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Autore: Black Angel    11/07/2005    3 recensioni
Cos’è l’amore? Una domanda così semplice, eppure così complessa. Come quella parola che suona soave a ogni orecchio: Amore. Possibile che una sola parola possa descrivere un sentimento così grande, così esteso, così…profondo? Possibile che in una così piccola parola si nasconda un significato così vario? Perché di “amore” ne esistono tanti: l’amore passionale e violento di due amanti, quello dolce e puro di due fidanzati, l’amore naturale per il proprio figlio, quello gioioso tra amici…quello tra fratelli… Amore…..come facciamo a sapere se è veramente quello che fa battere il nostro cuore? Come facciamo a sapere se è quel sentimento, o una giovanile infatuazione che durerà solo qualche giorno? Come facciamo a riconoscere la persona giusta? Platone diceva che tutti noi siamo stati divisi, come una mela, e che non facciamo altro che cercare quella parte da cui siamo stati brutalmente privati: l’anima gemella. Ma esisterà davvero? Esiste la mia anima gemella…?
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. Attrazione

Colonna sonora: Jessica Simpson - Irresistable

 

Quelle furono le ultime parole che pronunciammo, prima che il silenzio ci calasse addosso come un pesante macigno, accompagnandoci finché non varcammo la soglia del primo pub aperto che avevamo trovato.

La taverna del Trifoglio, così la nominava una targhetta all’esterno logorata dal tempo, era quello che si poteva definire il classico pub irlandese: un’atmosfera calda ed avvolgente ti accoglieva non appena entravi e i tuoi polmoni respiravano la prima boccata di aria malsana, infetta di odori che spaziavano dall’acre fumo di sigaretta al morbido profumo di cibo appena cucinato, tipica dei pub. Il locale era piuttosto piccolino, con il lungo bancone di legno che occupava quasi totalmente una parete e i tavolini, in rozzo legno scuro anch’essi, che si diramavano da esso. Le luci, flebili come candele, erano state posizionate agli angoli e liberavano una soffusa illuminazione per tutto il locale, la quale contribuiva a rilassare il cliente appena riemerso dal temporale che si era abbattuto sulla città. Al fondo della sala, uno scoppiettante camino riscaldava la temperatura, facendo danzare soavemente le sue fiamme nell’antro costituito da piccoli mattoncini rossastri. Una giovane cameriera si destreggiava abilmente tra i pochi tavoli occupati, sorridendo gentilmente, nonostante sul suo volto era ben chiaro il segno della stanchezza. Al di là del bancone un uomo sulla trentina si occupava di preparare i drink, urlando, di tanto in tanto, qualcosa a colui che doveva essere in lotta con i fornelli.

I pochi clienti presenti erano dispersi in vari tavoli, il più possibile lontani gli uni dagli altri, come se la sola vicinanza con altre persone sconosciute potesse irritare quel loro pacifico ritrovo. Fortunatamente per noi il tavolo davanti al camino non era stato occupato, e, fradici fino alle ossa com’eravamo, non ci pensammo due volte a diventarne noi i possessori. Ci vollero una manciata di secondi, prima che la cameriera venisse a chiederci le ordinazioni.

- Cosa vi posso….- la sua voce si smorzò nell’aria non appena focalizzò lo stato in cui eravamo ridotti

- Per iniziare un po’ di ghiaccio, ehm…Janyce – risposi, sforzandomi di leggere il nome scritto sul taschino della sua divisa. In men che non si dica, ci fu portato quanto richiesto e il mio silenzioso compagno non attese un attimo in più per poggiarlo sul suo bel faccino deturpato. Quando il primo problema sembrò essere risolto, pensammo al desiderio più impellente che il nostro corpo aveva in quel momento: mangiare. Scrutai frettolosamente il menù, richiedendo la prima cosa che mi capitò agli occhi.

- Allora – esordì, non appena Janyce ci ebbe congedato – Chi è che ti ridotto così, eh? -

- E perché dovrebbe interessarti? – ribatté, fulminandomi con lo sguardo, mentre si premeva di più il ghiaccio sul volto

- Volevo solo fare un po’ di conversazione – sbuffai con un’alzata di spalle

- Non ne abbiamo mai fatta e di certo non ho intenzione d’iniziare ora –

Un sussurro gelido, il suo, che s’infilava nel tuo animo, come la pioggia, là fuori, trapassava i tuoi vestiti. Parole accompagnate da uno sguardo freddo come la neve, che, chissà per quale assurdo motivo, mi facevano sentire improvvisamente amareggiato.

Michael non aveva torto: la mia memoria non riportava nemmeno un ricordo di una chiacchierata tra noi svoltasi civilmente, non un ricordo di un gesto affettuoso donato l’uno all’altro. E questo non era causato dall’amnesia che mi aveva colpito dopo l’incidente.

Indifferenza, gelo, disprezzo…quelli erano stati gli unici sentimenti che avevamo condiviso. Spesso mi chiedevo dove e quando questo muro si fosse innalzato tra noi, ma solo una triste risposta si ripeteva nel mio cervello: non c’era un dove o un quando, eravamo nati con tutto quello…nati per non essere fratelli.

- Lo dici come se fosse colpa mia – gli feci notare, alzando il sopracciglio – Se tu avessi voluto, avresti sempre potuto…-

- Fare cosa? Avvicinarmi a te? – m’interruppe, alzando la voce e fulminandomi con i suoi occhi argentati – Io dovevo avvicinarmi a te? E tu? Tu cosa dovevi fare? Stare lì fermo ad aspettarmi? –

- Ehi, non ho detto questo – tentai di difendermi – Ho detto solo che è colpa di entrambi se…-

- Se siamo costretti a litigare ogni cinque minuti. Volevi dire questo, no? – continuò la mia frase con un raschiante sarcasmo – Beh, io non l’ho mai voluto – aggiunse, quasi volesse addossarmi tutta la colpa

- Non puoi pretendere che tutto vada come vuoi –

- E tu invece puoi farlo? Vieni qua e pretendi che iniziamo una conversazione da buoni fratelli, come se non facessimo altro da anni. Come se quel giorno…-

- Eccovi le vostre ordinazioni – l’arrivo della cameriera, interruppe bruscamente il discorso che stavamo intraprendendo – Un hamburger con patate e una pizza ai formaggi – elencò, posandoci davanti agli occhi la nostra cena – Buon appetito – ci augurò, infine, lasciandoci liberi di riprendere là da dove avevamo lasciato in sospeso.

Curioso di sapere a cosa si riferisse Michael con “quel giorno” non aspettai altro tempo per chiederglielo, ma lui non sembrava tanto intenzionato a ricominciare la discussione, visto che si era già avventato sulle patatine. Si bloccò solo qualche secondo per guardarmi e mostrarmi i suoi occhi, ora privi dell’ira che vi aveva brillato fino a qualche attimo prima.

- Lascia perdere – mormorò, dedicandosi al suo panino. Chiaramente non voleva svelarmi quel mistero. Non in quel momento, almeno.

Abbassai lo sguardo sul mio piatto, fissando la pizza fumante che vi era posata sopra. La fame che aveva attanagliato il mio stomaco, sembrava essere stata soppressa dalla curiosità. Quel fantomatico “giorno”, a me oscuro, aveva iniziato a tormentarmi.

*

Quando terminammo di mangiare le lancette del mio orologio segnavano le dieci.

Avrei davvero voluto tornarmene a casa e chiudermi nella mia camera, ma certamente a quell’ora nostra madre era ancora in piedi a giocare a bridge con la signora McGonnall e ci avrebbe notati immediatamente non appena avremmo tentato di avvicinarci a casa nostra.

La mia idea era, infatti, di rientrare verso le undici, quando nostra madre si sarebbe messa sotto le coperte, costretta dalla premurosa anziana la quale non si coricava mai dopo quell’ora. Il vero problema era come riuscire a far passare quella lunga ora in sola compagnia del mio fratellino dalla parlantina facile.

Anche in quel momento stava in silenzio, contemplando il fuoco che scoppiettava nel camino, assorto in chissà quali pensieri. Il colore caldo delle fiamme danzava sul suo profilo, mascherandolo con soffici sovrapposizioni di luci ed ombre. I marchi rossi, lasciatigli da coloro che l’avevano picchiato, avevano perso colore e parevano anche essersi sgonfiati, rispetto a quando l’avevo trovato. Fortunatamente la pioggia gelida aveva placato subito il gonfiore e, con molta probabilità, l’indomani non avrebbe avuto più nulla di così vistoso. Il mio sguardo rimase, poi, impigliato sui suoi capelli, che avevano iniziato ad asciugarsi, mostrando alla luce i loro riflessi bruni. Ero così immerso nel notare i piccoli particolari che identificavano Michael, che trasalì non appena il suo sguardo argenteo si posò su di me.

Lo stavo fissando e, ovviamente, lui se n’era accorto. Il problema era che io non me n’ero accorto.

- Si può sapere che hai, oggi? Stai tutto il tempo a fissarmi -

“Bella domanda! Me la sto facendo anch’io” pensai, autorimproverando la mia distrazione

- Io non ti sto fissando, cretino – ribattei, cercando di rimanere indifferente

- Hai pure il coraggio di mentire? –

- Non ho alcun motivo per guardarti, narcisista imbecille -

- Tsk…dev’essere una questione genetica – disse, lanciandomi uno sguardo sprezzante – Anche papà aveva il bel vizio di dire balle –

Senza neanche accorgermene un sonoro schiaffo raggiunse la sua guancia, spostandogli il volto da un lato.

Sentirmi paragonare a quell’infame che aveva abbandonato noi e nostra madre era stato veramente troppo da sopportare. Sapevo che quel ceffone se l’era meritato, eppure, non appena tornai alla lucidità, sentì l’irresistibile impulso di chiedergli scusa, domandandomi, contemporaneamente, il perché di tale stupido desiderio.

Abbassai la mano mentre la sua si alzava verso la guancia mortificata, sfiorandola delicatamente.

Un ironico sorriso gli piegò le labbra. Come se nulla fosse si alzò, trafiggendomi da parte a parte con un’occhiata degna di un iceberg

- Non sei mai cambiato – sussurrò, prima di allontanarsi verso l’uscita e sparire dietro la pesante porta di legno scuro. Ci misi qualche secondo ad assorbire quelle parole, ma non riuscì a capire esattamente il loro significato. Lasciai i soldi sul tavolo, in una tale fretta che aggiunsi pure cinque dollari di troppo. Dopo di che seguì mio fratello sotto la pioggia, che non dava alcun cenno di voler smettere.

Michael era immobile, a pochi metri da me, dandomi le spalle. Le gocce gelide erano tornate ad accarezzare avidamente i nostri corpi ancora umidi, riempiendo quel famigliare silenzio che calava fin troppo spesso tra di noi. Non mi aspettavo di trovarlo ancora lì, ma visto che c’era dovevo approfittare della situazione per tentare di farlo rientrare.

- Dove hai intenzione di andare? – domandai spazientito

- A casa – mi rispose apatico, continuando a darmi le spalle.

Guardai il mio orologio. Era ancora troppo presto per rischiare di avvicinarsi a casa

- Mamma potrebbe vederti – gli feci notare, tentando di usare il tono più pacato possibile nella speranza di riuscire a riportarlo alla ragione. Ma il mio intento, ovviamente, non riuscì

- Non m’importa! – ringhiò a denti stretti – Mi sono stancato di stare da solo…con te -

Vidi le sue mani, abbandonate lungo i fianchi, serrarsi in due pugni tremanti. Persino il suo corpo sembrava che tremasse cercando di trattenere dentro di se tutta la furia che ribolliva pericolosamente. Furia che io avevo immesso.

Sbuffai rumorosamente, passandogli di fianco – Muoviti – gli ordinai, aprendo la portiera

*

Ancora non saprei dirvi perché lo feci, perché assecondai i capricci di quel deficiente che mi aveva insultato fino a pochi attimi prima, perché mi ero sottomesso, per la prima volta, a una richiesta di quel moccioso, con cui avevo provato in tutti i modi ad essere gentile senza, tuttavia, essere ricambiato.

Non lo sapevo, eppure lo feci: lo riportai a casa, rischiando anche di far prendere un infarto a nostra madre.

“Ma perché cazzo lo sto facendo?” continuavo a ripetermi.

Miracolosamente, per una volta la Dea Fortuna s’era stufata di ridermi dietro le spalle e si era decisa a darmi una mano. Quando arrivammo la casa della nostra anziana vicina era immersa nel più assoluto buio e silenzio, tipico del sonno. Molto probabilmente la nostra nonnina si era stufata di perdere a bridge con nostra madre e aveva proposto allegramente di andare sotto le coperte, lasciandoci inconsciamente via libera.

Infilai la chiave nella serratura, facendola girare per un paio di volte finché un rumore metallico non mi annunciò che era aperta. Posammo malamente le scarpe fradice nell’ingresso, lasciando una scia di piccole goccioline al nostro passaggio, che segnavano il percorso fino alle nostre camere, poste al piano superiore.

- Non accendere la luce – ordinai a Michael, il quale neanche si degnò di rispondersi, rifugiandosi nella sua tana

Mi dovetti rassegnare a quel suo atteggiamento. Potevamo continuare tutta la notte a litigare per cazzate simili, e quella non era proprio la migliore aspirazione che avessi per quella serata.

Entrai nella mia stanza, togliendomi la maglietta bagnata e lanciandola in un angolo di quel caos che solo io potevo chiamare camera. Stanco, mi passai una mano tra i capelli fradici, mentre con l’altra cercavo il cellulare nelle tasche dei miei jeans. Sentivo il terribile bisogno di parlare con Mary-Jean: quella pazza era sempre riuscita a tirarmi su di morale, anche in situazioni ben peggiori.

La mia mano, però, non trovò nulla.

Aggrottai le sopracciglia, imprecando contro il mio stesso disordine

“E ora dove diamine l’ho lasciato” mi domandai, dirigendomi verso la stanza di Michael, nella pallida speranza che quel cretino potesse essermi utile per una volta.

Mi aspettavo di trovare la sua porta serrata, come di solito la teneva, ma stranamente quella sera era spalancata, lasciandomi completamente impreparato all’immagine che custodiva al suo interno: lui era lì, davanti alla finestra, illuminato da qualche pallido raggio di luna che sfuggiva alle spesse nuvole nere. Il suo sguardo seguiva ogni movimento di quella danza armoniosa che le gocce intraprendevano scivolando sul vetro freddo della finestra.

Si era disfatto sia della giacca che della maglia, rimanendo solo con i fradici jeans neri che contrastavano con la pelle chiara del suo torace, come in una foto in bianco e nero. Il suo profilo sembrava essere stato scolpito nel marmo dalle mani esperte e delicate di Michelangelo, illuminato appena dalla luce bagnata di quella notte in cui il profumo dell’umidità si spargeva dovunque riusciva ad infilarsi.

Mi bloccai, sotto l’effetto di una misteriosa magia che mi obbligava a fissare quella bellissima statua dinanzi ai miei occhi d’incredule mortale. Il mio respirò accelerava ad ogni boccata d’aria in più, così come i battiti sempre più frenetici del mio cuore, entrambi mossi da qualcosa che non potevo controllare…che non riuscivo a definire. Qualcosa che m’impedì di muovermi anche quando il suo sguardo si posò su di me

- Hai ancora il coraggio di dire che non mi fissavi, ora? – mi chiese, con uno strano tono divertito nella voce. Crudelmente divertito, simile a quello che userebbe un gatto quando ha messo finalmente le zampe sul topolino che da lungo tempo invade il suo territorio.

- V-volevo solo chiederti s-se hai visto il mio c-cellulare - sviai sfrontatamente, tentando di risultare il più possibile credibile, cosa che, ovviamente, non avvenne.

“Cretino, cerca almeno di non balbettare! Devi essere sicuro di te” mi rimproverai mentalmente.

Una piegatura sprezzante ricoprì le labbra fini di Michael, mentre mi osservava attentamente con i suoi occhi, nascosto dal velo della notte.

- Sei proprio un codardo -

- Io codardo? – ripetei, indignato da quell’affermazione – Ti ricordo che sei tu quello che non si sa nemmeno difendere da un gruppetto di teppisti. Hai visto? Anche tu hai qualche somiglianza genetica con il nostro caro papino – ribattei tentando appena di nascondere il ghigno diabolico apparso sul mio volto.

Ve ne do atto: ero stato un bastardo in piena regola!

Io stesso ero il primo a riconoscerlo, ma sapevo anche che istigarlo nuovamente l’avrebbe portato lontano da quell’argomento che, a mio parere, stava prendendo davvero una brutta piega. Nonostante all’apparenza Michael sembri calmo e controllato, si rivela essere una mente completamente impulsiva una volta che gli viene lanciato il seme della discordia. E questa non era una situazione su cui avrebbe sorvolato.

Come avevo immaginato, infatti, senza neanche rifletterci per un secondo, si avventò su di me con un pugno, che bloccai con notevole facilità. Non contento, tentò di attaccarmi con la mano libera, ma anche quella mossa fu fermata sul nascere. In quanto a forza fisica il mio fratellino non era mai riuscito a battermi e, purtroppo per lui, quella non era esattamente la serata giusta per prendersi la sua rivincita.

Lo buttai sul letto senza alcuna cura, stringendogli con forza i polsi e obbligandoglieli sopra la testa, mentre mi sedevo su di lui per bloccare ogni eventuale movimento delle gambe. Dopo aver tentato di liberarsi con un paio di strattoni, si placò limitandosi a riversare la sua rabbia nei suoi occhi, i quali mi rivolgevano un’occhiata carica di tacite ma ben comprensibili minacce.

- Bastardo – mi ringhiò contro – Sei solo un bastardo codardo! Non sei cambiato affatto: scappi sempre dalla verità -

- E quale sarebbe la verità? Illuminami genio! – lo schernii crudelmente, accompagnando le mie parole con una meschina risata

- Non sei neanche in grado di vederla? Oppure preferisci nasconderla, fare finta di niente per non sentirti troppo in colpa? – urlò, sporgendosi in avanti e mostrandomi così il suo bel volto scomposto dall’ira. Nuovamente prese a muoversi nella speranza di liberarsi, missione in cui fallì miseramente per la seconda volta, invischiando il suo animo anche con una profonda frustrazione.

- Che diavolo stai farneticando? -

- Oh, ma certo: tu hai perso la memoria. Non ricordi più nulla del giorno in cui se ne andò nostro padre? O forse la tua amnesia è solo un altro dei tuoi stupidi trucchetti per tirarti fuori da situazioni sgradevoli? -.

Lo fissai aggrottando le sopraciglia e tentando di dare un senso alle sue parole: cosa poteva centrare tutto quello con il giorno in cui quel fottuto bastardo aveva lasciato casa nostra?

La mia memoria indagò nei meandri perduti del mio passato, di cui molti pezzi erano andati dispersi e, forse, non sarebbero stati più ritrovati. Cercò quel giorno, presentandomelo in insieme di frammenti che passavano nella mia testa come un film montato male. Un film che sembrava saltare appositamente le scene madri.

Inconsciamente allentai la presa attorno ai polsi del mio prigioniero, il quale approfittò della mia distrazione per liberarsi.

Ora non era più bloccato dalla mia morsa: poteva senza tirarmi un pugno, senza alcun problema, e non me ne sarei nemmeno accorto, talmente ero assorto nel sforzare al massimo la mia memoria frammentaria. Poteva allontanarmi, cacciarmi in malomodo dalla sua stanza e intimarmi di non metterci mai più piede.

Poteva…ma lui non fece nulla di tutto questo.

Stette in silenzio, sdraiato sotto di me, guardandomi mentre gli sputavo addosso una scarica di domande a cui avevo bisogno di trovare una risposta. Domande che lui stesso aveva immesso nella mia testa.

- Che centra il giorno in cui quell’infame ci ha lasciato? Cosa centra con noi? Perché è anche la causa di tutta questa maledetta situazione? – la mia voce giungeva alle mie orecchie sempre più roca e spezzata, dandomi segno che ero ormai vicino al pianto, nonostante il mio orgoglio m’impedisse in ogni modo di non versare lacrime davanti al mio con sanguigno

- Che centra con il fatto che non ci odia…- non ebbi la possibilità di terminare quell’ultima domanda. Le mie grida s’erano fermate contro le sue labbra, che delicate s’erano appoggiate alle mie lasciandomi ammutolito.

“Mio fratello mi sta baciando” pensai distrattamente, distaccato quasi come se la cosa non mi riguardasse.

Fu l’unica cosa che riuscì a comporsi nel mio cervello, dopodiché i neuroni parvero scioperare in gruppo, senza chiedermi alcuna autorizzazione, oltretutto. Dovevo sembrare davvero un fantoccio, non fosse stato per il cuore che mi batteva come un tamburo nel petto e per i brividi che, per qualche inspiegabile motivo, continuavano a scivolare sulla mia schiena. Brividi caldi che annodavano il mio stomaco in una morsa della stessa bollente temperature. Scosse di sensazione che si diffondevano in me con cerchi concentrici, raggiungendo ogni angolo del mio essere.

Ricordo addirittura di aver realizzato, nella mia testa messa momentaneamente in standby, che nessuna mai mi aveva fatto provare una tale scarica di emozioni con un solo bacio. Però, qui non si parlava di una ragazza qualunque: qua si parlava di mio fratello, per la miseria!

So bene cosa sta passando per le vostre menti, ora: mi vedete già con la mano alzata, pronto a dargli un ceffone che in breve arriverà ad inferire sulla pelle già marchiata. Immaginate chiaramente il mio corpo alzarsi dal suo e i miei occhi lanciargli tutto il mio disprezzo, mentre me ne torno in camera mia, magari maledicendo tutto il mondo e l’universo. Mi dispiace per voi, ma avete toppato alla grande!

Ciò che feci fu esattamente l’opposto! E non chiedetemi le motivazioni, perché neanch’io riesco ancora a trovarle. So solo che le sue labbra diventarono la mia unica fissazione, che il suo respiro affannoso mischiato con il mio era diventata l’unica musica che avrei voluto ascoltare, che il suo volto diventò l’unica immagine che occupava i miei occhi.

Dopo lo shock iniziale, mi lasciai travolgere da quel bacio, assecondando tutti i movimenti di Michael.

Mi stupisco tutt’ora nel pensare che fui proprio io a chiedere di più, a far diventare quell’effusione più profonda ed intima. Feci scorrere la mia lingua sulle sue labbra, intanto che lui si stendeva completamente sul materasso portandomi dolcemente con se in quel mondo dove la razionalità sembrava sconosciuta.

Un gemito e poi il varco in quel luogo a me proibito da ogni cultura, civiltà, religione. Ma in quel momento nulla di tutto questo occupava i miei pensieri: solo lui, steso sotto di me, che sussurrava frasi sconnesse dal piacere e dal desiderio. Le sue dita gelide strette sulla pelle bollente della mia schiena, il suo corpo sottile che si contorceva sotto i miei baci, la sua voce ansimante: volevo tutto di lui. Cieco, desideroso solo di soddisfare i miei desideri, di riuscire a fargli toccare il nirvana del piacere, di possederlo. Lui, mio fratello…

E’ così semplice dirlo ora, lontano da quel momento in cui la ragione non aveva trovato posto. O forse ero semplicemente io a rinnegarla, poiché ero schiavo soltanto dei miei sensi e del miei istinti, perso in quel tunnel di lussuria in cui Michael mi stava dolcemente trasportando. Un tunnel che sembrava l’unica strada possibile in quella notte bagnata dalla pioggia, in quella notte in cui la luna giocava a nascondino con nuvole piene di lacrime, in quella notte in cui lo feci mio…

- Steve…-

…per sempre…

 

 

Free Talk

Salve a tutti ^^ Bene, dopo un lungo silenzio (causato dai capricci del mio caro pc -.-) torno con il secondo capitolo di questa storia ^^ Vi chiedo perdono per la scena finale: è davvero pessima, ma io non ci so proprio fare con queste cose ^^’’’ (e una domanda comune acquista voce: perché cavolo le scrivi, eh??? NdWhite). Ringrazio cicciachan e effy&ale che hanno avuto cuore di commentare questo mio piccolo schizzo di mente ^^  Alla prossima

 

 

 

  
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