2. Attrazione
Colonna sonora: Jessica Simpson - Irresistable
Quelle
furono le ultime parole che pronunciammo, prima che il silenzio ci calasse
addosso come un pesante macigno, accompagnandoci finché non varcammo la soglia
del primo pub aperto che avevamo trovato.
La taverna
del Trifoglio, così la nominava una targhetta all’esterno logorata dal tempo,
era quello che si poteva definire il classico pub irlandese: un’atmosfera calda
ed avvolgente ti accoglieva non appena entravi e i tuoi polmoni respiravano la
prima boccata di aria malsana, infetta di odori che spaziavano dall’acre fumo
di sigaretta al morbido profumo di cibo appena cucinato, tipica dei pub. Il
locale era piuttosto piccolino, con il lungo bancone di legno che occupava
quasi totalmente una parete e i tavolini, in rozzo legno scuro anch’essi, che
si diramavano da esso. Le luci, flebili come candele, erano state posizionate
agli angoli e liberavano una soffusa illuminazione per tutto il locale, la
quale contribuiva a rilassare il cliente appena riemerso dal temporale che si
era abbattuto sulla città. Al fondo della sala, uno scoppiettante camino
riscaldava la temperatura, facendo danzare soavemente le sue fiamme nell’antro
costituito da piccoli mattoncini rossastri. Una giovane cameriera si destreggiava
abilmente tra i pochi tavoli occupati, sorridendo gentilmente, nonostante sul
suo volto era ben chiaro il segno della stanchezza. Al di là del bancone un
uomo sulla trentina si occupava di preparare i drink, urlando, di tanto in
tanto, qualcosa a colui che doveva essere in lotta con i fornelli.
I pochi
clienti presenti erano dispersi in vari tavoli, il più possibile lontani gli
uni dagli altri, come se la sola vicinanza con altre persone sconosciute
potesse irritare quel loro pacifico ritrovo. Fortunatamente per noi il tavolo
davanti al camino non era stato occupato, e, fradici fino alle ossa
com’eravamo, non ci pensammo due volte a diventarne noi i possessori. Ci
vollero una manciata di secondi, prima che la cameriera venisse a chiederci le
ordinazioni.
- Cosa vi
posso….- la sua voce si smorzò nell’aria non appena focalizzò lo stato in cui
eravamo ridotti
- Per
iniziare un po’ di ghiaccio, ehm…Janyce – risposi, sforzandomi di leggere il
nome scritto sul taschino della sua divisa. In men che non si dica, ci fu
portato quanto richiesto e il mio silenzioso compagno non attese un attimo in
più per poggiarlo sul suo bel faccino deturpato. Quando il primo problema
sembrò essere risolto, pensammo al desiderio più impellente che il nostro corpo
aveva in quel momento: mangiare. Scrutai frettolosamente il menù, richiedendo
la prima cosa che mi capitò agli occhi.
- Allora –
esordì, non appena Janyce ci ebbe congedato – Chi è che ti ridotto così, eh? -
- E perché
dovrebbe interessarti? – ribatté, fulminandomi con lo sguardo, mentre si
premeva di più il ghiaccio sul volto
- Volevo
solo fare un po’ di conversazione – sbuffai con un’alzata di spalle
- Non ne
abbiamo mai fatta e di certo non ho intenzione d’iniziare ora –
Un sussurro
gelido, il suo, che s’infilava nel tuo animo, come la pioggia, là fuori,
trapassava i tuoi vestiti. Parole accompagnate da uno sguardo freddo come la
neve, che, chissà per quale assurdo motivo, mi facevano sentire improvvisamente
amareggiato.
Michael non
aveva torto: la mia memoria non riportava nemmeno un ricordo di una
chiacchierata tra noi svoltasi civilmente, non un ricordo di un gesto
affettuoso donato l’uno all’altro. E questo non era causato dall’amnesia che mi
aveva colpito dopo l’incidente.
Indifferenza,
gelo, disprezzo…quelli erano stati gli unici sentimenti che avevamo condiviso.
Spesso mi chiedevo dove e quando questo muro si fosse innalzato tra noi, ma
solo una triste risposta si ripeteva nel mio cervello: non c’era un dove o un
quando, eravamo nati con tutto quello…nati per non essere fratelli.
- Lo dici
come se fosse colpa mia – gli feci notare, alzando il sopracciglio – Se tu
avessi voluto, avresti sempre potuto…-
- Fare
cosa? Avvicinarmi a te? – m’interruppe, alzando la voce e fulminandomi con i
suoi occhi argentati – Io dovevo avvicinarmi a te? E tu? Tu cosa dovevi fare?
Stare lì fermo ad aspettarmi? –
- Ehi, non
ho detto questo – tentai di difendermi – Ho detto solo che è colpa di entrambi
se…-
- Se siamo
costretti a litigare ogni cinque minuti. Volevi dire questo, no? – continuò la
mia frase con un raschiante sarcasmo – Beh, io non l’ho mai voluto – aggiunse,
quasi volesse addossarmi tutta la colpa
- Non puoi
pretendere che tutto vada come vuoi –
- E tu
invece puoi farlo? Vieni qua e pretendi che iniziamo una conversazione da buoni
fratelli, come se non facessimo altro da anni. Come se quel giorno…-
- Eccovi le
vostre ordinazioni – l’arrivo della cameriera, interruppe bruscamente il
discorso che stavamo intraprendendo – Un hamburger con patate e una pizza ai
formaggi – elencò, posandoci davanti agli occhi la nostra cena – Buon appetito
– ci augurò, infine, lasciandoci liberi di riprendere là da dove avevamo
lasciato in sospeso.
Curioso di
sapere a cosa si riferisse Michael con “quel giorno” non aspettai altro tempo
per chiederglielo, ma lui non sembrava tanto intenzionato a ricominciare la
discussione, visto che si era già avventato sulle patatine. Si bloccò solo
qualche secondo per guardarmi e mostrarmi i suoi occhi, ora privi dell’ira che
vi aveva brillato fino a qualche attimo prima.
- Lascia
perdere – mormorò, dedicandosi al suo panino. Chiaramente non voleva svelarmi
quel mistero. Non in quel momento, almeno.
Abbassai lo
sguardo sul mio piatto, fissando la pizza fumante che vi era posata sopra. La
fame che aveva attanagliato il mio stomaco, sembrava essere stata soppressa
dalla curiosità. Quel fantomatico “giorno”, a me oscuro, aveva iniziato a
tormentarmi.
*
Quando
terminammo di mangiare le lancette del mio orologio segnavano le dieci.
Avrei
davvero voluto tornarmene a casa e chiudermi nella mia camera, ma certamente a
quell’ora nostra madre era ancora in piedi a giocare a bridge con la signora
McGonnall e ci avrebbe notati immediatamente non appena avremmo tentato di
avvicinarci a casa nostra.
La mia idea
era, infatti, di rientrare verso le undici, quando nostra madre si sarebbe
messa sotto le coperte, costretta dalla premurosa anziana la quale non si
coricava mai dopo quell’ora. Il vero problema era come riuscire a far passare
quella lunga ora in sola compagnia del mio fratellino dalla parlantina facile.
Anche in
quel momento stava in silenzio, contemplando il fuoco che scoppiettava nel
camino, assorto in chissà quali pensieri. Il colore caldo delle fiamme danzava
sul suo profilo, mascherandolo con soffici sovrapposizioni di luci ed ombre. I
marchi rossi, lasciatigli da coloro che l’avevano picchiato, avevano perso
colore e parevano anche essersi sgonfiati, rispetto a quando l’avevo trovato.
Fortunatamente la pioggia gelida aveva placato subito il gonfiore e, con molta
probabilità, l’indomani non avrebbe avuto più nulla di così vistoso. Il mio
sguardo rimase, poi, impigliato sui suoi capelli, che avevano iniziato ad
asciugarsi, mostrando alla luce i loro riflessi bruni. Ero così immerso nel
notare i piccoli particolari che identificavano Michael, che trasalì non appena
il suo sguardo argenteo si posò su di me.
Lo stavo
fissando e, ovviamente, lui se n’era accorto. Il problema era che io non me n’ero accorto.
- Si può
sapere che hai, oggi? Stai tutto il tempo a fissarmi -
“Bella
domanda! Me la sto facendo anch’io” pensai, autorimproverando la mia
distrazione
- Io non ti
sto fissando, cretino – ribattei, cercando di rimanere indifferente
- Hai pure
il coraggio di mentire? –
- Non ho
alcun motivo per guardarti, narcisista imbecille -
-
Tsk…dev’essere una questione genetica – disse, lanciandomi uno sguardo
sprezzante – Anche papà aveva il bel vizio di dire balle –
Senza
neanche accorgermene un sonoro schiaffo raggiunse la sua guancia, spostandogli
il volto da un lato.
Sentirmi
paragonare a quell’infame che aveva abbandonato noi e nostra madre era stato
veramente troppo da sopportare. Sapevo che quel ceffone se l’era meritato,
eppure, non appena tornai alla lucidità, sentì l’irresistibile impulso di
chiedergli scusa, domandandomi, contemporaneamente, il perché di tale stupido
desiderio.
Abbassai la
mano mentre la sua si alzava verso la guancia mortificata, sfiorandola
delicatamente.
Un ironico
sorriso gli piegò le labbra. Come se nulla fosse si alzò, trafiggendomi da
parte a parte con un’occhiata degna di un iceberg
- Non sei
mai cambiato – sussurrò, prima di allontanarsi verso l’uscita e sparire dietro
la pesante porta di legno scuro. Ci misi qualche secondo ad assorbire quelle
parole, ma non riuscì a capire esattamente il loro significato. Lasciai i soldi
sul tavolo, in una tale fretta che aggiunsi pure cinque dollari di troppo. Dopo
di che seguì mio fratello sotto la pioggia, che non dava alcun cenno di voler
smettere.
Michael era
immobile, a pochi metri da me, dandomi le spalle. Le gocce gelide erano tornate
ad accarezzare avidamente i nostri corpi ancora umidi, riempiendo quel
famigliare silenzio che calava fin troppo spesso tra di noi. Non mi aspettavo
di trovarlo ancora lì, ma visto che c’era dovevo approfittare della situazione
per tentare di farlo rientrare.
- Dove hai
intenzione di andare? – domandai spazientito
- A casa –
mi rispose apatico, continuando a darmi le spalle.
Guardai il
mio orologio. Era ancora troppo presto per rischiare di avvicinarsi a casa
- Mamma
potrebbe vederti – gli feci notare, tentando di usare il tono più pacato
possibile nella speranza di riuscire a riportarlo alla ragione. Ma il mio
intento, ovviamente, non riuscì
- Non
m’importa! – ringhiò a denti stretti – Mi sono stancato di stare da solo…con te
-
Vidi le sue
mani, abbandonate lungo i fianchi, serrarsi in due pugni tremanti. Persino il
suo corpo sembrava che tremasse cercando di trattenere dentro di se tutta la
furia che ribolliva pericolosamente. Furia che io avevo immesso.
Sbuffai
rumorosamente, passandogli di fianco – Muoviti – gli ordinai, aprendo la
portiera
*
Ancora non
saprei dirvi perché lo feci, perché assecondai i capricci di quel deficiente
che mi aveva insultato fino a pochi attimi prima, perché mi ero sottomesso, per
la prima volta, a una richiesta di quel moccioso, con cui avevo provato in
tutti i modi ad essere gentile senza, tuttavia, essere ricambiato.
Non lo
sapevo, eppure lo feci: lo riportai a casa, rischiando anche di far prendere un
infarto a nostra madre.
“Ma perché
cazzo lo sto facendo?” continuavo a ripetermi.
Miracolosamente,
per una volta la Dea Fortuna s’era stufata di ridermi dietro le spalle e si era
decisa a darmi una mano. Quando arrivammo la casa della nostra anziana vicina
era immersa nel più assoluto buio e silenzio, tipico del sonno. Molto
probabilmente la nostra nonnina si era stufata di perdere a bridge con nostra
madre e aveva proposto allegramente di andare sotto le coperte, lasciandoci
inconsciamente via libera.
Infilai la
chiave nella serratura, facendola girare per un paio di volte finché un rumore
metallico non mi annunciò che era aperta. Posammo malamente le scarpe fradice
nell’ingresso, lasciando una scia di piccole goccioline al nostro passaggio,
che segnavano il percorso fino alle nostre camere, poste al piano superiore.
- Non
accendere la luce – ordinai a Michael, il quale neanche si degnò di
rispondersi, rifugiandosi nella sua tana
Mi dovetti
rassegnare a quel suo atteggiamento. Potevamo continuare tutta la notte a
litigare per cazzate simili, e quella non era proprio la migliore aspirazione
che avessi per quella serata.
Entrai
nella mia stanza, togliendomi la maglietta bagnata e lanciandola in un angolo
di quel caos che solo io potevo chiamare camera. Stanco, mi passai una mano tra
i capelli fradici, mentre con l’altra cercavo il cellulare nelle tasche dei
miei jeans. Sentivo il terribile bisogno di parlare con Mary-Jean: quella pazza
era sempre riuscita a tirarmi su di morale, anche in situazioni ben peggiori.
La mia
mano, però, non trovò nulla.
Aggrottai
le sopracciglia, imprecando contro il mio stesso disordine
“E ora dove
diamine l’ho lasciato” mi domandai, dirigendomi verso la stanza di Michael,
nella pallida speranza che quel cretino potesse essermi utile per una volta.
Mi
aspettavo di trovare la sua porta serrata, come di solito la teneva, ma
stranamente quella sera era spalancata, lasciandomi completamente impreparato
all’immagine che custodiva al suo interno: lui era lì, davanti alla finestra,
illuminato da qualche pallido raggio di luna che sfuggiva alle spesse nuvole
nere. Il suo sguardo seguiva ogni movimento di quella danza armoniosa che le
gocce intraprendevano scivolando sul vetro freddo della finestra.
Si era
disfatto sia della giacca che della maglia, rimanendo solo con i fradici jeans
neri che contrastavano con la pelle chiara del suo torace, come in una foto in
bianco e nero. Il suo profilo sembrava essere stato scolpito nel marmo dalle
mani esperte e delicate di Michelangelo, illuminato appena dalla luce bagnata
di quella notte in cui il profumo dell’umidità si spargeva dovunque riusciva ad
infilarsi.
Mi bloccai,
sotto l’effetto di una misteriosa magia che mi obbligava a fissare quella
bellissima statua dinanzi ai miei occhi d’incredule mortale. Il mio respirò
accelerava ad ogni boccata d’aria in più, così come i battiti sempre più
frenetici del mio cuore, entrambi mossi da qualcosa che non potevo
controllare…che non riuscivo a definire. Qualcosa che m’impedì di muovermi
anche quando il suo sguardo si posò su di me
- Hai
ancora il coraggio di dire che non mi fissavi, ora? – mi chiese, con uno strano
tono divertito nella voce. Crudelmente divertito, simile a quello che userebbe
un gatto quando ha messo finalmente le zampe sul topolino che da lungo tempo
invade il suo territorio.
- V-volevo
solo chiederti s-se hai visto il mio c-cellulare - sviai sfrontatamente,
tentando di risultare il più possibile credibile, cosa che, ovviamente, non
avvenne.
“Cretino,
cerca almeno di non balbettare! Devi essere sicuro di te” mi rimproverai
mentalmente.
Una piegatura
sprezzante ricoprì le labbra fini di Michael, mentre mi osservava attentamente
con i suoi occhi, nascosto dal velo della notte.
- Sei
proprio un codardo -
- Io
codardo? – ripetei, indignato da quell’affermazione – Ti ricordo che sei tu
quello che non si sa nemmeno difendere da un gruppetto di teppisti. Hai visto?
Anche tu hai qualche somiglianza genetica con il nostro caro papino – ribattei tentando appena di nascondere il ghigno
diabolico apparso sul mio volto.
Ve ne do
atto: ero stato un bastardo in piena regola!
Io stesso
ero il primo a riconoscerlo, ma sapevo anche che istigarlo nuovamente l’avrebbe
portato lontano da quell’argomento che, a mio parere, stava prendendo davvero
una brutta piega. Nonostante all’apparenza Michael sembri calmo e controllato,
si rivela essere una mente completamente impulsiva una volta che gli viene
lanciato il seme della discordia. E questa non era una situazione su cui
avrebbe sorvolato.
Come avevo
immaginato, infatti, senza neanche rifletterci per un secondo, si avventò su di
me con un pugno, che bloccai con notevole facilità. Non contento, tentò di
attaccarmi con la mano libera, ma anche quella mossa fu fermata sul nascere. In
quanto a forza fisica il mio fratellino non era mai riuscito a battermi e,
purtroppo per lui, quella non era esattamente la serata giusta per prendersi la
sua rivincita.
Lo buttai
sul letto senza alcuna cura, stringendogli con forza i polsi e obbligandoglieli
sopra la testa, mentre mi sedevo su di lui per bloccare ogni eventuale
movimento delle gambe. Dopo aver tentato di liberarsi con un paio di strattoni,
si placò limitandosi a riversare la sua rabbia nei suoi occhi, i quali mi
rivolgevano un’occhiata carica di tacite ma ben comprensibili minacce.
- Bastardo
– mi ringhiò contro – Sei solo un bastardo codardo! Non sei cambiato affatto:
scappi sempre dalla verità -
- E quale
sarebbe la verità? Illuminami genio! – lo schernii crudelmente, accompagnando
le mie parole con una meschina risata
- Non sei
neanche in grado di vederla? Oppure preferisci nasconderla, fare finta di
niente per non sentirti troppo in colpa? – urlò, sporgendosi in avanti e
mostrandomi così il suo bel volto scomposto dall’ira. Nuovamente prese a
muoversi nella speranza di liberarsi, missione in cui fallì miseramente per la
seconda volta, invischiando il suo animo anche con una profonda frustrazione.
- Che
diavolo stai farneticando? -
- Oh, ma
certo: tu hai perso la memoria. Non ricordi più nulla del giorno in cui se ne
andò nostro padre? O forse la tua amnesia è solo un altro dei tuoi stupidi
trucchetti per tirarti fuori da situazioni sgradevoli? -.
Lo fissai
aggrottando le sopraciglia e tentando di dare un senso alle sue parole: cosa
poteva centrare tutto quello con il giorno in cui quel fottuto bastardo aveva
lasciato casa nostra?
La mia
memoria indagò nei meandri perduti del mio passato, di cui molti pezzi erano
andati dispersi e, forse, non sarebbero stati più ritrovati. Cercò quel giorno,
presentandomelo in insieme di frammenti che passavano nella mia testa come un
film montato male. Un film che sembrava saltare appositamente le scene madri.
Inconsciamente
allentai la presa attorno ai polsi del mio prigioniero, il quale approfittò
della mia distrazione per liberarsi.
Ora non era
più bloccato dalla mia morsa: poteva senza tirarmi un pugno, senza alcun
problema, e non me ne sarei nemmeno accorto, talmente ero assorto nel sforzare
al massimo la mia memoria frammentaria. Poteva allontanarmi, cacciarmi in
malomodo dalla sua stanza e intimarmi di non metterci mai più piede.
Poteva…ma
lui non fece nulla di tutto questo.
Stette in
silenzio, sdraiato sotto di me, guardandomi mentre gli sputavo addosso una
scarica di domande a cui avevo bisogno di trovare una risposta. Domande che lui
stesso aveva immesso nella mia testa.
- Che
centra il giorno in cui quell’infame ci ha lasciato? Cosa centra con noi?
Perché è anche la causa di tutta questa maledetta situazione? – la mia voce
giungeva alle mie orecchie sempre più roca e spezzata, dandomi segno che ero
ormai vicino al pianto, nonostante il mio orgoglio m’impedisse in ogni modo di
non versare lacrime davanti al mio con sanguigno
- Che
centra con il fatto che non ci odia…- non ebbi la possibilità di terminare
quell’ultima domanda. Le mie grida s’erano fermate contro le sue labbra, che
delicate s’erano appoggiate alle mie lasciandomi ammutolito.
“Mio
fratello mi sta baciando” pensai distrattamente, distaccato quasi come se la
cosa non mi riguardasse.
Fu l’unica
cosa che riuscì a comporsi nel mio cervello, dopodiché i neuroni parvero
scioperare in gruppo, senza chiedermi alcuna autorizzazione, oltretutto. Dovevo
sembrare davvero un fantoccio, non fosse stato per il cuore che mi batteva come
un tamburo nel petto e per i brividi che, per qualche inspiegabile motivo,
continuavano a scivolare sulla mia schiena. Brividi caldi che annodavano il mio
stomaco in una morsa della stessa bollente temperature. Scosse di sensazione
che si diffondevano in me con cerchi concentrici, raggiungendo ogni angolo del
mio essere.
Ricordo
addirittura di aver realizzato, nella mia testa messa momentaneamente in
standby, che nessuna mai mi aveva fatto provare una tale scarica di emozioni
con un solo bacio. Però, qui non si parlava di una ragazza qualunque: qua si
parlava di mio fratello, per la miseria!
So bene
cosa sta passando per le vostre menti, ora: mi vedete già con la mano alzata,
pronto a dargli un ceffone che in breve arriverà ad inferire sulla pelle già
marchiata. Immaginate chiaramente il mio corpo alzarsi dal suo e i miei occhi
lanciargli tutto il mio disprezzo, mentre me ne torno in camera mia, magari
maledicendo tutto il mondo e l’universo. Mi dispiace per voi, ma avete toppato
alla grande!
Ciò che
feci fu esattamente l’opposto! E non chiedetemi le motivazioni, perché
neanch’io riesco ancora a trovarle. So solo che le sue labbra diventarono la
mia unica fissazione, che il suo respiro affannoso mischiato con il mio era
diventata l’unica musica che avrei voluto ascoltare, che il suo volto diventò
l’unica immagine che occupava i miei occhi.
Dopo lo
shock iniziale, mi lasciai travolgere da quel bacio, assecondando tutti i
movimenti di Michael.
Mi stupisco
tutt’ora nel pensare che fui proprio io a chiedere di più, a far diventare
quell’effusione più profonda ed intima. Feci scorrere la mia lingua sulle sue
labbra, intanto che lui si stendeva completamente sul materasso portandomi
dolcemente con se in quel mondo dove la razionalità sembrava sconosciuta.
Un gemito e
poi il varco in quel luogo a me proibito da ogni cultura, civiltà, religione.
Ma in quel momento nulla di tutto questo occupava i miei pensieri: solo lui,
steso sotto di me, che sussurrava frasi sconnesse dal piacere e dal desiderio.
Le sue dita gelide strette sulla pelle bollente della mia schiena, il suo corpo
sottile che si contorceva sotto i miei baci, la sua voce ansimante: volevo
tutto di lui. Cieco, desideroso solo di soddisfare i miei desideri, di riuscire
a fargli toccare il nirvana del piacere, di possederlo. Lui, mio fratello…
E’ così
semplice dirlo ora, lontano da quel momento in cui la ragione non aveva trovato
posto. O forse ero semplicemente io a rinnegarla, poiché ero schiavo soltanto
dei miei sensi e del miei istinti, perso in quel tunnel di lussuria in cui
Michael mi stava dolcemente trasportando. Un tunnel che sembrava l’unica strada
possibile in quella notte bagnata dalla pioggia, in quella notte in cui la luna
giocava a nascondino con nuvole piene di lacrime, in quella notte in cui lo
feci mio…
- Steve…-
…per
sempre…
Free Talk
Salve a
tutti ^^ Bene, dopo un lungo silenzio (causato dai capricci del mio caro pc
-.-) torno con il secondo capitolo di questa storia ^^ Vi chiedo perdono per la
scena finale: è davvero pessima, ma io non ci so proprio fare con queste cose
^^’’’ (e una domanda comune acquista voce: perché cavolo le scrivi, eh???
NdWhite). Ringrazio cicciachan e effy&ale che hanno avuto cuore di
commentare questo mio piccolo schizzo di mente ^^ Alla prossima