albero fiorito, che importa il resto? L'albero è sempre
lì per
allietare la mia vista, e non se ne andrà mai. - Ci
rifletté un
attimo. - Ah, beh, sì, a meno che non lo taglino i suoi
proprietari,
ok. Ma quello non c'entra. È che lui ha le sue radici
lì e se fosse
per lui non si sposterebbe mai. Continuerebbe a darmi quei bei
boccioli ogni primavera.
Bianca al pensiero saltellò e gli occhi
si accesero di una bellissima luce.
Emanuele, in seguito, ricordò
molte volte il momento in cui vide quella luce, che si era accesa in
mezzo ad un'immensità immersa nel buio, aggrappata a
qualcosa di
così semplice e fragile ed eterno come un albero in fiore.
Ma al
cambio dell'ora successiva la trovò che piangeva in atrio
sulla
spalla di Cappelletto, poi Valeria arrivò chiamata da
qualcuno, le
due si parlarono, e alla fine della quinta ora Bianca stava
saltellando in giro per il corridoio e abbracciando un tizio di
un'altra classe, che non perdeva occasione per metterle le mani
addosso.
Il giorno dopo, Emanuele si spaventò quando Monica gli
raccontò che Bianca era scoppiata a piangere e si era
aggrappata a
Cappelletto perché secondo lei stavano scoppiando le bombe
fuori
dalla finestra, era scoppiata la terza guerra mondiale, i boati dei
missili si stavano avvicinando e che sarebbero morti tutti.
-Sembrava
così angosciata che ha messo il dubbio perfino a me
– disse Monica
– quella ragazzina si droga. È chiaro. Esiste una
droga che dà le
allucinazioni?
-LSD o funghi – le rispose – ma quand'è
che ha
il tempo di assumerli? E poi – si interruppe in tempo prima
di dire
che una volta l'aveva vista prendere delle pastiglie – e poi
non
possiamo certo perquisirla quando arriva in classe.
-Possiamo, se
abbiamo buoni motivi di ritenerla un elemento di disturbo! Io sono
sinceramente stanca delle bravate di questa ragazzina. Essere
comprensivi con lei non è servito che a farla sentire in
potere di
fare qualsiasi cosa.
-Prof – in quel momento irruppe Francesca,
una compagna di classe di Bianca – scusate, ma dobbiamo
parlare con
il professore da solo. Per favore, può venire con noi?
-Sì,
certo – fece Emanuele, che era pronto al peggio. Le
seguì in
palestra, dove sperò di non trovare Bianca.
-Abbiamo visto una
cosa – intervenne Giulia – e ritengo giusto che lei
lo sappia, e
che parli lei con gli altri insegnanti, perché è
lei il
coordinatore, no? E non trovavo corretto sputtanarla così di
fronte
a tutti.
-Cosa succede? - chiese Emanuele, che già aveva capito
di chi si stesse parlando.
-Abbiamo visto Bianca che prendeva
delle pastiglie in bagno – fece Francesca, agitata, e queste
parole
ebbero lo stesso sapore del taglio definitivo della
ghigliottina.
Aveva detto alle ragazze di aspettare dalla
preside, di spiegarle la situazione, di non parlarne con altri.
Salì
le scale con passo marziale. Arrivò in corridoio,
localizzò con lo
sguardo Bianca che gesticolava animatamente con dei ragazzi. Ma
stavolta non intendeva passare attraverso di lei per le informazioni;
non era affidabile, punto e basta. Era una drogata e come tutti i
drogati era una bugiarda, e aveva mentito anche a lui.
Si sentiva
ferito e pieno di una rabbia cocente che gli arrossava le orecchie.
Entrò in classe incurante dell'eventuale presenza di
ragazzi, anche
se non c'era nessuno. Afferrò lo zaino di Bianca;
aprì la tasca
anteriore, trovò soltanto una merendina e le sue chiavi di
casa.
Rovesciò allora lo scarso contenuto della tasca
più grande, e, tra
un paio di quaderni e un libro scarabocchiato, tra un pacchetto di
caramelle e un paio di pupazzetti sporchi, trovò una
bottiglietta
marrone.
Era piena di pillole.
-
Non credo davvero ci sia bisogno di dirvelo, ma la canzone è La Cura di Franco Battiato. Se non la conoscete, ascoltatela ;) è un pezzo dolcissimo.
** “Ve ne prego”, letteralmente.
*** International Standardization Organization. Praticamente è un organo che si occupa di riconoscere e rendere pubblici gli 'standard'. È un po' difficile spiegarlo, googlatelo XD.
**** MILF: Mother I'd Like to Fuck. Guardatevi American Pie :°D altrimenti, in breve, si tratta di madri tra la trentina e la quarantina ancora avvenenti e disposte ad una focosa avventura con ragazzi adolescenti.
***** Se avete visto Dragon Ball, capirete. Altrimenti... cacchio, che razza di infanzia avete vissuto ò_o?
(Nda:
Lo so, ci ho messo una vita e faccio schifo ò_o ma non
è stato per
pigrizia, giuro ;_; innanzitutto è stato un capitolo
difficile da
scrivere, ma, soprattutto, come avrete notato :°D, era
piuttosto
lungo ^^;. Se pensate che avrei dovuto renderlo ancora più
lungo,
capirete perché ho splittato in due questo capitolo che
doveva
essere il finale.
C'è anche da dire che avevo già messo
decisamente troppa carne al fuoco e ce n'era di ancora più
succulenta che aspettava di essere messa sulla griglia *_*' siccome
non voglio scrivere un capitolo confusionario, mal scritto e poco
esauriente, ho voluto chiudere qui.
In risposta alle vostre
recensioni... ^^ brevemente perché non ho molto tempo e voi
sarete
stufi dopo trenta pagine di storia XD
Yuki:
a dire la verità, io penso che non esista una persona che si
droga
'per fare l'alternativa', ma che tutti, come Bianca, lo facciano
perché hanno i loro motivi, le loro sofferenze. Quanto ai
problemi
di salute, anche il mio ragazzo aveva la tua stessa idea della
malattia terminale ^^ purtroppo saprete se è così
solo nel prossimo
capitolo ;) *me è malefica e vi fa penare :P*
Baby
Birba:
dunque, diciamo che gli spunti ci sono, ma sono appunto soltanto
spunti. Emanuele ha il nome e l'aspetto fisico di un mio prof del
biennio, ma non so nulla dei suoi interessi e della sua vita privata,
per cui quelli sono totalmente inventati (mentre la questione del
soprannome è vera XD); così come lo è
la relazione con una
studentessa come Bianca. Lei è proprio interamente frutto
della mia
fantasia. Le figure dei suoi genitori hanno in effetti un riscontro
nella realtà, ma non interamente. Camilla e i compagni di
classe
sono del tutto inventati.
Uh, e grazie per il commento a Follow
^.^ è una storiella un po' scema, ma sono contenta che ti
piaccia
^_^!
Dance
of Death:
mi fa davvero piacere sentire che il tutto è realistico.
Sono cose
piuttosto difficili da mettere su carta ò_ò e non
sei mai sicuro se
tu sia riuscito a comunicare o no certe sensazioni. Mi dispiace molto
che tu abbia questo problema, spero vivamente che si risolva
perché
so che razza di rottura di coglioni possa essere. Comunque, grazie
davvero delle tue belle recensioni ç.ç wow
ç_ç se vorrai leggere
qualcos'altro di mio ne sarò felicissima ;_;!
Hellfire:
INFERNAL HAIL!!!! (Volevo dire solo questo è_é.)
(No, scherzo,
anche ringraziarti del commento XD che ha doppio valore considerato
che non segui la sezione, wow, grazieee T.T!)
Khristh,
Veive, Piaciuque:
se solo sapeste che soddisfazione mi danno i vostri commenti T^T
grazie per il vostro irrinunciabile sostegno ç.ç
Prometto a tutti
che per il prossimo muovo il culo e lo pubblico presto!
Ancora
grazie per i fav e le recensioni! I love you all ;_;!)