*
Davide
-
Nando? Sei ancora qui con me?-
Guardai
fisso la faccia di topo stravaccata su una sedia vicina al mio divano: aveva
gli occhi aperti ma al tempo stesso un’espressione a dir poco persa nel vuoto,
non sarei rimasto sorpreso nello scoprire che era in grado di dormire con le
palpebre alzate, in fondo era pur sempre un dannato strizzacervelli e
quell’abilità gli poteva fare molto comodo.
Non
sentendolo rispondere allungai un piede per scuotere la sua sedia e proprio in
quel momento si risvegliò di colpo, sedendosi correttamente e prendendo veloce
un’altra birra dal minifrigo di cui ci eravamo attrezzati; passandosi una
mano fra i capelli e togliendosi gli occhiali con l’altra, disse:
-
No, scusa. Proprio non ci arrivo. Devo star perdendo colpi. Com’è
possibile che due come voi si siano lasciati?! Da come ne parli sembra fosse la
tua anima gemella, la ragazza perfetta per te, l’unica! E invece non
state più insieme, anzi da quel che si lascia sfuggire ogni tanto quella testa
di cacchio del tuo amico, sembra che la colpa in qualche modo sia proprio tua.
Io… davvero non ci arrivo, non me ne capacito. Hai intenzione di
illuminarmi o preferisci lasciarmi così, perché pot…-
Si
bloccò di colpo, forse colpito da un qualcosa nella mia espressione che non ero
riuscito a nascondere: un dolore troppo a lungo represso e che reclamava di
essere liberato.
Un
senso di colpa che volevo uscire allo scoperto, dopo aver logorato troppo a
lungo il suo carceriere.
Una
fievole speranza, debolissima e timorosa, di poter essere compreso e non
disprezzato…
Posai
svogliatamente la lattina che avevo in mano: la birra non bastava, ci voleva
qualcosa di più forte.
Ero
pronto ad affrontare la seconda metà della storia? Quella che da troppo tempo
non avevo il coraggio di ripetere nemmeno a me stesso?
Riguardai
Armando che mi fissava con aria interrogativa: in quel momento non era più uno
psicologo, era solo un ragazzo estremamente curioso ed ansioso di conoscere il
finale di una storia. Proprio per questo non me la sentivo di rovinargli il
tutto, di spiegargli i “dietro le quinte” della favola.
Perché
era questo che gli avevo raccontato fino a quel momento: una favola. Una storia
con tanto di principe azzurro e principessa. Una di quelle su cui ti ritrovi a
sognare e fantasticare per molto tempo a venire.
Per
quale motivo allora avrei dovuto dirgli anche il resto, rovinandogli così il
“vissero felici e contenti” ?
Presi
un bel respiro quando l’interesse di Nando iniziò a degenerare in smania.
-
Per raccontarti il finale, Nando, devo prima raccontarti il lieto fine…-
Si
rimise gli occhiali, tentando di capire.
Non
era un ragionamento così sbagliato in fondo: ogni storia d’amore ha un
culmine, un top, dopo il quale si può continuare a salire oppure scendere
precipitosamente.
Bene,
per spiegargli come si deve il motivo della nostra rapida discesa, era
necessario affrontare ancora una volta quell’onda, quella famosa marea
sempre alle mie spalle, pronta a farmi sua in qualsiasi momento.
Quella
marea che mi faceva rivivere dei ricordi, ricordi contro cui non sarei mai
riuscito ad averla vinta.
Guardai il numero sul display
svogliatamente.
In televisione stavano dando una
maratona di Friends, e con grande frustrazione di Andrea, ero intenzionato a
guardarla, nonostante conoscessi tutti gli episodi a memoria.
Distolsi lo sguardo dallo schermo e
tornai a fissare quel numero che non conoscevo: una parte di me mi diceva di
rispondere, l’altra mi consigliava invece di fregarmene altamente. A
vincere fu la seconda, quando Andrea con uno scatto ansioso mi fece notare che
era il numero di Mirko. Come faceva a saperlo, poi?
Risposi, involontariamente interessato.
- Davide? Ehy, sono Mirko. Tutto bene?-
Sorrisi tra me e me, si assomigliavano
terribilmente nei modi di fare, lui ed Ilaria.
- Si, tutto bene, grazie. Tu?-
Mai avuto conversazione più insolita con
Mirko: di solito non avevo molto a che fare con lui, anzi quasi non lo conoscevo.
Perciò cercai di capire dove volesse andare a parare con quella telefonata.
- Ehm… sì bene. O meglio... senti
ti ho chiamato perché, perché volevo chiederti una cosa-
Mi passai una mano sugli occhi, come la
faceva lunga!
- Mirko, dimmi. Non farti problemi-
Lo sentii prendere un bel respiro,
quindi mi domandò, quasi timoroso.
- Quand’è che hai sentito Ila per l’ultima volta
oggi?-
Mi ritrovai subito in stato di allerta:
che c’entrava Lari?
Quando l’avevo sentita
l’ultima volta? Ci riflettei, solo per qualche secondo.
- Intorno alle undici, stamattina. Era
ancora all’università. Perché? E’ successo qualcosa?-
Stavo andando in iperventilazione.
Andrea se ne accorse e iniziò a farmi
segno con le mani di restare calmo.
Mirko si affrettò a rispondere, con un
tono che voleva essere indifferente e consolatorio:
- No, no. Io non dovevo chiamarti, lo
sapevo. E’ solo che non è ancora tornata e di solito quando fa tardi
chiama.-
Afferrai brutalmente il poso di Andrea e
guardai l’ora: le sette e un quarto.
Che fine aveva fatto Ilaria?!
Iniziai a borbottare fra me e me:
- Non ha chiamato? Mirko dovevi dirmelo
prima! Ora vad…-
Ma non mi fece concludere e cercando di
calmarmi spiegò:
- NO, no. Non ha chiamato, sì, ma ha
mandato un messaggio! Tranquillo. Andrea ha ragione: ti innervosisci subito se
c’è qualcosa che non va con Ilaria-
Iniziò a ridacchiare, ma io non ci
trovavo niente da ridere. Se non dovevo preoccuparmi perché aveva chiamato?
Qualcosa non quadrava e dovevo capire cosa.
- Mirko, fammi capire: se ti ha inviato
un sms dov’è il problema?-
Tentennò, indeciso su cosa dire ed io
con un mugugno di impazienza lo incitai a continuare.
- Ma niente, davvero. E’ una
stupidaggine… solo che, quando manda un messaggio, di solito eh? Lo fa
perché non vuole parlare. Cioè di solito in questi casi è successo qualcosa,
capisci? Ti ho chiamato perché speravo fosse da te o cose simili. In ogni caso
non c’è niente di cui…-
Ero scattato in piedi: se Mirko diceva
che poteva essere successo qualcosa… alla mia Lari!
Chiusi la telefonata senza ascoltare
cos’altro stesse dicendo, quello che mi importava già l’avevo
sentito. Afferrai veloce la giacca di pelle e mi avviai alla porta. Ignorai la
risata di Andrea: non ero proprio in vena e non avevo nemmeno abbastanza tempo
per riempirlo di botte.
- Ma come? Te ne vai? E Friends?! Non
dirmi che ti perdi la maratona! E io come farò? Dio mio, potrei anche guardare
la partita, quale onore! Ah, e Davide!! Piove! L’ombrello no, eh?-
Non sarebbe certo stata la pioggia a
fermarmi.
Montai sulla moto e raggiunsi la mia
prima tappa: casa di Veronica.
Venne ad aprirmi dopo poco tempo, ma non
era sola: c’erano altre tre ragazze dietro di lei, che iniziarono a darsi
di gomito e a lanciarsi occhiate ammiccanti. Veronica mi guardò ad occhi spalancati,
e cercò di calmare senza riuscirci quelle altre ochette.
Probabilmente fui scortese, ma non avevo
tempo da perdere.
Mi rivolsi direttamente a lei, cercando
di ignorare i gridolini provenienti dalle sue spalle:
- Ilaria è qui?-
Conoscevo già la risposta ma dovevo
assicurarmene lo stesso.
Veronica mi fissò per qualche istante,
poi scosse decisa la testa:
- No, non è qui. Davide, sei fradicio!
Entra, dai-
Non appena si rese conto che non avevo
intenzione di seguire il suo consiglio, continuò a parlare:
- L’ho salutata intorno a
mezzogiorno, mi è sembrata un po’ scossa ma non ho indagato: lo sai
com’è Ilaria, se non vuole parlare…-
Non la lasciai concludere e ritornai
veloce alla moto: forse sapevo dov’era.
Aveva accennato diverse volte ad un posto
che la rilassava: nei pressi di un campetto. Diceva che si divertiva a guardare
dei ragazzi correre dietro un pallone: l’idea che si potesse giocare in
qualsiasi momento, qualunque cosa fosse successa, la rilassava.
Mi venne da sorridere: i ragionamenti di
Lari! Non facevano una piega uscendo dalle sue labbra ma non appena si tentava
di ripeterli, non avevano più alcun senso logico.
In pochi minuti arrivai a destinazione,
continuai a percorrere il vialetto fino a costeggiare il campo: c’erano
tipi che giocavano nonostante seguitasse a scrosciare di brutto.
Forse era più divertente se il terreno
assomigliava ad un pantano.
Uno dei giocatori all’improvviso
scivolò, rischiando quasi di affogare, e mi venne da ridere, ma non per quella
caduta: mi ero ricordato di una scena di qualche mese prima.
Ero in macchina con Lari, erano le tre
passate e stavamo tornando da una cena; la strada era deserta, tranne che per
un gruppo di ragazzi che giocavano a pallavolo. Io, divertito e biasimevole,
mormorai rivolto a Lari:
- Chi è tanto imbecille da giocare a
quest’ora?-
Detto questo, con tempismo eccezionale,
mentre passavamo accanto a quella mischia, spuntarono dalla baruffa Andrea e
Mirko che iniziarono a sbracciarsi per attirare la nostra attenzione e poi
salutarci con espressioni beote. Ridemmo per il resto del tragitto, e ancora li
prendevamo in giro.
Fermai la moto sul ciglio della strada e
continuai a camminare a piedi. Pioveva ancora a dirotto e con due dita mi
detersi della gocce di pioggia dalla faccia. In quel momento la vidi:
accoccolata ai piedi di un albero, con lo sguardo rivolto al campo di gioco. Si
era fatta piccola piccola, accerchiandosi le
ginocchia con le braccia.
Non mi aveva sentito arrivare, così il
più silenziosamente possibile, mi avvicinai a lei, per poi sedermi al suo
fianco. La colsi di sorpresa: mi fissò con aria stranita, come se non mi avesse
riconosciuto.
Le strinsi la vita con un braccio e la
sentii tremare. Senza pensarci mi tolsi la giacca, avvolgendoci dentro
lei.
- Piccola…-
Non sapevo cosa dirle. Non l’avevo
mai vista così: era frastornata, come intontita.
La guardai in viso: era pallida, molto,
e aveva gli occhi arrossati.
Mi si strinse il cuore: una minuscola
parte di me si sentiva offesa perché non mi aveva chiamato.
In fondo se qualcosa non andava, non era
con me che doveva parlarne?
Il resto di me invece, si sentiva
completamente fuori luogo: non avevo la più pallida idea di come intavolare il
discorso, di come consolarla.
Proprio perché la conoscevo bene, sapevo
che se non aveva intenzione di parlare, non c’era molto da fare.
Iniziai a sfregarla, stringendola ancora
più forte: era congelata. Continuai a stringerla finché non smise di tremare:
era fradicia, del tutto bagnata: come quando ci eravamo tuffati in piscina completamente
vestiti.
Presi fra due dita una ciocca dei suoi
capelli ed iniziai a giocarci, cercando le parole…
- Piccola. Non fare così, mi fai
preoccupare. C’è qualcosa di cui vuoi… parlare? Diciamo che abbiamo
venti minuti: poi sarebbe più saggio togliersi da qui sotto, se non vogliamo
essere bruciati da un fulmine-
Lei sollevò appena lo sguardo verso di
me: non sorrideva, mantenne il contatto visivo per qualche momento per poi
riabbassarlo velocemente e scuotere la testa. Non demorsi:
- Sei sicura?-
Questa volta non mi guardò nemmeno,
annuì semplicemente.
Non era un buon segno: non voleva
parlare. Le possibilità ora erano due: o ce l’aveva con me per qualche
motivo chiaro solo a lei, o non si fidava della propria voce.
- Lari, ho fatto qualcosa di sbagliato?-
Accennò quella che poteva essere una
risata nervosa e scosse la testa, abbandonandosi poi completamente fra le mie
braccia, poggiando la testa sul mio petto.
Allora era la seconda: era così scossa
da temere di non riuscire a parlare.
Le soffiai sul collo, come adoravo fare,
sperando che così si sentisse più a suo agio e la scongiurai all’orecchio
- Piccola, parla con me. Per favore.-
In risposta chiuse gli occhi, fece per
scuotere la testa ma la fermai. Non insistetti, limitandomi a baciarla sul
collo, come a darle tutto il mio appoggio.
Lei allora prese un bel respiro e
accennò a rispondere:
- Non… non è successo niente-
Su una cosa aveva ragione, in quel momento la sua voce non era
affidabile: le si incrinò, scomparendole quasi del tutto. Non aveva mai saputo
mentire, ora più che mai.
La sentii agitarsi, cercando di liberare
le braccia dalla mia stretta. Allentai la presa così da concederle maggiore
libertà. Lei si portò le mani al viso, e iniziò a sfregarsi gli occhi, come a
cercare di impedire alle lacrime di sgorgare.
Non l’avevo mai vista piangere,
certo qualche volta le era scappata una lacrimetta, ad esempio quando mi
trascinava a guardare un film commovente, ma mai niente di più.
Mi sentii ancora più impacciato,
terrorizzato all’idea che iniziasse a singhiozzare lì fra le mie braccia,
nel luogo che doveva essere il più sicuro in assoluto per lei, e dove invece
non avrebbe trovato nessun aiuto.
Perché era quella la dura verità: non
avevo la minima idea di cosa fare.
Mi concentrai per un po’ sul
rumore della pioggia, era quasi rilassante nella sua monotonia: era uno
scrosciare ritmico, preciso, che era riuscito ad escluderci dal resto del
mondo, creandoci uno spazio tutto nostro. Abbassai di nuovo lo sguardo su di
lei e con delicatezza le scostai le mani dal viso:
- Di cos’è che hai paura? Di
piangere davanti a me?-
Mormorò un fievole no mentre una lacrima
intraprendeva la discesa lungo il suo volto. La bloccai a metà strada,
fermandola con un dito. Con l’altra mano le alzai il volto, per poterla
guardare negli occhi: erano bellissimi. Il cioccolato si era come sciolto:
scolorendosi ed al tempo stesso illuminandosi, trasformato dall’acqua che
si nascondeva al suo interno. Mi si strinse il cuore ma continuai imperterrito:
- Cos’è successo?-
Ilaria scosse ancora la testa ed abbassò
lo sguardo, ma prima che potessi intervenire in alcun modo, tornò a fissarmi e
a voce bassa ed incerta disse:
- Sono io. Una stupida, ecco cosa sono.
Non è successo niente: è solo che ogni tanto… cioè sono tutte le piccole
cose, capisci? Che quando si mettono tutte assieme non si riescono più a
sopportare! Io, non volevo davvero. Non mi capita quasi mai di cadere così
improvvisamente in questo stato. Di solito capisco quando sto per non farcela
più e avviso che starò fuori per un po’. Oggi però… ti ho fatto
preoccupare. Scusa.-
Si stava scusando?! Ma come diamine
ragionava?
Mi guardò confusa, mentre altre lacrime
seguivano il percorso della prima.
Forse si aspettava un sorriso rassicurante
da parte mia, ma ancora non era arrivato il momento per quello. Stava ancora
piangendo, o sbaglio?
- Ad esempio? Quali sono queste piccole
cose?-
Si passò di nuovo le mani sugli occhi ed
emise un suono inarticolato:
- Ma niente, tutte sciocchezze te
l’ho detto.-
Le presi le mani fra le mie,
nell’inutile tentativo di scaldarle un po’ e annuii come ad
incitarla:
- Sì, ma voglio lo stesso sentirtele
dire, piccola-
Sbuffò, ma quello che le uscì somigliava
più ad un singhiozzo mal represso.
- … La macchina stamattina non
partiva. E la sveglia non aveva suonato. E poi ho incontrato un vecchio amico
di cui non ricordavo il nome e che se l’è presa con me per qualche motivo
che ora non mi viene e… la tesina che dovevo consegnare era diventata
illeggibile per colpa della pioggia ed il professore non mi ha creduta e poi Veronica voleva per forza farmi andare a
casa sua per incontrare delle tipe che sono tue fan e…-
La strinsi forte, cullandola contro il
mio corpo: aveva cominciato a singhiozzare, era scossa da fremiti che non
riuscivo a fermare e non riuscivo più a capire cosa stesse balbettando. Si era
aperta. Mi aveva lasciato entrare.
Eccole le piccole cose.
Quelle che l’avevano ridotta in
quello stato. Quelle che erano riuscite a far piangere la mia piccola. Certo
prese individualmente potevano sembrare sciocchezze ma tutte assieme erano
difficili da fronteggiare.
Per parlare aspettai che si calmasse un
po’: non appena i singhiozzi iniziarono a diminuire intervenni deciso:
- Allora vediamo: la macchina la porto
ad aggiustare stanotte stesso e nel caso ti presto la mia o te ne compro una
nuova, lo stesso vale per la sveglia. Il tuo amico, se non lo hai mandato già
tu a quel paese, lo faccio io domani. Per la tesina, se c’è bisogno la
riscriviamo assieme e con il professore ci parlo io, non ti devi preoccupare.
Veronica e le sue amiche non ti infastidiranno più, te lo assicuro e…-
Volevo continuare: ero entrato nel mio
campo, avevo trovato il modo di tornare ad essere padrone della situazione.
Avevo capito che ero in grado di aiutare Lari in ognuno di quei problemi…
ma i suoi occhi mi fermarono: erano ancora lucidi, ma le lacrime non scorrevano
più.
Mi guardava come se, non saprei, come se
si fosse appena resa davvero conto che ero lì.
Tentai di capire a cosa stesse pensando
ma non ne avevo idea.
- Lari, sicura di star bene? Ci
rimangono ancora undici minuti prima di cominciare a rischiare la morte. Vuoi andare a casa
oppure…-
Mi sorrise, di un sorriso bellissimo.
Si voltò, per ritrovarsi faccia a faccia
con me. Mi poggiò le mani sulle spalle, e sovrappensiero iniziò a solleticarmi
il collo, muovendo lentamente le dita. Non si rendeva conto di starlo facendo
né tanto meno del piacere che mi provocava.
Riuscì a farmi tornare in me schiudendo
le labbra, per dire qualcosa.
Allora mi concentrai su quelle parole,
cercando di rimanere cosciente.
- Grazie. Grazie per essere venuto,
sotto la pioggia, in questo posto sperduto… per rischiare la vita con me.
Per non avermi preso per una pazza… e D…-
Feci per interromperla: non c’era
alcun bisogno di ringraziarmi per nessuna di quelle cose, era naturale che le
avessi fatte. Così come le avrei rifatte ancora mille volte. Ma non riuscii a
fermarla, perché fu lei a stoppare me, riuscendo a colpirmi con sole due
parole:
- … ti amo-
Il mio cuore mancò un battito.
Tenevo gli occhi fissi su quelle labbra,
incapaci di credere che avesse veramente pronunciato quelle parole. Ma era
stato così.
Il battito tornò, molto più veloce di
prima, forse troppo, ma non importava.
La strinsi di colpo a me, portandola a
meno di un soffio dal mio viso.
- Ripetilo-
L’avevo solo sussurrato, ma alla
distanza a cui ci trovavamo fu come se lo avessi gridato.
Le sue labbra si avvicinarono e prima di
stringersi definitivamente alle mie, bisbigliò:
- Ti amo-
Non sentivo più il freddo.
Non sentivo più la pioggia, né i tuoni
né il vento né i vestiti bagnati incollati addosso… sentivo solo ed
unicamente le labbra bollenti di Lari sulle mie.
L’unica cosa di cui ero cosciente
era il suo piccolo corpo stretto fra le mia braccia.
Il “ti amo” che aveva detto,
aleggiava ancora attorno a noi, rimbombandomi nella testa.
Non ero mai stato tanto felice. Mai
tanto fuori di me. Non riuscivo quasi a credere di star vivendo la realtà.
In quel momento ero convinto di poter
continuare a vivere anche solo grazie a quel “Ti amo”
Due parole, tre sillabe, brevissime,
quasi insignificanti.
Ma non erano tali, non per me.
Significavano tantissimo, e nessuno
avrebbe mai potuto affermare il contrario.
Quel “Ti amo” era riuscito a
dar vita ad emozioni indescrivibili.
Era stato lieve, dolce, impercettibile
ad occhi estranei nella sua grandiosità.
L’aveva detto.
Aveva detto Ti amo.
Sorrisi
nello scorgere uno sbrilluccichio dietro gli occhiali del mio piccolo pubblico.
-
Non dirmi che ti sei commosso, Nando-
Lui
scosse la testa convinto e mi fece segno di continuare.
Io
invece mi alzai. Non riuscivo a guardarlo in faccia:
-
Sono contento che non sia così…-
Dissi,
avviandomi verso la cucina. Mi avvicinai alla finestra e guardando fuori
aggiunsi:
-
… perché meno di quarant’otto ore dopo l’ho tradita-
*