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Autore: Hoel    23/05/2010    14 recensioni
"Koukou tout le monde …
Si può?
Mi chiamo Camus (come il grande Albert !) Molinier e sì lo so, mostruosa allitterazione della “m”, tanto da valermi sia a casa, che a scuola il nomignolo di “Momus” con mio sommo chagrin, anche perché sembra più un appellativo da gatto, che da essere umano, non vi pare?
Ho diciassette anni e mezzo, quasi diciotto, e quest’anno sto felicemente veleggiando verso il sospirato bac littérature, [...] Bien, credo che possiamo incominciare, no? Spero di non avervi annoiato con questa mini presentazione del sottoscritto, ma sapete, espediente narrativo, giusto per chiarire che sì, sarò io a raccontarvi questo doloroso dramma."
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Per ogni studente francese che si rispetti, il bac o bacalauréat è sinonimo di libertà, verso la vie folle degli universitari. L'unico problema è arrivarci, ché la strada è lunga e perigliosa; specie, se ci si mette di mezzo la famiglia, con dei fratelli a dir poco ... inaspettati!
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Aquarius Camus, Gemini Kanon, Gemini Saga, Leo Aiolia, Scorpion Milo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Salve a tutti!

In un momento di malinconia post-studio, stavo ripensando allo stage che feci in un liceo francese a Mont-de-Marsan in quinta. Così, volendo scrivere una fic che non fosse né gotica, né storica, ho richiamato a raccolta i miei ricordi di tale esperienza e voilà, che la fic è nata!

Prima d’incominciare, però una breve lezione di civiltà francese e non provate a saltarla (a meno che non la conosciate in anticipo), ché altrimenti, certi dettagli nella storia vi lasceranno alquanto interdetti.

La scuola. In Francia, la scuola è organizzata diversamente dall’Italia. È composta da: l’école maternelle, dai 3 ai 6 anni d’età; poi, l’école élémentaire, dai 6 agli 11 anni; le collège, dagli 11 ai 15 anni e le lycée, dai 15 ai 18 e si divide in liceo generale o tecnologico oppure liceo professionale. In ogni modo, alla fine dei tre anni di liceo, si prende il bac o il bacalauréat, che equivale all’italiana maturità.  Gli anni vengono contati all’incontrario, come una sorta di countdown alla maturità: s’incomincia con la sesta collegio, che corrisponde alla nostra prima media, per arrivare alla terza collegio, per il diploma di brevetto. Dopodiché, segue la seconda liceo, la prima liceo ed infine la “terminale”, per noi la quinta superiore e via alla volta del bac e, forse, dell’università! Inoltre, mentre in Italia ci sono i licei specializzati (es. liceo classico, scientifico, linguistico, …) in Francia vi è un solo istituto, che racchiude tutte le materie e sta allo studente comporsi il corso, un po’ come all’università. Per questo, in Francia non ci sono delle vere e proprio classi definite, ma gruppi di persone con la materia in comune. Infine, non è il professore a venire in classe, bensì sono gli studenti che si spostano di aula in aula e credetemi, i primi giorni sono una disperazione.

 

Studenti e residenza. La maggior parte della popolazione francese si concentra nelle grandi città, come Parigi, Lione, Marsiglia, etc. mentre il resto della Francia è piuttosto disabitato: Mont-de-Marsan, capoluogo delle Landes, vanta di una popolazione di 31.700 abitanti! E non è una provincia, è capoluogo! Quanto alla campagna delle Landes (nella regione dell’Aquitania) essa è uno spettacolo agli occhi: boschi, boschi e boschi, senza costruzioni o città per kilometri interi! Ogni tanto s’intravede un paesetto, composto dalla chiesa, il municipio e qualche casetta e la graziosissima “scuola di campagna”, dove tutti i bambini della zona imparano le loro prime lezioni, sotto la guida di un unico maestro e spesso gli allievi hanno età differenti! I collegi (le nostre medie) e i licei si trovano nelle città più grandi del dipartimento. Siccome, però molti studenti abitano lontano dalla scuola, arrivando anche a 60 km di distanza, certi istituti mettono a disposizione dei dormitori apposta per i più disagiati. Il coprifuoco per entrare o uscire dai dormitori è in genere alle 18, mentre all’interno del dormitorio alle 23. La colazione va dalle 7.30 alle 8.30. N.B. Questa è almeno la tabella di marcia della scuola, che ho frequentato per il periodo dello stage, poi può variare a seconda dei vari dipartimenti.

 

Nomi. I nomi degli edifici  e dei luoghi nel corso della fic sono tutti veri. Invece, i nomi dei personaggi sono di fantasia, come del resto i fatti narrati.

 

La lingua. Generalmente, mi piace essere accurata nelle mie fic, per quanto riguarda lo scenario, concedendomi, qualche volta, piccole licenze a fine narrativo. Quindi, ogni tanto inserirò delle espressioni in francese, anche imprecazioni, per aiutare i miei lettori ad entrare nell’ambiente! Ma non vi angustiate, le traduco! Intanto, ecco del lessico base sulla famiglia nel linguaggio gergale: Maman = Mamma; Mamie = nonna; Papa = papà; Papie = nonno.

Bien, mi sembra tutto. Che dire? Buona lettura e divertitevi!

H.

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Koukou tout le monde …

Si può?

Mi chiamo Camus (come il grande Albert !) Molinier e sì lo so, mostruosa allitterazione della “m”, tanto da valermi sia a casa, che a scuola il nomignolo di “Momus” [1] con mio sommo chagrin, anche perché sembra più un appellativo da gatto, che da essere umano, non vi pare?

Ho diciassette anni e mezzo, quasi diciotto, e quest’anno sto felicemente veleggiando verso il sospirato bac littérature, che segnerà la fine della mia condanna ai sette anni di carcere duro, che ho scontato al Collège d’Etat et Lycée Victor Duruy di Mont-de-Marsan.  Poi, conto di proseguire gli studi o a Bordeaux o anche a Parigi, tutto dipenderà dai risultati.  Ammetto, però, che un poco mi dispiace di lasciare il liceo, specie Shaka Kumar, il mio migliore amico … ehm … unico … ehm … insomma, avete capito, e compagno di dormitorio, dato che tutti e due, come mezza scuola del resto, abitiamo a più di 30 km dalla città, tornando a casa giusto per il fine settimana.

Mi sono trovato davvero bene con lui, non mi posso proprio lamentare: tranquillo, posato, serio, come me! (Questo è linguaggio formale, quello gergale prevedrebbe lessico quale “ameba”, “sfigato” e altri relativi a preferenze sessuali viranti allo stesso sesso). Ma chissenefrega, dico io, è pur sempre un mio amico!

 E mi sarebbe molto mancato.

Uhm … che aggiungere … mi piace molto leggere, qualche volta disegnare, adoro il cinema e il teatro, suono il pianoforte … mah, basta temo. Eh, non ho mai avuto una vita avventurosa.

Fino a quel maledetto Halloween (Sembra un po’ il titolo di un film dell’orrore, il che, sotto certi aspetti, può anche essere …)

Bien, credo che possiamo incominciare, no? Spero di non avervi annoiato con questa mini presentazione del sottoscritto, ma sapete, espediente narrativo, giusto per chiarire che sì, sarò io a raccontarvi questo doloroso dramma.

 

Era, come sopra citato, il 31 ottobre del mio ultimo anno di liceo e per essere più precisi, l’ultima ora prima della pausa pranzo, quella d’inglese, una noia pazzesca, ve lo giuro! Non fraintendetemi: la lingua era di mio gusto, ma non la lettrice! Sempre gli stessi esercizi, gli stessi psico – dibattiti, stessi video, stessi articoli di giornale … l’educazione … la criminalità … l’alimentazione … internet e le nuove tecnologie …

Uf! Roba vecchia, fritta, rifritta e strafritta! Bleah!

Pertanto non c’era da stupirsi, se passai tutta la prima mezz’ora a fissare trasognato l’orologio sopra la lavagna, la matita irrimediabilmente rosicchiata e sbavata, con somma gioia dei miei molari. Inoltre, il fattore fra meno di quattro ore sei libero e pronto a goderti in santa pace un ponte di quattro giorni non facilitava certo la concentrazione, eh!

La lettrice, notando il torpore generale della classe, decise di smuoverci un po’ con un bel dibattito a due, ovvero: ti siedi con un compagno e fai finta di discutere sull’argomento appena presentato, compilando poi le domande di comprensione sotto lo pseudo articolo di giornale. Siccome, però, Ms. Power non era esattamente nata ieri, sapeva troppo bene, che noi afferravamo l’occasione per cicalare dei cavoli nostri, quindi, per pura soddisfazione dei suoi istinti sadici, formava lei stessa le coppie e io, alas, sapevo già con chi mi avrebbe messo: con quel dannato di Milo Valavitis, l’essere più odioso di Mont-de-Marsan e forse di tutto il creato.

Per questo, la lettrice mi era talmente antipatica: mi costringeva a sopportare la sua presenza! Come se non mi bastasse già l’ora di educazione fisica! Per fortuna, lui seguiva il bac économique e quindi ci vedevamo solo a ginnastica e inglese, ma era sufficiente, maledizione, sufficiente per rovinarmi la giornata!

Vidi Ms. Power avvicinarglisi e, dal leggero fremito delle sue spalle (per la cronaca: a inglese siedo sempre all’ultimo banco), osservai che neppure Valavitis era troppo entusiasta di lavorare in coppia con me.

Per l’ennesima volta in tre anni di liceo.

E il tonfo del suo libro e del suo quaderno degli appunti sul mio banco e la malagrazia con la quale si sedette accanto a me confermarono il suo malumore.

“Ciao”, abbozzai cortesemente un saluto, facendo spazio al suo materiale di lavoro, ignorando lo sguardo assassino, che Valavitis mi lanciò. E quella mattina dovetti essere un po’ su di giri, perché mi azzardai pure a domandargli, intanto che la lettrice era occupata altrove: “Allora, dove vai per il ponte?”

Milo smise di scrivere e il modo estremamente lento, con il quale appoggiò la matita, doveva già mettermi in allarme, per aver troppo osato. “Senti, Ionesco, oggi sono di buonumore; quindi, vedi di chiudere quella boccaccia e rispondi in silenzio alle domande!” e ritornò, con mio sollievo, al suo lavoro interrotto.

Stai zitto? Ma se non fiatavo mai! Oh beh, non con lui almeno. Se c’era una cosa, che avevo imparato in sette anni di collegio e liceo era che non mi conveniva attaccar briga con lui, anche perché finiva sempre male.

Per me.

Definire Valavitis il mio personale bullo sarebbe esagerato, visto che lui mi evitava come se fossi un lebbroso. Certo, le due sottili cicatrici, che avevo sotto il mento, erano un suo ricordino, ma temo di essermele infondo meritate: all’ultimo anno di collegio, preso da un raptus vendicativo, in seguito al suo ennesimo sgradito insulto, m’infiltrai di nascosto nel suo dormitorio e gli tagliai i biondi capelli.  Sinceramente, non comprendo, come lui abbia subito capito, chi fosse stato il parrucchiere pazzo; fatto sta, che il giorno dopo, mentre mi lavavo nel bagno comune i denti, mi riempì di un sì gran numero di sberle, che quasi svenni, anzi, forse lo feci pure, sbattendo conseguentemente il mento sul lavandino, tagliandomelo. Risultato: due punti belli, belli.

Insomma, entrambi avevamo stabilito, in un reciproco patto silenzioso, di non frequentarci assolutamente, di farci i  fattacci nostri; eppure, nelle dannate ore di ginnastica e inglese, il sottoscritto riusciva sempre a innervosirlo, scatenandolo, sia verbalmente, che, più raro, fisicamente. Per questo, seguivo con ardore la regola “Stai zitto!”, nonostante, lo ammetto, la cosa non mi risultasse più di tanto difficile: sono piuttosto silenzioso di natura e diversamente abile nel socializzare con i miei coetanei.

Ancora mi chiedo, come riuscii a farmi amico Shaka. Forse perché condividiamo da sette anni la stessa stanza? Uhm …

Il ruggito del mio stomaco interruppe la presunta quiete tra me e il greco (in realtà era mezzo greco, mezzo francese, ma non dilunghiamoci nei dettagli), causando in quest’ultimo un divertito sbuffo, al quale, piccato risposi: “Soffri di flatulenze croniche, Valavitis?” , non rendendomi conto, di aver violato il limite di conversazione approvata dal Trattato di Convivenza Scolastica.

“E tu? Di diarrea?”, ribatté, senza neppure degnarmi di uno sguardo, che pareva ben incollato sull’articolo di giornale.

“Non ho fatto colazione”, spiegai, anche se sapevo, che non gliene sarebbe importato più di tanto. Invece, con mia sorpresa, Milo si voltò, fissandomi dritto negli occhi. “Ah ouais?”, disse, giocherellando con la matita. “Well, you shouldn’t do so: you’ve to remember, that breakfast is the most important meal of the day, do you know that?”  e solo in quel momento, alzando lo sguardo oltre al suo viso, capii che il repentino cambiamento di lingua era dovuto all’improvvisa comparsa della lettrice alle nostre spalle.

Ms. Power fece un cenno d’assenso con il capo, scribacchiò qualcosa sul registro e proseguì nella sua ronda. Da quel momento in poi, il mio “compagno” non mi rivolse più la parola fino al suono della campanella, ovvero il leitmotiv dell’Esorcista. Balzando quasi in piedi, Valavitis raccolse in fretta  e furia le sue cose, scappando via da me, neanche avessi la peste addosso, per unirsi al suo gruppetto d’amici.

Sospirai di sollievo: almeno ero sopravvissuto alla lezione d’inglese. Mi restava quella di ginnastica, alle ultime due ore, e poi non lo avrei più rivisto per quattro gloriosi giorni!

Dopo aver riordinato il mio banco, mi caricai sulla spalla la mia borsa a tracolla, dirigendomi verso la cantine – la mensa- calcolando mentalmente i punti rimastimi per mangiare: come al solito, Maman si era dimenticata di darmi i soldi per ricaricarmi la carta per la mensa, nonostante l’avessi tampinata per quasi una settimana. Quanto alla nonna, lei era più taccagna di uno scozzese, non le avrei spillato un soldo, neppure svenandomi sotto i suoi occhi.

Uhm, pensai, leggendo con attenzione il menù, con quaranta punti, che mangio?

Solo lo spezzatino, miseria ladra!, appurai avvilito, visto che, in generale, la carne non era la mia passione. Tuttavia, le appassionate proteste del mio stomaco affamato mi persuasero a prenderlo lo stesso, intanto che mi appuntavo mentalmente di chiedere i soldi a Maman per i nuovi punti, pena una settimana intera a digiuno.

Con il mio bottino, mi diressi verso il tavolo dov’era seduto Shaka, il primo che si era sbrogliato dalla coda infinita per la mensa, individuandolo grazie all’ampio gesto del suo braccio. E seguendo quest’ultimo come una falena attirata dalla luce, non mi accorsi della scritta “pavimento bagnato” proprio davanti a me. Quando ne presi coscienza, era ormai troppo tardi: il mio piede destro scivolò troppo in avanti, sbilanciandomi; cercai di buttare il peso indietro, invece, compromisi ulteriormente il mio già precario equilibrio, finendo vergognosamente per terra, con le risate dei ragazzi come sottofondo, presso il cui tavolo avevo avuto la brillante idea di ruzzolare.

Che bello, avevo pure fornito loro uno spettacolino per favorire la digestione!

Intanto, però, la mia andava a farsi friggere, visto che trequarti dello spezzatino mi era finito addosso. Bene, mi affidai al piano B come Battersela quatto, quatto e mangiare veloci il quarto salvato, per poi svanire nel dormitorio. Dopo questa figuraccia, dubitavo di avere il coraggio necessario per presentarmi a educazione fisica.

Fui bruscamente distratto dalla progettazione della mia brillante strategia da una ferrea presa al coppino, che mi aiutò, per così dire, a rimettermi in piedi, senza però lasciarmi libero.

“Tu”, sibilò Shura Martìn, grande amico del Demonio (a.k.a Milo Valavitis), gli occhi neri furenti e bramosi del mio scalpo. Non ci voleva un genio per capire, che gli stavo sul gozzo a priori, come a mezzo istituto del resto.  “Mi hai sporcato la maglia nuova, piccolo …” e censuriamo. Rapido, portai i miei occhi sull’indumento oltraggiato e mi venne quasi da ridere alla vista della singola macchia al suo bordo: si lamentava solo per quella facezia? E che dovevo dire io, che avevo lo spezzatino spalmato fin sopra ai capelli?

“Dai, Martìn”, lo blandì Shaka, venendomi in soccorso. “É solo del sugo: gli dai la maglia  e Molinier te la riporta pulita lunedì! Non farci una tragedia!”, disse, cercando di sfilarmi dalle tenaglie, che lo spagnolo aveva al posto delle mani, senza però alcun successo: a quanto pareva, Martìn ci teneva a trasformare il sottoscritto stesso in uno spezzatino.

Una terza mano si aggiunse sul già esistente groviglio formatosi sul mio povero coppino martoriato e fu quella più persuasiva. “Giusto, Shura, ascolta Krishna!”, gli consigliò Milo, alle sue spalle, la voce grondante di sarcasmo fino alla nausea.

Shaka strinse gli occhi, punto sul vivo. “Non sono induista, Valavitis!”, soffiò pericoloso, pronto alla rissa. Che la facessero pure, niente in contrario, ma che prima mi lasciassero andare, ché mi sentivo leggermente soffocare dalla stretta del collo della mia felpa.

Il greco alzò le spalle, ineffabile e sordo al commento del mio compagno di stanza. “Come vuoi. Comunque Shura, lascialo perdere: è inutile prendersela con questo sgorbio, non merita tale onore!”

Prendersi una caterva di botte equivaleva per me a un onore?!? Ma brutto …!

In ogni modo, lo spagnolo mollò la presa e ne approfittai per fare un balzo di sicurezza, onde allontanarmi dal suo raggio d’azione, nel caso in cui il Demonio dicesse: “Nah, stavo scherzando: pestalo fino a fargli perdere i sensi!”

Invece, ottenni questo suo gentilissimo consiglio: “Quanto a te, Ionesco, va’ a cambiarti indumenti e fatti una bella doccia: non vorrai ucciderci tutti a fisica con quel tanfo di spezzatino, spero? Oppure è una tua strategia, per non venir placcato nelle partite di rugby?” e mi rivolse il più velenoso dei suoi – con me - rari sorrisi, provocandomi un brutto cortocircuito mentale, dovuto alla rabbia per l’umiliazione subita dinanzi a tutta la mensa.

E feci la cazzata del secolo.

“Allora saremo in due, stronzo!”, gli urlai, afferrando il piatto di spezzatino con violenza, lanciandogli addosso in pieno viso la pietanza rimastavi.  Per un folle istante, gustai euforico quella mia piccola vittoria su di lui, gioendo alla vista del sugo colargli dal mento in una lenta e vischiosa cascata.

Ma quando l’effetto fallace dell’endorfina terminò, esso venne sostituito dal crampo doloroso della paura: Oddio, che avevo combinato?

Che avevo fatto?

Che avevo fattooooooo?

Nessuno di noi osò fiatare, né proferire parola, l’aria densa dell’elettricità pre- rissa apocalittica e in quel momento, la prospettiva di non ritornare a casa sulle mie gambe si delineava sempre più nettamente. Che diavolo mi era preso? Per quanto detestabile, Valavitis mi aveva sottratto dallo spirito vendicativo di Martìn! (E non era cosa da poco). Quanto a quella battuta, beh, da parte sua ne avevo sopportate di ben più crudeli! Insomma, perché fui così idiota da schiaffargli in faccia lo spezzatino?

Fortunatamente, Aiolia, il fratello minore del Demonio, s’intromise tra noi due e cinse il maggiore per le spalle, allontanandolo da me per precauzione, non essendo, infatti, sfuggito al ragazzo lo sguardo carnefice dei suoi occhi. “Milo, andiamo … non te la prendere …”, gli sussurrò, facendomi cenno con la testa di filarmela e anche alla svelta.

Lentamente, Valavitis levò le mani del fratello dalle sue spalle, pulendosi con il dorso della mano il sugo, che, inspiegabilmente, si mise a leccare, mentre un feroce sogghigno gli deturpava il volto. “Solo uno sfigato come te può mangiare questa merda!”, dichiarò, dirigendosi verso l’uscita della mensa, per la volta dei dormitori, ma intuii che me l’avrebbe fatta in ogni modo pagare, almeno a detta delle nocche bianche dei suoi pugni serrati.

“Stai zitto, Momus, non dire una parola …”, mi mormorò Shaka all’orecchio, conducendo un me stesso stordito verso il bagno, abbaiando dietro a chiunque avesse strane domande da porgerci.

***

 

Ad educazione fisica, fui fissato, se non con odio, almeno con grande pericolosità: mi ero azzardato a toccare la loro Vacca Sacra e ora pretendevano il sacrificio espiatorio per riparare a tale sacrilegio. E indovinate un poco chi era l’agnello designato?

Nessun’idea?

No?

A nulla valsero le mie scuse con il professore, per persuaderlo a non farmi giocare l’ultima mezz’ora a rugby: l’aura vendicativa dei miei compagni non m’ispirava nulla di buono. E di fatti, in un passaggio durante la partita, nonostante mi fossi liberato della palla, cedendola a un mio compagno, mi ritrovai seppellito vivo sotto un’ammucchiata non da poco.

E di nuovo, toccò a quella Bernadette di Shaka di riacchiapparmi, portandomi traballante in infermeria, dove mi venne diagnosticato un bello slogamento del polso: yu-hu! Così non potevo suonare neppure il pianoforte! Che bello! (Volevo essere sarcastico, eh!)

Tuttavia, anche nelle miserie delle vicende umane vi erano dei lati positivi: con la scusa del polso fuori gioco, potevo starmene per mezz’ora in santissima pace, sdraiato sul lettino, lontano da chicchessia. E solo in quel momento, cullato dal confortante silenzio, mi accorsi che Valavitis non era presente alla lezione. Che l’avesse bruciata?

Non che me ne importasse qualcosa, però, sapete, saperlo nei casini …

“Sei uno stronzo, Milo!”, sentii d’improvviso una voce femminile gridare, facendomi trasalire violentemente, anche perché la nuova arrivata sbatté la porta dell’infermeria con veemenza.

Vero, tutto vero, confermo: stronzo al duecento per cento!

“Shaina, è l’ennesima volta che me lo ripeti: ho capito, sai?”, fu la secca replica del ragazzo, dal cui tono della voce pareva quasi annoiato dallo sfogo di quella che immaginai essere la sua gonzesse. “E smettila accidenti di tampinarmi così, tanto le tue sono solo paranoie: non vedo nessun’altra!”, sbottò, sedendosi pesantemente sul letto accanto al mio: fortuna, che c’erano le tendine, sennò …

Comunque, realizzai che dovevo assolutamente andare via di lì; l’ultima cosa, che mi mancava, era che si accorgessero che stavo – contro la mia volontà- assistendo a quella drammatica crisi di coppia.

“Come? Paranoie? Ma se lo sa tutto l’istituto, che mi decori a testa!”

“Ha! E tu credi a tutto quello che ti dicono gli altri? Ti facevo più giudiziosa, mi deludi!”

“E io ti pensavo meno cinico, meno bastardo! Sei più velenoso di uno scorpione, bon sang! Non hanno significato nulla per te i due anni che siamo stati assieme?”

Silenzio.

“No, assolutamente nulla.”

Di nuovo silenzio.

“Allora è vero, che c’è un’altra! Tu mi tradisci!”, si sfogò la giovane, la voce incrinata di qualche ottava.

La risata gutturale di Milo riecheggiò nella stanza e provai un sentimento di pietà per quella povera Shaina: parola di esperto, quando il Demonio sghignazzava così, voleva dire che ti stava preparando il colpo di grazia. Sperai per lei, che avesse il cuore forte.

“Sei proprio dura di comprendonio, eh? No, non c’è un’altra persona …”, esordì lentamente, quasi divertito dalla penosa situazione “… almeno, non fisicamente, intendo.”

“Significa che … che pensavi a … a … mentre noi eravamo …”, udii boccheggiare sconcertata la giovane, il cui respiro irregolare preannunciava una prossima crisi di pianto. Ma come faceva quel disgraziato ad essere così menefreghista nei confronti di ogni esponente del genere umano, specie se si trattava della sua ragazza? Cornuta e pure umiliata? Proprio non lo capivo!

“Sì. Siccome pare che oggi siamo in vena di confessioni, ti rivelerò il vero motivo, per il quale ho accettato di mettermi con te. Sai, in seconda c’era, anzi, c’è tuttora una persona che m’interessa, solo che io gli stavo piuttosto indifferente e non sai quanto la cosa, all’epoca, mi avesse fatto arrabbiare, peggio di una iena.  Quand’ecco che arrivasti tu, attaccandoti a me, neanche fossi una patella. Ho quindi pensato: “Perché no? Magari dimentico questa persona!” Invece, più il tempo passava, più l’attrazione per lei aumentava a dismisura.”

“Per te, non sono quindi stata né più né meno, che una sostituta?”

“Se vuoi essere così brutale, sì. E ti ringrazio, inoltre, per questa tua scenata di gelosia: mi hai dato la perfetta scusante per rompere questa relazione a entrambi ingombrante. Inoltre, sono ormai risolto a fare mia questa persona …”, disse e giurai d’aver percepito una nota di dolcezza nella sua voce, di solito arrogante e cinica.

“Posso almeno sapere, chi è lei?”, sentii Shaina vibrare di collera.

“No. Lo scoprirai, quando ci vedrai assieme …”

Sciaff!, fu la replica, che interruppe bruscamente Milo.

Uh, lo aveva davvero schiaffeggiato? E ben gli stava! Però, perché allora lui continuava a ridere di gusto?

“Va bene, te la concedo. Ma non provare a giocare alla sedotta e abbandonata: tanto lo so, sai, di quel Seiya, che lavora al bistrò in centro …”, affermò malizioso e mi stupii parecchio nell’appurare, che quel che aveva dichiarato doveva essere pure vero, visto che la ragazza uscì imprecando furiosa, sbattendo di nuovo la porta.

 Dopo un lungo sospiro, se di sollievo o di tristezza non avrei saputo dirlo con precisione, Milo la imitò, allontanandosi quieto dall’infermeria.

 

***

Finalmente la giornata più stressante della mia carriera scolastica era finita e senza altri spiacevoli incidenti: suonata la campanella liberatrice, mi recai rapido nella mia stanza, dove raccolsi la mia valigia, pronto per andarmene via da quel che percepivo ormai come un manicomio. Salutai Shaka e mi diressi a passo spedito verso il parcheggio all’entrata del parco, dove mia nonna Séraphine mi veniva a prendere con la macchina.

E come al solito, rimasi ad aspettarla per un’ora esatta, peggio di un pirla. Da piccolo, ci stavo male, sapete, crisi d’abbandono e robe varie, ora, al contrario, la cosa mi lasciava del tutto indifferente: mi sedevo in una panchina al parco e la attendevo buono buono, magari con un libro in mano, giusto per distrarmi dalla noia. Quel pomeriggio non fu da meno e mi recai verso il mio posticino, sperando che la nonna arrivasse presto, dato che il mio stomaco, vuoto sia della colazione che del pranzo, ruggiva impazzito.

Ero talmente immerso nei miei pensieri alimentari, da non riconoscere immediatamente la persona, vicino alla quale mi ero seduto accanto. E quando scoprii la sua identità, ebbi quasi un arresto cardiaco.

“Non attorcigliarti come un Bretzel, Ionesco; non ho fame, quindi per stavolta non ti mangerò!”, fu il saluto di Milo nei miei confronti.

Vuol dire, che se ne ha, quello squilibrato mi divora sul serio?

Levandosi le cuffie dell’Ipod, il greco mi sorrise famelico, divertito dal mio balzo quasi istintivo. “Che c’è, petit chaperon rouge? Ti faccio paura?”, mi provocò, accennando alla mia gamba tesa oltre la panchina,  pronta per partire.

“No, Valavitis, non ho paura di te”, dichiarai con sicurezza, nonostante mi stessi inconsciamente allontanando da lui, giusto per sicurezza.

Continuando a sorridermi, il ragazzo affermò sarcastico: “Ne sono contento, Ionesco” e potevo mettere la mano sul fuoco, che il suo cervello all’incontrario si stava preparando al prossimo tiro birbone, che stranamente, non avvenne, anzi, Valavitis si ritirò nel suo silenzio, lo sguardo rivolto altrove.

“Tuo fratello?”, chiesi, accorgendomi ad un tratto dell’assenza di Aiolia, il che mi parve bizzarro, giacché i due erano più legati di Bonnie e Clyde.

“Agli allenamenti di rugby”, fu la sua laconica risposta, sempre senza mai guardarmi in faccia. Che ce l’avessi così brutta?

“E tu che fai?” e omisi qui, anticipandolo nella sua possibile replica, ovvero che il parco non era di mia proprietà, bla, bla …

Scrollando le spalle, Milo rispose senza entusiasmo: “I cavoli miei!” e, girandosi finalmente dalla mia parte, aggiunse: “Mentre qui, qualcuno di mia conoscenza non se li sta facendo!”

“Mi stai dando dell’impiccione?”

“Tu l’hai detto, non io.”

All’udire simile sentenza, vidi di nuovo rosso e commisi, nell’arco di neppure ventiquattr’ore, la seconda cazzata del secolo. “Abbassa la cresta Valavitis”, sbottai, alzando, invece, la mia “tentavo solo d’intraprendere con te una conversazione civile! Eppoi, hai un bel fegato a fare ancora il figo, dopo essere stato prima scaricato, poi schiaffeggiato dalla tua ex! Per non parlare di quella intelligentissima ragazza, che ti rifiuta da ben due anni, sfigato!”

Milo si voltò di scatto verso di me, gli occhi azzurri ridotti a due bracieri fumanti e dilatati come quelli di un lemure. “Hai origliato, non è così? Hai sentito tutto, non è vero?”, sibilò dolcemente, come un serpente a sonagli.

“N- no”, balbettai, arrivando a negare perfino l’evidenza: gli avevo riassunto alla perfezione il suo dialogo con Shaina! Ma perché non riuscivo mai a tenere la bocca chiusa con lui?

“Sì, abbiamo rotto e allora? Ce ne sono tante, per il mondo! Ma cosa ne può capire un verginello come te, le cui uniche mani che ti abbiano mai sfiorato erano quelle di tua madre? O” e le sue iridi ceruli brillarono di crudele malizia “il tuo  professore di pianoforte ha messo le mani altrove, oltre che sulla tastiera?”, insinuò, conoscendo il bastardo la mia innocente cotta per il mio maestro di musica, quand’ero ancora in quinta collegio. Era ormai acqua passata, non mi arrovellavo più il cervello con sospiri e struggimenti vari, però non tolleravo lo stesso che questo mio primo “amore” venisse sì volgarmente dileggiato, in particolar modo da un figlio di buona donna come Milo Valavitis.

E che diamine, anch’io avevo il mio onore!

“Zitto, patacca pervertita!”, gli gridai, levando la mano, pronto a scardarmela sulla sua guancia. Tuttavia, il greco fu più rapido di me e, in neppure un battito di ciglia, ritrovai il mio povero polso fasciato alla mercé delle chele di Valavitis, il quale pensò bene di stringermelo lievemente, causandomi una piccola fitta di dolore.

“Non t’azzardare, sai? Da te proprio non l’accetto, sarebbe troppo umiliante!”, soffiò costringendomi in piedi di malagrazia, senza però abbandonare la presa al mio polso. “Com’è che oggi ci siamo presi tutte queste libertà nei miei confronti, Camus?”

Sbiancai: l’ultima volta, che Milo aveva pronunciato il mio vero nome, mi ero ritrovato due punti sotto il mento; infatti, per abitudine, il ragazzo non mi chiamava mai “Camus”, preferendo, al contrario, il suo personale nomignolo, “Ionesco”, in quanto entrambi scrittori dell’Assurdo.

“Stamattina a inglese, mi hai tartassato di domande, deconcentrandomi dal mio lavoro;  poi a mezzogiorno, nonostante abbia salvato la tua ingrata pellaccia dagli artigli di Shura, mi sporchi di spezzatino; al pomeriggio, origli spudoratamente conversazioni private e ora, dopo avermi insultato, pretenderesti pure di schiaffeggiarmi? Non scherziamo!”, continuò velenoso, spingendomi all’indietro, la stretta al polso sempre più forte. “Sembra quasi che tu lo faccia apposta ad attaccar briga con me; non è che, per caso, ti piaccio?”, mi schernì crudelmente e la fitta di dolore crebbe a dismisura, fino ad inumidirmi gli occhi. Tuttavia, serrai caparbio le labbra, rifiutandomi di piangere di fronte a lui e, sputandogli in faccia, gli ritornai con gli interessi il suo stesso veleno:

“Solo un gran coglione masochista potrebbe provare  dell’interesse per te, figurarsi dell’affetto! L’unica cosa che m’ispiri è un enorme disgusto e la tua presenza mi ripugna altamente!”, furono le mie ultime parole e il mondo divenne all’improvviso nero.

Non saprei dire se la causa fosse stata il mio sfogo molto poco ortodosso o il mio sputo; in ogni modo, quando finalmente riaprii gli occhi, mi ritrovai con mio sommo orrore nella fontana del parco, a far compagnia alle paperelle.

“Tu …”, ansimai, tra un colpo di tosse e l’altro, mentre tentavo di rimettermi in piedi, lottando contro il liscio vischioso del marmo. “Ma ti sei rimbambito? Che cavolo ti è passato per quella testa balenga?”

Il Demonio si appoggiò ai bordi della fontana, sogghignando: “Mi sono solo adoperato a lavarti una volta per tutte: ancora olezzavi così tanto da spezzatino, da nausearmi!”

“Non è vero!”, protestai, finendo nuovamente con il sedere sott’acqua, dopo essere scivolato. “E comunque, se crepo per polmonite, mi avrai sulla coscienza, disgraziato!”

“Tu, crepare? Tzé, figurati: sei come l’erba cattiva, non muori mai!”, fu la sua sentenza, mentre si allontanava alla volta dell’uscita del parco, continuando senza pietà a ridere del sottoscritto, che, furente, cercò di uscire dalla fontana, sennonché inciampò con una gamba sul suo bordo, ruzzolando arlecchinescamente per terra, inzaccherandosi tutto di fango.

 

***

 

Quando nonna Séraphine mi raccolse dal parco, parevo, agli occhi di un inesperto osservatore, un barbone coi fiocchi: per tenermi caldo, in quanto autunno inoltrato, mi ero infilato tutti i maglioni disponibili nella mia valigia, ergo quelli che avrei riportato a casa, poiché da lavare. Di conseguenza, coi capelli impazziti; il viso e i pantaloni sporchi di terra e l’odore non proprio accattivante di sudore delle felpe non dovetti dare una buona impressione ai passanti e non mi sarei sorpreso, se qualcuno mi avesse pure allungato un euro.

Il che avvenne, alas.

Mamie non disse nulla, si limitò a condurmi in macchina, dove mi distesi sfinito sul sedile posteriore, addormentandomi di brutto e non vedendo l’ora di chiudermi in camera mia, affogando i miei dispiaceri in un barattolo maxi di Nutella, celato rigorosamente sotto il letto, lontano dagli sguardi indiscreti di Maman.

Non che lei fosse molto in casa per controllare i miei movimenti, del resto. Mia madre lavorava in un tour operator e spesso si assentava anche per mesi, lasciandomi in balia di mia nonna, una misantropa convinta, malata terminale di cinismo verso il prossimo, in particolar modo, nei confronti dei partner di famiglia.

Infatti, io non avevo il papà, o meglio, l’ebbi fino ai cinque anni, perché un giorno lui ci fece le valigie invitando Maman e me a sloggiare, piantandoci così in asso. Fummo dunque costretti a tornarcene in campagna dalla nonna, la quale ci accolse senza tante storie, memore anch’ella di un terribile vissuto: ebbene sì, pure il nonno Dégel se n’era andato via di casa.

Con un uomo.

 Non seppi mai il suo nome, né Mamie volle mai comunicarmelo; l’unico dettaglio di quella “tragica” vicenda che conoscevo era che il mio prozio Unity – che riposi in pace – ebbe il suo bel daffare a impedire alla nonna di rincorrere il marito fedifrago con il fucile da caccia. Da allora, lei incominciò a guardare con sospetto gli uomini, in particolar modo se omosessuali.

Di conseguenza, potete ben immaginare, quanto fosse poco contenta, nell’assistere all’infinita sequela d’insuccessi amorosi della figlia. Non che Maman fosse brutta o sgraziata, al contrario era molto carina, con i capelli rosso scuro e gli occhi dorati (tratti somatici da me entrambi ereditati) e di certo, a trentotto anni, non le mancavano degli spasimanti, che le ronzavano attorno come veri e propri mosconi.

No, il vero inghippo ero io. E non state a pensare ora, che m’intromettessi nella vita sentimentale di mia madre con scenate isteriche o tiri birboni alla Piccola Peste, no! Era la mia sola esistenza a far sì, che i drudi, appena saputo che la Madamoiselle Molinier aveva un figlio diciassettenne, si rigirassero come Bretzel, tentennassero, tergiversassero, blaterando incredibili scuse e filandosela all’inglese, con un “Ci sentiamo”.

Tzé!

Comunque, sarà egoista da parte mia affermare ciò, ma questa vita in fin dei conti non mi dispiaceva; sicuramente, avrei preferito avere vicino Maman un po’ più spesso, tuttavia, la libertà che godevo era grande e inebriante. Inoltre, vivevamo indisturbati in mezzo al bosco, il villaggio più vicino a dieci kilometri da noi (e in ogni modo composto dal municipio, la chiesa, qualche casetta e la crêperie) e avevamo un solo vicino di casa, Monsieur Giraud, che viveva a mezzo kilometro da noi, con la moglie e i due figli, Marin e Toma (forma contratta di Thomas? Mai capito …) La prima aveva due anni più di me e posso annoverarla, assieme a Shaka, nel mio cerchio delle amicizie; quanto a suo fratello, mio coetaneo, da piccoli giocavamo insieme, ma poi, con il passare degli anni, ci siamo persi di vista.

 Arrivati finalmente a casa, dopo quasi un’ora e mezza di autostrada, mi stupii nel notare la macchina di Maman in garage: non doveva essere a Bordeaux per lavoro?

Apparentemente no, ché la vidi vispa e su di giri in cucina. “Momus, tesorino di Maman, vieni qui, fatti abbracciare, mon chouchou!”e dovetti subire una mossa di wrestling abilmente camuffata d’abbraccio. “Com’è andata a scuola? Me lo dici dopo in macchina, va bene? Ora preparati, che fra mezz’ora usciamo a cena!”, esclamò contenta, gli occhi ridenti.

“Che si festeggia?”, chiese Mamie, versandosi del succo ai mirtilli. “In che ristorante andiamo?”

“Oh no!”, dichiarò Maman, scuotendo il capo ramato. “Stasera, siamo tutti e tre invitati a casa di Christophe!”

Per poco la nonna non si soffocò con il succo, che le andò dolorosamente di traverso. Battendole piano la schiena, domandai io stesso molto sorpreso: “Il cardiologo? E che vuole da noi?”

Chiedo venia, se prima non avevo accennato a lui, quando vi descrissi le vicissitudini amorose della mamma, terminate tutte in fallimenti fino all’anno scorso, momento in cui incontrò questo misterioso corteggiatore, che pareva seriamente interessato a lei, visto che era da tanto tempo, che i due si frequentavano. Nonostante tutto, Maman non rivelò né alla nonna, né al sottoscritto il suo nome e cognome, solo la professione, cardiologo appunto. E solo recentemente, siamo riusciti a spillarle almeno il nome di battesimo: Christophe.

Che si vedessero o meno, mi era del tutto indifferente; però, non comprendevo il motivo della nostra presenza in una cenetta romantica à deux.

“Vorrei presentarvi a Christophe e vi confesso, che lui stesso ha richiesto della vostra presenza …”, ci spiegò ansiosa Maman, le dita tra loro attorcigliate.

Silenzio.

“Non mi sento bene, Maman, posso restare a casa?”, domandai, sfoderando i miei migliori occhioni da cerbiatto indifeso.

“Neppure io, credo che mi siano ritornate le mestruazioni!”, si lagnò la nonna, massaggiandosi il ventre.

Passandosi la mano sulla tempia, Maman sibilò per la prima volta davvero incavolata: “No! Vi ha invitati a cena e a cena voi verrete, capito?” e lo sguardo assassino nei suoi occhi non preannunciava nulla di buono.

“Ma …”, tentammo di protestare.

“Ci si vede fra mezz’ora!”

“Ma …”

“Fra mezz’ora, ho detto!” e fu la fine delle comunicazioni.

“Qui finisce male”, borbottò Mamie, mentre le passavo la biancheria da lavare. “Molto male …”

E stranamente, sentivo di non poterle dare torto.

 

***

 

Alle otto e mezza puntualissimi (sperando di non aver beccato alcun autovelox) Maman, Mamie ed io eravamo parcheggiati sotto casa del cardiologo, il quale doveva avere abbastanza grana, da potersi permettere un appartamento in pieno centro e anche piuttosto spazioso, a detta della lunghezza del balcone.

Maman suonò al citofono e, dopo qualche istante d’imbarazzante attesa, finalmente una chiara voce maschile ci rispose, dichiarando secca: “Mi dispiace, ha sbagliato indirizzo!”, spiazzandoci letteralmente, soprattutto, quando una seconda voce s’intromise scocciata:

“Nônon, levati dalle palle e dammi quella diavolo d’una cornetta!”

“Non se ne parla neppure, Sasà! Pussa via!”, ribatté l’altra con altrettanto trasporto. Seguì poi uno strano ronzio di sottofondo nel citofono, come se i due litiganti si stessero contendendo il dominio dell’apparecchio elettronico. E siccome il terzo gode, una voce più giovane di qualche ottava s’intromise, chiedendo candidamente: “Buonasera, chi è lei?”, provocando l’ira delle altre due, che cercarono d’allontanarla. Il provvidenziale arrivo di quello che sembrava il capo clan ci impedì di rimanere come fessi davanti al citofono per tutto il resto della serata.

“Via, via bon sang! E tu, va’ a vedere che fine ha fatto l’altro tuo fratello!”, borbottò l’uomo, ignorando, che la conversazione era da noi perfettamente udita. “Ehm …”, riprese con tono più gentile, rivolgendosi a noi “sei tu Corinne? Scusali, stasera i ragazzi sono sull’euforico” e pronunciò l’ultima parola tra i denti, evidentemente diretta ai figli.

Ah, ora si spiegava, come mai il cardiologo non si fosse tirato indietro con Maman: anche lui aveva della prole a casa. Sì, ma quanti? Due? Tre?

“Scendo giù a prendervi, aspettatemi!” e si dimenticò di riattaccare, poiché sentimmo le appassionate proteste continuare, anche dopo la risoluzione del pater familias.

“Ma papà …”

“Chut!”

“Ma papino …”

“Zitto!”

“Ma papu!”

“Silenzio!”

Non erano molto entusiasti di vederci, no no!

Spalancando il portone con la forza dell’esasperazione, il cardiologo fece la sua entrata in scena, rivelandosi come un signore sui quarantacinque anni, leggermente stempiato e dagli occhi blu, nascosti da pesanti occhiali da vista.

“Corinne, cara, sono così felice, che siate venuti tutti e tre! Su, entrate!”, c’invitò con un ampio gesto della mano e salendo su per le scale, non mi sfuggì la furtiva carezza, che M. Christophe elargì a Maman, la quale ridacchiava sommessamente, neanche fosse una scolaretta al suo primo amore.

Diabetico.

Due giovani uomini di vent’anni ci aspettavano all’entrata, il primo che cercava di spingere via il secondo, il quale era in procinto di chiudere la porta. Ah, piccolo dettaglio: erano identici, ergo gemelli.

“Corinne, non so se ti ricordi dei miei figli maggiori, Saga e Kanon”, li presentò M. Christophe, indicandoli. Quello dai capelli di un biondo leggermente più scuro si liberò del fratello con una rapida gomitata, ricacciandolo dentro casa una volta per tutte. E tendendo la mano a Maman, la salutò sinceramente contento: “Piacere di conoscerla, M.lle Corinne, Papa ci ha tanto parlato di lei!”

“Ma sentilo …”, borbottò il suo gemello, ricevendo un pestone al piede.

“Sei Saga, vero?”, ricambiò con entusiasmo Maman.  “E tu dovresti essere Kanon o mi sbaglio?”, domandò leggermente confusa al giovane dietro, che rispose:

“No, questo balengo qui davanti è Kanon, Saga sono io ... ehi!”

“Sarà meglio entrare, che dite? Il corridoio non è così confortevole!”, lo interruppe bruscamente il padre, mormorando serio al vero Saga. “Disponi di tuo fratello, va’!”

Il giovane uomo abbozzò a un cenno affermativo, spingendo via Kanon per la schiena, affermando più mieloso di un’ape regina: “Dai, Nônon, andiamo in cucina, eh?”

Una volta dentro il salotto, M. Christophe ci fece accomodare sulle poltrone, offrendoci da bere qualcosa di fresco. Era sorprendente notare, come Maman si sentisse a suo agio nell’ambiente, dimostrando di essere stata in più occasioni sua ospite, e perfino Mamie si stava lentamente rilassando, grazie all’abile cicaleccio del cardiologo. L’unico fesso, che se ne stava seduto più rigido di un cadavere in piena fase di rigor mortis era il sottoscritto.

L’intera sinfonia era sbagliata, piena di stonature: due piccioncini all’apice del loro stordimento amoroso non si sognerebbero mai di invitare i rispettivi pargoli e famigliari a meno che …

“Oh Saga, rieccoti qua!”, esclamò il padre, rivendendo il figlio tornare dall’impresa sbarazziamoci di elementi scomodi. “Sai per caso dov’è finita la belv- ehm tuo fratello?”

Sbattei confuso le palpebre: ma non l’aveva appena relegato in cucina? Allora, ce n’era un altro …

“Credo sia in camera sua di sopra con Iou – Iou”, rispose incerto il maggiore, sedendosi vicino a me. Iou – Iou? E chi era? Il gatto?

“No, è andato in cucina da Nônon, l’ho visto io!”, rispose dalle scale una voce a me piuttosto famigliare, anche se non ricordavo dove l’avevo già sentita. Incuriosito, alzai lo sguardo in direzione della sua fonte e credo che i miei occhi divennero simili a quelli di una civetta, non appena vidi Aiolia scendere giù, per venirci a salutare.

Un momento: che ci faceva Aiolia lì? Che ci faceva il fratello del Demonio in quella casa? M. Christophe mica era suo …

“Camus!”, mi venne incontro Aiolia, spedito come il TGV, abbracciandomi forte. “Questa sì che è una sorpresa: non sapevo, che M.lle Corinne fosse tua madre! Allora, hai già conosciuto i miei due fratelloni?” e, girandosi in direzione della cucina, chiamò ad alta voce: “Milo! Vieni a vedere chi è il figlio di Corinne!”

No, non può essere. Questo è un dannatissimo incubo, dal quale ti sveglierai, facendoti poi una bella e grassa risata.

Dalla porta della cucina emerse tranquillamente quel birbo malnato di Milo, il quale, nel momento in cui incrociammo gli occhi, si fermò di colpo, fulminato sul posto. Quanto a me, avrei voluto scavarmi una fossa e seppellirmici dentro: Oddio, la mia Maman usciva col Papa di Valavitis!

Mi aspettai, quindi, di vedere negli occhi turchesi del mio compagno di scuola la stessa sorpresa oppure la sua solita espressione arrogante, quando si trattava di interagire con il sottoscritto. Invece, inaspettatamente e sconvolgendoci tutti, Milo si mise a ridere a crepapelle, reggendosi la pancia.

“Eh bien, Milo, che ti prende?”, chiese confuso il padre, assai interdetto.

Asciugandosi le lacrime agli occhi, il volto paonazzo dalle risate, il ragazzo scosse il capo biondo con energia. “Niente, niente!”, e se ritornò in cucina ridendosela alla grossa. E la notizia dovette essere così gustosa, da condividerla pure con il fratello maggiore e, infatti, alla gioviale risata di Milo si aggiunse quella di Kanon, che risuonarono insieme per tutto il salotto.

Sospirando a fondo, Saga si diresse con spirito bellicoso verso la cucina, simile a un capitano di una nave in procinto di strigliare una ciurma troppo indisciplinata. Nel frattempo, M. Christophe dirottava diplomaticamente Maman e Mamie verso la sala da pranzo ed io mi unii a loro, trascinando Aiolia con me, giusto per avere la sicurezza, che il Demonio evitasse di sedersi accanto al sottoscritto.

 

***

 

La cena fu sorprendentemente piacevole: dopo il primo imbarazzo all’entrée, con l’arrivo della crema di funghi l’atmosfera si era rilassata, specie per me, che mi ero posizionato in maniera strategica dalla parte opposta di Milo.

Ascoltando spezzoni vari di conversazione, incominciai a delineare un poco il background della famiglia Valavitis: il pater familias, non era, come pensai all’inizio, divorziato, bensì vedovo da quasi otto anni, anche se la causa del decesso della fu Madame Valavitis non riuscii ad afferrarlo; aveva poi incontrato Maman per caso ad una cena di lavoro, offrendole un passaggio a casa, dopo che lei fu scaricata brutalmente da un suo collega, quando aveva saputo, che la donna aveva un figlio adolescente sul groppo. Durante il tragitto di ritorno, mamma si era sfogata con lui e tra una confessione e l’altra, si erano scambiati i numeri di cellulari, seguito dal famoso refrain Ci sentiamo. Tuttavia, M. Christophe fu di parola: il giorno successivo la chiamò per davvero, chiedendole se voleva prendere una crêpe assieme a lui un sabato pomeriggio. Maman accettò ed eccoci qua.

Saga e Kanon, o Cip e Ciop come li soprannominava il padre (giurai di averli visti stringere convulsivamente il coltello a sentirsi così nominare, ma potrei anche sbagliarmi) studiavano entrambi all’estero, il primo psichiatria all’università di Münster, in Germania; il secondo economia e management ad Oxford, in Inghilterra. Ora si trovavano momentaneamente a casa, sfruttando il ponte degli Ognissanti e ciò dovette significare il ritorno di un poco di disciplina nel focolare domestico: M. Christophe di sicuro si faceva rispettare dai propri figli, tuttavia si assentava spesso, lasciando incustodito il posto di comando della nave; di conseguenza, i figli più piccoli ne approfittavano per battere bandiera corsara. Invece, Aiolia e Milo parevano più tranquilli alla presenza dei due gemelli, soprattutto davanti a Saga.

Di Aiolia conoscevo già abbastanza cose, visto che frequentavamo lo stesso liceo;  tuttavia, ignoravo, che il ragazzo giocasse a livello agonistico nella squadra giovanile di rugby di Mont-de-Marsan: infatti, la sua corporatura  sì forte, ma non robustissima, non mi pareva esattamente idonea ad uno sport molto fisico, quale appunto il rugby.  Aiolia mi spiegò, che, certo, un corpo resistente era necessario, specie nella mischia, ma non per il suo ruolo: lui era un tre quarti ala e il suo compito era di concludere rapidamente l’azione, segnando una meta, sfruttando il corridoio di corsa creato dai compagni nella mischia. Le ali erano quindi i giocatori più veloci della squadra e per questo, non dovevano essere tanto massicci, altrimenti, il loro stesso peso li avrebbe ostacolati nella corsa, facilitando il placcaggio da parte dell’avversario.

Quanto a Milo, non seppi nulla di nuovo, anzi, l’interessato non si unì quasi mai alla conversazione, fissando coscienziosamente il suo piatto in silenzio, perso nei suoi astrusi pensieri.

“Camus, vedo che hai già finito il petto d’anatra! Ne vuoi ancora?”, mi domandò ad un tratto Kanon, spingendo in avanti il vassoio ricolmo di cibo. “Ti è piaciuto? L’ho cucinato io!”

Che il petto d’anatra fosse davvero buono, non lo mettevo in dubbio; ciononostante, mi sentivo sazio, avevo mangiato anche più del dovuto. Fui quindi sul punto di declinare l’offerta, se un buffetto sulla coscia da parte di Aiolia non me l’avesse impedito.

“Ti conviene accettare”, sussurrò da dietro al tovagliolo, con il quale si stava pulendo la bocca. “È Kanon, quello che cucina in famiglia ed è molto suscettibile: rifiutargli il cibo equivale a una dichiarazione di guerra!”

Spiando di sottecchi il sorriso obliquo del gemello più giovane, mi servii diplomaticamente di una seconda porzione, chiedendomi come l’avrei finita, visto che non avevo sul serio più fame.

“Nônon”, gli disse Milo, parlando per la prima volta in tutta la cena “non sforzarlo: il signorino è a dieta!”

“Come?”, fu la sorpresa replica del fratello, che mi lanciò una veloce occhiata.

“Eh, sì. Non vorrai mica farlo ingrassare: guarda che ci tiene al suo vitino da vespa!”

“La dieta? Alla sua età, la dieta?”, ripeté Kanon, incredulo.

“Chi è che fa la dieta?”, s’intromise Saga, cercando con lo sguardo il colpevole.

“Perché fai la dieta?”, mi domandò invece Aiolia, incuriosito.

“Quale dieta?”, fece Maman, attirata dalla catena di domande, che si era inavvertitamente formata.

“Da quando sei a dieta?”, si accigliò Mamie, lo sguardo obliquo.

“Si parla di dieta, ora?”

Grazie alla brillante battuta del Demonio, mi ritrovai in un colpo solo tutti gli occhi della compagnia addosso e la cosa mi mise oltremodo a disagio, poiché non ero abituato a tanta attenzione nei miei confronti. Le uniche due soluzioni che mi si presentarono davanti furono: a) spiegare, che la mia era una dieta forzata, giacché Maman non si ricordava mai i soldi per la tessera della mensa; b) ficcarmi immediatamente un pezzo di anatra in bocca, smentendo subito ogni diceria.

E come sempre, optai per il piano B, causando un sospiro di sollievo nei convitati, sciogliendo quindi la tensione e rassicurandoli, che non avevano un anoressico a cena.

Il dolce, poi, fu fenomenale, la migliore crème brûlée, che abbia mai assaggiato, giuro! Anche quella era opera di Kanon e mi complimentai sinceramente con lui per la sua bravura ai fornelli.

“Ovvio, che Nônon cucina bene”, replicò Saga, contro ogni pronostico. “Altrimenti, come si tiene stretto Rhada, laggiù, in the fair country of Her Majesty?”, e si mise a ridacchiare sotto i baffi assieme agli altri due fratelli. Le guance di Kanon s’imporporarono violentemente e cercò vendetta nei confronti del gemello con una decisa gomitata sul fianco.

“Chi è Rhada?”, chiesi sottovoce ad Aiolia, il quale affondò ridendo il naso nella coppa.

La mia curiosità rimase insoddisfatta, poiché M. Christophe richiamò la nostra attenzione. “Sono contento, che voi ragazzi abbiate avuto modo di conoscervi e che vi stiate divertendo. Vedete, stasera Corinne ed io abbiamo organizzato questa cena, per comunicarvi una nostra importante decisione”, disse, stringendo la mano a Maman, che lo guardava adorante. Quanto a noi, eravamo piuttosto a disagio, ognuno sperando che quel che i genitori stavano per dire, non corrispondesse a …

“Ormai è quasi un anno, che vostro padre ed io ci frequentiamo”, continuò mia madre “E siccome, desideriamo fondare la nostra relazione su delle basi più solide e non su di un fallace flirt …”

“… abbiamo deciso di sposarci ad Aprile!”, annunciarono i due in coro.

Veloce, mi guardai attorno, per cogliere le varie reazioni dinanzi a tale dichiarazione shock: il cucchiaio di Saga cadde piuttosto pesantemente nella crema, spargendola sul tavolo; Kanon sputacchiò l’acqua, che stava bevendo; Milo si limitò ad alzare scettico il sopracciglio; Aiolia ed io spalancammo la bocca in perfetto sincronismo e mia nonna terminò la catena con un sonoro Boff!

Si volevano sposare? Questo significava, che ad Aprile quella peste bubbonica di Milo sarebbe divenuto legalmente il mio fratellastro?

“E non è tutto!”, proseguì M. Christophe, ignorando lo sconcerto, che regnava sovrano tra i commensali.

Che altro poteva esserci di peggio?

“Poiché mancano tanti mesi ad Aprile, ecco … vostro padre ed io abbiamo pensato, per aiutarvi a conoscervi meglio, di vivere assieme fino ad allora. Proporrei di venire a casa nostra; che ne dici mamma?”

Mamie ghignò verde, nel vedersi costretta a capitolare. Neppure il resto dei convitati brillò d’entusiasmo e comprendevo il loro disappunto: per uno che è sempre vissuto in città, la campagna equivaleva alla morte civile. Però, logicamente parlando, quella di Maman era la soluzione più sensata, dato che la nostra casa era provvista di un gran numero di stanze, troppe forse, per una famiglia composta da solo tre persone.

Sconfitti dinanzi all’evidenza, le dovute congratulazioni vennero fatte meccanicamente  e pure un brindisi alla nascita del nuovo nucleo famigliare.

Gli zombie di Romero sarebbero stati più vispi.

L’unico, invece, che se la rideva, era proprio Milo, gli occhi luccicanti di birbante malizia, che mi fissavano divertiti da dietro al bicchiere. E non riuscendo a sopportare oltre quello sguardo insistente, appoggiai il mio bicchiere e, scusandomi, mi diressi di gran fretta al bagno.

Una volta raggiuntolo, aprii il rubinetto dell’acqua fredda e mi sciacquai il viso e il collo, sentendomi, infatti, la testa girare: tra tutte le disgrazie che mi potevano capitare, quella di avere Milo in casa era la peggiore! Non bastava ritrovarmelo a scuola, nelle ore d’inglese e ginnastica? No, ora pure nella mia abitazione, l’ultimo mio vero rifugio rimastomi! Diavolo Maman, proprio del signor Valavitis ti dovevi innamorare?

“Tutto a posto, Ionesco?”, fece una voce alle mie spalle. Alzai di scatto il capo, trasalendo nel vedermi bloccato da dietro da Milo. “Delizioso digestivo, vero? A me veniva voglia d’applaudire a momenti!”

“Levati dalle scatole, Valavitis!”, gli intimai, cercando di scivolargli via, ma quel birbo mi afferrò saldamente per le spalle, tenendomi fermo davanti a lui, i nostri sguardi rivolti allo specchio del bagno.

“Uh, così freddi siamo nei confronti di tuo fratello? Mi spezzi il cuore!”, si lagnò falsamente ferito dalla mia invettiva.

“Fratellastro”, lo corressi a denti stretti, aumentando i miei sforzi per liberarmi da quella sgradita morsa. “Eppoi, non so cosa tu ci abbia trovato di divertente: la sola idea di vivere con te …”

“… ti ripugna, lo so. Non ho dimenticato la tua appassionata confessione al parco!”, mi canzonò, come se, al posto di avergli dichiarato il mio disprezzo per lui, gli avessi rivelato il mio amore. “Chissà che magari con il tempo non arriverai ad apprezzare la mia compagnia; a meno che una Vierge Marie [2] come te non abbia paura di essere irrimediabilmente sporcata da un essere disgustoso, come hai definito, con molta gentilezza,  il sottoscritto!” e rise ancora con quella sua risata gutturale, che mi riempiva ogni volta la schiena di brividi freddi. 

Scostandomi poi una rossa ciocca umida dietro all’orecchio, mi sussurrò terribilmente serio: “E nel frattempo, mi divertirò a renderti la vita un vero inferno, sia a scuola, che a casa, tu verras, Camus!”[3]

 

To be continued?

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Spero che vi sia piaciuto, fatemelo sapere e pardon, se è troppo lungo come primo capitolo!

A presto! Ciao!

 

Un po’ di noticine:

[1] Momus = nomignolo formato da Molinier e Camus. In Francia si tende molto spesso a contrarre le parole, per esempio: adolescent diventa ado e così via. Lo stesso vale per i nomi propri, a volte con molta fantasia. Quelli che ho affibbiato ai personaggi di questa fic sono basati sul suono predominante nel loro nome, in base, però alla fonetica francese. Di Saga mi pare la “S”, quindi ho scelto Sasà, con la “S” sorda, quindi una sorta di “ZS”; di Kanon la “N” e la “O” e siccome il suo nome francese è “Kanôn” voilà che diventa “Nônon”! Aiolia, invece, è “Iou – Iou”, giacché né “Lia”, né “Aio” mi parevano adeguati. Qual è quello di Milo? Oh beh, leggete il prossimo capitolo e lo saprete!

[2] Vierge Marie = letteralmente, “Vergine Maria”,  è un modo di dire francese, corrisponde al nostro “Santarellino /a”.

[3] Tu verras, Camus = dal francese, “Vedrai, Camus”

  
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