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Autore: Dira_    06/08/2010    26 recensioni
“Mi chiamo Lily Luna Potter, ho quindici anni e credo nel Fato.
Intendiamoci: niente roba tipo scrutare il cielo. Io credo piuttosto che ciascuno di noi sia nato più di una volta e che prima o poi si trovi di fronte a scelte più vecchie di lui.”
Tom Dursley, la cui anima è quella di Voldemort, è scomparso. Al Potter lo cerca ancora. All’ombra del riesumato Torneo Tremaghi si dipanano i piani della Thule, società occulta, che già una volta ha tentato di impadronirsi dei Doni della Morte.
“Se aveste una seconda possibilità… voi cosa fareste?”
[Seguito di Doppelgaenger]
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Un giorno prima, per motivi logistici!
Mi dispiace di non aver fatto in tempo a rispondere alle vostre meravigliose recensioni. Purtroppo sono (di nuovo) in partenza, stavolta per la montagna. E lì, ovviamente, non arriva neanche il telefono. Internet viene guardato con odio e sospetto, quindi, capite… :/
Ringrazio ognuno di voi, se riesco salvo le recensioni e rispondo integrandole con le prossime! :D Grazie! Un benvenuto a Neely!
 
 
****
 
 
Capitolo IV
 
 
 



If I traded it all, if I gave it all away

For one thing, just for one thing
If I sorted it out, if I knew all about
This one thing wouldn’t that be something¹
(One Thing, Finger Eleven)
 
 
 
Germania del Nord, Isola di Rügen.
Notte.

 
Era stato un atterraggio traumatico.
Il Deluminatore non era una passaporta e ovviamente non si era comportato come tale.
Ad Albus era sembrato di essere stato disintegrato e poi, certo, ordinatamente ricomposto.
Questo prima di essere scaricato su una spiaggia, in mezzo all’acqua limacciosa della battigia, la cui sabbia assomigliava più a sassi che altro.
Era crollato violentemente di schiena, come se fosse stato sbattuto impietosamente da una mano esterna. Era dovuto passare più di qualche attimo prima che riuscisse a capire di essere ancora vivo.
Quando si era rialzato, si era trovato di fronte il mare.
La sorpresa era stata tale che per quasi un minuto l’aveva contemplato stupefatto: il silenzio lì era perfetto. Non si vedevano forme di vita, né navi, né città. Era stato portato in una piccola baia, racchiusa su se stessa. Si era rialzato, cercando a tentoni la bacchetta nella tasca dei jeans. L’aveva ritrovata solo qualche attimo più tardi, conficcata nella sabbia come una piccola spada nella roccia.
La ghiaia marina crepitava sotto le suole delle sue scarpe da ginnastica quando si era allontanato verso la spiaggetta. Il mare sembrava infinito, senza isole o confini di mezzo.
Era un oceano.
Spirava un vento gelido, inadatto alla sua maglietta di cotone sottile, peraltro fradicia.
Dovunque fosse, quella non era l’Inghilterra.
Non siamo più in Kansas, Toto… - Aveva pensato, citando un film babbano che Lily adorava.
Aveva cercato di orientarsi, senza trovare un solo punto a lui familiare. L’angoscia l’aveva assalito allora, e aveva stretto il Deluminatore fino a sentirlo diventare bollente come la sua mano. Se l’era infilato in tasca poi, al sicuro. Suo padre non poteva sbagliarsi, questo era stato l’unico pensiero che non l’aveva fatto scivolare nella paura più genuina. Se il Deluminatore l’aveva portato lì, significava che lì c’era Tom.
Quando gli occhi si erano abituati alla luce lattiginosa della luna che ogni tanto si degnava di far capolino tra le nubi, aveva scorto una sorta di piccolo sentiero inerpicarsi per la parete di roccia che formava un muro a strapiombo di fronte a sé. Sembrava stato fatto da mani umane, il che significava che probabilmente non doveva trovarsi in un posto disabitato.
Si era fatto coraggio, aveva stretto la bacchetta e si era incamminato per il sentiero, abbastanza largo da fargli dimenticare che sotto di sé c’era centinaia di rocce aguzze.
Aveva freddo, era confuso e spaventato… ma c’era qualcosa che lo muoveva, qualcosa che gli faceva mettere un passo dietro l’altro.
La speranza che Tom potesse essere lì.
E poi c’era la paura: e se Tom fosse stato in pericolo o in una brutta situazione?
Sapeva che sarebbe stato utile più o meno come un cagnetto. L’esperienza dell’anno scorso aveva solo rafforzato la sua convinzione di non essere un uomo d’azione. James era quello che sguazzava nelle situazioni estreme; lui preferiva rimanere in disparte e pianificare.
Davvero ironico che poi in situazioni del genere ci finisca sempre io…  
Aveva risalito lo strapiombo, ringraziando i suoi allenamenti di Quidditch annuali, con un leggero fiatone ma le ossa ormai gelate; infatti il vento gli frustava i vestiti umidi, appiccicandoglieli addosso. Capì di stare tremando solo quando vide la sua bacchetta ondeggiargli davanti al naso.
Poi sentì qualcosa. Non era certo di cosa fosse stato, se un rumore di passi o di erba calpestata.
Quello che aveva sentito dopo invece, era stato chiarissimo.
Era la voce di Tom.
Era la sua voce, anche se parlava in una lingua che non conosceva.
Era stato come essere investito da un tifone di sentimenti completamente diversi l’uno dall’altro. C’era stata gioia, speranza, confusione. E poi rabbia e di nuovo confusione.
Aveva dato retta all’istinto e non alla sua ragione; era corso verso la voce.
E poi c’era stato lui.
Tom, ancora più allampanato e magro di come ricordava – ma forse era solo una sua impressione.
Tom coi capelli lunghi a lambirgli il collo e gli occhi scuri, perché avevano il colore del mare. Sia di giorno, che di notte. Si era reso conto solo in quel momento di quanto lo riflettessero veramente, e non fosse solo un accostamento poetico.
Era Tom. Vivo, che respirava e stava di fronte a lui come otto mesi prima. E l’aveva riconosciuto, aveva capito chi era: aveva visto il lampo di sgomento che gli aveva attraversato il viso.
Si ricordava di lui, stava bene ed era da solo.
 
E non è tornato.
 
L’aveva pensato di colpo. E sempre di colpo non si era mai sentito così infuriato in vita sua.
 
 
****
 
 
Era Al.
Esserselo trovato davanti era stato come essere stato costretto a respirare sott’acqua.
Si era sentito affogare, letteralmente.
Il respiro gli si era bloccato per lunghi momenti all’altezza del petto, senza riuscire ad uscire.
Ripresosi dal momentaneo sgomento, non sapeva cosa fare.
Si umettò le labbra.
“Al…” Chiamò di nuovo. “Cosa… che cosa ci fai qui?” Gli chiese, sentendo le sue orecchie riabituarsi al suono della sua lingua madre. Era stranissimo.
Al era lì, e ovviamente stava bene. Doveva stare bene. Ma c’era qualcosa nella sua espressione, nei lineamenti del suo viso, di maturo. Qualcosa che aveva poco a che fare con la persona che aveva lasciato otto mesi prima.
Al era sempre Al, ma lo sentiva cambiato. E la cosa lo smarriva. Orribilmente.
L’altro ragazzo intanto sembrò essersi scongelato dalla sorpresa. “Che vuol…” Disse, così piano che quasi gli sembrò di non sentirlo. “… Che vuol dire?” Fece una pausa, in cui vide la sua espressione stravolgersi, da sbalordita a furiosa. “Tu stai bene.”
Tom non capì subito a cosa si riferisse. Gli sembrava quasi che fosse un sogno, frutto della sua mente. In realtà non era lì, ma al faro, nella sua stanza, a dormire.

“Sì, io…” Tentò, ma fu subito fermato.
Tu stai bene!” Ripeté, e il tono di voce alzò di volume. “Ed io non lo sapevo!”
Tom serrò appena le labbra. “Al, io…”

Maledizione.
Non c’erano scuse, se ne accorse con terrore mentre vedeva lo sguardo dell’altro ragazzo passare da un’emozione all’altra con la velocità di una giostra impazzita. Le poteva riconoscere tutte, perché Albus era un libro aperto quando era sotto pressione.  

E gliele aveva scatenate lui.  
C’era qualcosa, terribile a dirsi, che dentro di lui esultò.  
“Rispondi!” Lo incitò, mentre la linea delle sopracciglia sottili si corrugava così tanto da confondersi, nella penombra. “Che significa tutto questo Tom? Dove siamo? Che diavolo ci fai qui, quando sai che ti aspettiamo tutti a casa? Che hai fatto in questi fottuti otto mesi?!”
Tutte ottime domande. Tutte domande giuste a cui doveva rispondere.
Ma…

Non voleva parlare, voleva toccarlo. Così violentemente che gli mancava il fiato. E non se lo meritava, e non era appropriato, e non era giusto.
Ma è ciò che voglio.
Provò a muovere un passo, Al però fu più veloce di lui. Gli puntò la bacchetta al petto; la sentì premere contro l’osso dello sterno, dolorosamente. Si arrestò immediatamente.
“Che vuoi fare?” Gli chiese guardingo.
Non era così stupido da non rendersi conto che non lo stava semplicemente allontanando: gli stava dicendo a chiare lettere che non lo voleva neanche nel suo spazio personale.
Guardò le labbra dell’altro, tese fino allo spasimo in una linea sottile, e i suoi occhi, enormi, adesso ridotti in una linea sottile.
È ciò che ti meriti. Che ti odi. Gli avevi promesso che ci saresti sempre stato.
Invece lo hai abbandonato. Li hai abbandonati tutti.
“Non ti azzardare a toccarmi!” La sua voce ebbe l’effetto di una frustrata bollente. “Voglio sapere perché sono qui adesso! Sono arrivato con il deluminatore, lo sai?” Lo tirò fuori dalla tasca. Era davvero un accendino, come Harry gli aveva sempre detto. “Sono venuto io. In questi mesi… in questi mesi hanno tutti pensato che fossi morto! Tutti! Tutti tranne io e papà!” Continuò mentre la voce gli si riempiva di respiri spezzati. “E mi dicevo che eri… che stavi…”
“Al.” Lo fermò: la verità era che non sapeva cosa dire. C’erano milioni di motivi che in quei mesi l’avevano spinto ad allontanarsi della sua vecchia vita. A tentare, in realtà, di farlo.

Ora gli sembravano tutti ridicoli, meschini e vergognosi.
Al sembrò scosso da un brivido violento. Scosse la testa.  “Non voglio ascoltarti…” Ringhiò. “No, io… Dannazione!” Sbottò d’improvviso. “Perché… perché mi hai fatto questo? Hai idea di cosa…”
Tom decise di lasciar perdere le spiegazioni. Qualsiasi cosa avesse detto in quel momento, non sarebbe servita a nulla.  Scattò e gli afferrò un braccio di colpo. Non era intelligente, anzi, era controproducente un gesto del genere. Ma aveva bisogno di una reazione. Aveva bisogno di sentirla.

A volte le parole erano decisamente sopravvalutate.
La reazione di Al fu ovviamente repentina e violenta. Si tirò indietro di colpo, come ustionato. “No!” E gli lesse nello sguardo timore e ira.
Mi vuoi. Mi vuoi toccare anche tu, ma sei troppo arrabbiato per farlo.
E ti detesti, perché lo vuoi…
Si aspettava anche il pugno che ne conseguì, visto che aveva previsto che avrebbe mollato la bacchetta. Albus non lo avrebbe mai colpito con un incantesimo se era disarmato. Faceva parte del suo lato grifondoro. A quel punto gli afferrò il polso e se lo strattonò addosso.
Che devo fare? Che gli devo dire?  
Al si divincolò. Sentiva i suoi vestiti fradici sfregargli contro la pelle nuda delle mani.
È caduto in acqua, dannazione…
“Al, smettila!” Lo apostrofò, bloccandogli le braccia. Si sarebbe fatto male, avrebbe fatto male ad entrambi. Gli stava persino tentando di graffiargli i polsi per liberarsi. “Smettila!” Continuò a ripeterglielo un paio di volte. Al lo ignorò, lottando con tutte le sue forze per levarselo di dosso.
Ti prego smettila… lo so. Lo so che ho sbagliato. Odiami, se vuoi. Ma smettila di fare così.
Smettila di farmi capire quanto ti ho fatto male.
Avrebbe voluto dirglielo: ma era la cosa giusta da dire? Avrebbe funzionato?
Non lo sapeva. Nessuno aveva mai pensato di insegnarglielo.

Poi finalmente Albus crollò. Lo sentì tendersi come una corda contro di sé, e sentì persino vibrare sul petto l’urlo di frustrazione soffocato dalla stoffa del suo maglione.
È tutta colpa tua.
Questo sembra dire quell’urlo.
Lo sentì poi respirare forte contro la propria spalla, tirando respiri secchi e densi. Poi finalmente lo toccò di rimando, anche se solo per scostarsi.
“Stai tremando.” Disse con calma surreale, come se fino ad un momento prima non avesse cercato di prenderlo a pugni.  
Tom batté le palpebre e si guardò le mani. Era vero: teneva talmente i muscoli in tensione che quelli, oltraggiati, avevano cominciato a dar segnali.

Passò un lungo, enorme momento di silenzio. Tom fece violenza su sé stesso, di nuovo, per impedirsi di fermarlo quando si staccò definitivamente da lui.
Poi l’altro ragazzo si ricompose: aveva gli occhi lucidi, febbricitanti,e l’espressione di chi non aveva ancora deciso bene cosa provava. Ma c’erano bisogno di parole adesso, e spiegazioni.
Lo sapevano entrambi.
“Abiti qui?”
“Al faro. Nel faro.” Specificò. “Sei bagnato. Sei…”
“Caduto, dentro l’acqua.” Concluse, brusco e senza guardarlo negli occhi. “Portami lì. Sto morendo di freddo.”
Era un ordine bello e buono. Tom non si sentì in grado di opporsi. Non gli restò che annuire e fargli cenno di seguirlo.

Era ridicolo, egoista e folle. Ma sentiva come se il suo cuore avesse di nuovo cominciato a battere. Era doloroso, perché era rimasto fermo per otto mesi.
Ma andava bene.
 
****
 
 
Al non riusciva a smettere di tremare.
E non solo fisicamente, mentre seguiva Tom per un sentiero tra il sabbioso e l’erboso, evitando di riempirsi i calzini di sabbia.
Stava tremando dentro. Incessantemente. E di rabbia.
Tom… beh, era sempre Tom.
Muto.
La sua schiena era magra, persino con quel maglione di lana grossa che lo proteggeva dal vento. Era dimagrito ancora. Di lui aveva visto tante volte la schiena.
Troppe.
Poi si voltò, indecifrabile come al solito. “Siamo quasi arrivati.” Indicò con un cenno della testa una costruzione torreggiante, che si intravedeva tra la boscaglia che stavano costeggiando. “Quello è il faro.”
“Okay.” Disse semplicemente, concludendo la breve conversazione. Ripresero a camminare.
Gli sembrava di essere ai lati opposti di un fiume profondissimo.
Otto mesi potevano spazzare via quegli anni?
Otto mesi potevano spazzare via quello che c’era stato tra di loro?
Non era una cosa tra due vecchi amici. Forse, da un certo punto di vista, non lo era mai stata.
Certo, poteva intuire perché Tom si fosse comportato in quel modo. Perché avesse deciso di nascondersi. Davvero, poteva arrivarci, almeno concettualmente.
Ma rimaneva il fatto. Ed era quello a farlo infuriare.
Tom ci ha abbandonati.
Inspirò leggermente, cercando di ricacciare il groppo che gli attanagliava la gola.
Il ragazzo si fermò davanti all’entrata, spingendo la porta con una mano. Quella cigolò e si aprì, rivelando un ambiente buio e dall’odore tipico delle soffitte.
“Non c’è luce elettrica qui dentro… È meglio se usi la bacchetta.” Gli spiegò. Il tono era neutro. Ad Al venne voglia di urlare.
“Va bene.” Rispose invece, tirandola fuori e castando un lumos sottovoce. Anche con quello non si vedeva granché e Al procedette a tentoni per gli scalini ripidi e scivolosi del faro. Vide Tom aspettarlo, ad ogni singolo scalino. Lo vide contrarre e decontrarre la mano. Capì. Ma lo ignorò. Non poteva lasciare che gli prendesse la mano per aiutarlo.
Non te lo meriti più.
“Fai strada.” Fu ostile, e vedere l’ombra di delusione passare nello sguardo di Tom lo fece sentire malignamente soddisfatto. Tom non poteva ribellarsi, e non poteva neanche azzardarsi a muovere una protesta.
Era una soddisfazione che non lo soddisfaceva granché, comunque.
Entrarono così, con un delizioso silenzio pieno di disagio, dentro l’ambiente della lanterna. Era stato organizzato come una piccola stanza, con una branda, un tavolino da picnic e un fornelletto elettrico, usato forse per riscaldare l’acqua del bollitore che Tom aveva afferrato, quasi fosse un’ancora di salvezza.
Non riesce a non fare a meno del the, neanche qui.
Si rifiutò di farsi intenerire dalla cosa.
“Vuoi un the?” Propose l’altro, a bassa voce. Si sentiva il suo sguardo addosso. Era tutta suggestione, ovviamente, ma si sentiva quasi accarezzare.
Represse un brivido. Non era il freddo.
“No.” Negò, per il puro e semplice gusto di farlo.  Tom gli lanciò un’occhiataccia, intuendolo al volo.
Almeno certe cose sono rimaste le stesse…
“Vuoi dei vestiti asciutti?” Propose di nuovo.
“Me li posso asciugare con la magia.” Replicò e lo fece. Non era come avere dei vestiti caldi addosso. Erano ancora gelidi e resi rigidi dall’acqua salmastra. Ma glissò.

Tom tenne ancora per un attimo il bollitore tra le mani, poi lo posò. “Immagino che dovremo parlare…”
“Parlare Tom? E di cosa?”
Sentiva la rabbia congelargli la stomaco e le pulsazioni a mille: aveva voglia di prenderlo a pugni. Ma la fase ‘rabbia cieca’ si era esaurita prima.

C’erano altri modi per punirlo, dopotutto.
Tom corrugò le sopracciglia. Sembrò confuso e per un attimo lo guardò quasi smarrito.
Ti eri aspettato che ti piagnucolassi addosso, implorando spiegazioni?
Troppo facile.
“A che gioco stai giocando?” Gli chiese, con voce tesa. “Io…”
“A che gioco stai giocando tu?” Replicò, sedendosi sulla branda. Si sentiva spossato, come dopo una lunghissima sessione di allenamenti sotto il piglio di ferro di Zabini. “Otto mesi, Tom.”
Lo so.” Replicò a denti stretti. “Pensi che sia stato facile per me? Non sai neppure cosa…”
“Ovvio che non lo so. Non so niente.” Strinse tra le dita la la coperta ispida del letto. Assomigliava alla pelliccia delle grandi occasioni di Hagrid. Si chiese brevemente come Tom riuscisse a dormirci senza disgustarsi. “Potevi essere morto, vivo o catturato da John Doe. Potevi essere dovunque o non essere.” Sentiva la voce alzarsi di tono, di nuovo. Fece una pausa, per riprendere fiato e controllo; strillargli addosso e piangere non sarebbe servito a nulla. “Papà non è riuscito a dormire per notti intere… i tuoi genitori sono distrutti. Non sanno neanche se devono piangere su una tomba o meno. Tua sorella ci odia. Papà ha evitato per un soffio un incidente diplomatico trai due mondi, per evitare che zio Dudley raccontasse tutto alla polizia. Ti rendi almeno conto?”

Tom serrò le labbra in una linea sottilissima. Lo vide tentare di muovere qualche passo, poi decidere di rimanere fermo. “Sì.”
“Davvero?” Lo apostrofò crudele.

“Dovevo…” Sospirò bruscamente. “Sono stato male. Non riuscivo a capire dov’ero, non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto per andare in bagno.”  
Al ignorò la fitta di puro panico e preoccupazione che gli trafisse il cuore. “Quanto?” Chiese invece.
“Tre mesi.”
“E il resto dei cinque mesi?”
“Ho capito!” Sbottò aggressivo. Si passò le mani trai capelli, ravviandoli senza successo, visto che li aveva troppo lisci perché non gli tornassero sugli occhi. “Merlino, ho… lo so. Ho capito.” 

“Se l’avessi capito non sarei qui.” Era come recitare, stimò stupito. Sentiva la sua voce pacata e fredda, quando dentro di sé aveva voglia solo di prenderlo a calci e poi scoppiare a piangere come un bambino frustrato. “Non sarei fradicio e con un accendino arrugginito in mano altrimenti.”
“Se non fossi voluto tornare, tu non saresti qui.” Replicò di getto Tom, per poi finire in una specie di mormorio. “Il Deluminatore si attiva quando…”
“… quando il desiderio è presente da parte di entrambi.” Finì per lui, fingendo di non vedere che stava tentennando da dieci minuti, sporto inconsciamente verso di lui. Spesso il corpo di Tom ignorava la sua introversione e mandava segnali grossi come fanali all’altra persona, sperando che captasse.

Vuoi toccarmi? Non puoi.
Non doveva farsi impietosire comunque. Non doveva cedere.
“Ti ho chiamato.” Esordì. “Vi ho chiamato. Volevo tornare.” Continuò. Poi si voltò, dandogli le spalle, fingendo di mettere a posto il bollitore senza poi farlo. “Ma lo sai… Sai cos’ho fatto. Sai che ho rischiato di ammazzare te e zio Harry.”
Ma non l’hai fatto.” Calcò la parola sulla particella avversativa. Amava le particelle avversative. “Doe voleva uccidermi e prendersi la bacchetta. Tu lo hai spinto via, e sei caduto dentro la passaporta.” Gli ricordò. “Mi hai salvato la vita, Tom!”

“Se ti avesse ucciso non avrei sopportato di sopravvivere. In ogni caso, non ci perdevo molto.” Disse con una semplicità talmente disarmante che fu un vigoroso colpo  contro la parete che stava cercando di costruire per punirlo. “E ci sono studi che dimostrano che anche le passaporte mal funzionanti possono comunque materializzare.”
“Te lo stai inventando.”

Tom gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla. “Già.” Ammise. “Avete fatto ricerche, vedo…”
“Solo per sapere se avevi bisogno di una tomba.” Ironizzò sentendo tornare il familiare senso di dolore e desolazione. Si focalizzò sul fatto che con Tom ci stava parlando.

“Cos’è successo… dopo?” Gli chiese, voltandosi e guardando di nuovo il bollitore. Parve riflettere, poi ci verso una bottiglietta d’acqua e accese il fornelletto. Lo fece senza bacchetta e non alla maniera babbana. Ci passò semplicemente la mano sopra. Al inghiottì un’esclamazione di meraviglia.
Dannato straordinario stronzo… Hai fatto l’eremita, ma figurati se hai smesso di studiare.
“Molte cose.” Finse indifferenza. “La Prynn era un agente della sicurezza magica americana. Doveva tenerti d’occhio, ma era corrotta. Il governo americano ha finto di non saperne niente fino alla fine. Papà e la Direttrice erano furiosi. Poi zio Dudley ha minacciato di mandare all’aria lo Statuto di Segretezza… comunque la cosa è stata risolta subito. Papà ha molto ascendente su di lui.”
Tom fece un mezzo sorriso divertito. “E su chi non ce l’ha?”

“Su di te. Non si spiega altrimenti perché tu abbia fatto una scelta così egoista.” Replicò. Tom serrò le labbra, lo guardò minaccioso, ma non rispose. Non poteva, e lo sapevano entrambi. “Ad Hogwarts le cose sono state più difficili. I genitori erano in ansia, un sacco di conferenze stampa ed interviste. Comunque sono riusciti a tenere fuori la stampa, e quindi la gente, dalla cosa dei Doni della Morte. È stata divulgata la storia del tuo rapimento però…” Aggiunse spiandone le reazioni. “Ora tutti sanno che sei un purosangue con una famiglia orribile. Ma è tutto qui.”
Tom non diede segno di essersela presa. Annuì semplicemente. “E la Bacchetta di sambuco?” Guardò quella che aveva in mano. “Dov’è?”
“In un posto molto più sicuro di prima. Ed è tornata a papà, ovviamente. Mi ha disarmato.” Si era sentito molto più leggero dopo. In ogni caso Fanny era rimasta. Quello gli aveva fatto piacere invece. “Mi sono ripreso la mia.”
“Capisco…”
Rimasero in silenzio. Al sentì le gocce di pioggia battere violentemente contro la vetrata. L’ambiente dentro era stranamente caldo, illuminato dalla luce di una ventina di candele posizionate in punti strategici. Gli ricordava un po’ Hogwarts.
Tom si versò del the, prendendo la tazza tra le mani e sedendosi al tavolino. Non lo bevve però.

A quel punto glielo chiese. 
“Perché?”
Non c’era bisogno di aggiungere altro, il resto della domanda era implicito.

Perché non sei tornato?
“Avevo paura.” Ammise, e un altro pezzo del muro cadde con un tonfo sordo. Era stupido, ma in fondo conosceva Tom. Sapeva quanto gli costasse, per quanto fosse assolutamente idiota non ammettere le proprie debolezze. “Io… pensavo che sarebbe stato meglio se non fossi tornato. Inizialmente volevo. Ma poi… ho pensato.”
Fai sempre dei gran casini quando pensi… - Ma non lo disse. Ormai sarebbe stato solo crudele infierire.

“A cosa pensavi?” Chiese invece.
Tom sospirò. “A chi ero, al motivo per cui ero entrato nella vostra famiglia. Motivi sbagliati, oppure caso… Ma io sono stato…” Inghiottì la parola come fiele e per un attimo i suoi lineamenti furono attraversati da un brivido di disgusto. “… creato… per uno scopo.”
“Non pensi che io sia felice che tu sia vivo?” Gli chiese, serio. “Che… non sia felice che qualcuno ti abbia dato la possibilità di esistere, che ci abbia dato, anche se non volendo, la possibilità di conoscerci?” Il tono suonava come un’accusa, e da parte sua lo era davvero.

Non mi importa per quale diavolo di motivo sei nato, Tom.
Mi importa di vederti vivere.
Tom distolse brevemente lo sguardo, per poi riportarlo su di lui. “Non ho detto questo…”
“Bene, non dirlo mai.” Replicò, inspirando. “Non importa da chi o come si nasce, ma come si decide di vivere la propria vita, papà lo dice sempre.”
“Ma io ho un passato.” Rimarcò con rabbia malcelata, e dolore. Al se lo sentì addosso come una cappa opprimente. “Il mio corpo, il mio viso, i miei occhi… possono essere quelli del figlio di Hohenheim, ma… chi sono…”
Al scattò e annullò la distanza tra di loro. Gli afferrò un braccio, sentendolo freddo e ossuto. La cosa gli strinse il cuore: perché era così maledettamente freddo, se era più asciutto e meglio coperto di lui?

“Tutto questo è Tom. Tu non sei il figlio di quell’uomo e non sei Voldemort.”
“Ma potrei diventare come lui.” Replicò, liberando il braccio. Sembrava però sorpreso dall’improvvisa vicinanza. Non scostò la sedia infatti. “Nessuno nasce malvagio. Lo si diventa.”
“Non lo diventerai.” Sussurrò. Le sue dita cercarono la spalla dell’altro, sfiorandola. “Non lo diventerai… perché sei troppo scemo.” Concluse con mortale serietà.
Sbuffò divertito, passandosi una mano sul viso. “Sì, forse è vero.”

Al distolse lo sguardo, rendendosi conto di essere troppo vicino.
Voglio toccarlo.
“Ma potrei comunque sbagliare… di nuovo.” Aggiunse Tom, distogliendolo dai suoi pensieri.
“Non credo.” Disse molto semplicemente. Vedeva le sue mani indugiare, lunghe e forti sulla ceramica della tazza. Le voleva addosso. “Non credo che succederà di nuovo.”
Smettila. Che diavolo ti prende?
Mi prende che ho diciassette anni e lo odio. E lo amo. E lo voglio.
È lecito impazzire, qui.  
Tom lo scrutò, confuso. Persino diffidente. “Perché? C’è già una cella per me ad Azkaban?” Chiese, e non era del tutto scherzoso.
“No, ci sarei io. E sarei peggio di Azkaban.”
Tom stirò un mezzo sorriso. Era il suo mezzo-sorriso, e non era cambiato di una virgola. Era bello.
“Indubbiamente…” Replicò. “Prima pensavo volessi uccidermi.”
“Precisamente.” Ironizzò. Rifletté su un punto che prima aveva tralasciato. “Vivi da solo?”
Se è stato malato qualcuno deve averlo curato…

Qualcuno aveva diviso otto mesi di vita con Tom. E non gli piaceva per niente che non ne avesse ancora parlato.
“Nel faro sì. Ma la fattoria è di proprietà di una donna. Ci vive con sua nipote.”
“Giovane?” Si informò neutro.

Tom lo guardò stranito. “La nipote? Ha dieci anni, quindi direi di sì.”
“No, intendevo la donna.”

Lo vide rifletterci brevemente. E sogghignare. Stava quasi fargli notare che no, non aveva nessun diritto di fare lo stronzo quando ancora non l’aveva perdonato, ma poi rispose. “È sua nonna, Al…”
“Oh.”
Ci fu un breve silenzio. Stavolta molto più confortevole dei precedenti, anche se Tom stava ghignando.

“Sei geloso?” Si informò con leggerezza. Gli occhi però lo trapassarono da parte a parte, attenti.
Sì. Contento?
Non voglio che in otto mesi qualcuno si sia sentito in diritto di giudicarti libero.
Otto mesi non ti fanno ripartire dallo start. Non devono. Affatto.
“No.” Mentì con rabbia. “Non sono geloso. Non stavo pensando a quello.”
“Bene.” Approvò, ma non smise di avere quella faccia soddisfatta. “Neanche io.”

Al fece una smorfia. Non voleva parlare di quello. Davvero, non voleva, perché il suo corpo la stava già tradendo. Sembrava che ogni singola cellula stesse mettendosi in combutta per ricordargli quanto e come gli fosse mancato Thomas Dursley. In tanti, molti sensi. “Parliamo di cose serie…” Tentò. “Cosa hai intenzione di fare adesso?”
“Tornare in Inghilterra.” Rispose subito, ma perdendo il sorriso. “E provare a rimediare. Se posso.” 
Al si mordicchiò l’angolo di un labbro. “La situazione non è…”
“Non sono stupido.” Lo fermò. “So cosa ho fatto. Ho aiutato un criminale internazionale, anche se fino all’ultimo non ho capito cosa volesse veramente. Dovrò rispondere a molte domande, e se le risposte non piaceranno, le cose non  potrebbero mettersi bene per me. Ma … tornerò.” Inspirò brevemente, allontanando il the ormai freddo. “È quello che devo fare, suppongo.”

Al annuì impercettibilmente, sentendo come se un macigno improvvisamente diretto verso di loro avesse cambiato traiettoria, decidendo di graziarli. “Papà… Lui ti aiuterà.”
Tom sorrise lievemente, stavolta senza strane smorfie o sottointesi. “Lo so, l’ha sempre fatto. E non ho mai capito perché…”
“Ci deve essere per forza un motivo? Ti vuole bene.” Sbuffò. “Non è facile volertene, ma non sei una persona che si dimentica.”

Beh, sai com’è, io ti amerò per il resto della mia vita.
Tom a quel punto gli afferrò il polso. Aveva la mano gelida, ma divenne tiepida a contatto con la sua. Osmosi, forse? C’entrava con la magia?
Era una bella sensazione però.  
“Non ti ho detto che ti ho perdonato.” Obbiettò, cercando di scostarsi.
“Lo so.” Serrò la presa sul suo polso, e fu certo che sentisse il suo cuore battere come un tamburo. “Ma tu, Al? Mi vuoi ancora bene?” Non era una domanda, lo stava stava sfidando a contraddirlo.
Stupido stronzo viziato.

Avrebbe voluto spaccargli la testa, ma valutò che non ne sarebbe valsa la pena, visto che lo voleva accanto a sé per tutto il resto della loro – magica – esistenza.
“Rifallo e ti ammazzo.” Disse in ogni caso. “Sparisci di nuovo e verrò a cercarti solo per farlo.”
“Più probabile che mi ammazzi prima da solo.” Replicò, guardandolo con un’intensità tale che si sentì bruciare la pelle come se ci stessero colando della cera bollente. Non era una sensazione spiacevole, stranamente. “Non hai risposto alla mia domanda, comunque.”

Merlino…
“Tom, io ti amo.” Scandì bene ogni sillaba, affinché penetrasse con lo stesso fuoco in quella zucca dura ed egoista. E arrossì, naturalmente, perché era un’adolescente ed era stupido. “E non credere sia meglio. Vuol dire solo che sono ancora più arrabbiato per quello che hai fatto.”
Tom rimase serio, anche se etichetta voleva che si illuminasse e gioisse. 
Non è mai stato tipo, comunque.
“Certo che lo è.” Osservò a bassa voce, facendogli venire uno strano magone più vicino alla zona lombare che al petto. “Amare fa male. E' troppo troppo aspro, troppo violento; e punge come una spina².” Recitò sovrappensiero. Questo prima di strattonarlo con una certa forza e farlo crollare sulle sue ginocchia.
“Non fare il purosangue adesso!” Borbottò, sentendosi stupido ad emozionarsi perché Tom sì, sapeva recitare poesie e l’aveva sempre saputo fare bene. E per la posizione, certo. “Che roba è? E fammi alzare!” Infatti gli era impossibile, visto che l’aveva bloccato in un intreccio di braccia.
“Non cosa, chi. Shakespeare.” Ignorò l’ultima ingiunzione stringendolo forte: gli stava persino facendo un po’ male.  

“Tom, allenta la presa…” Suggerì senza troppa convinzione. “Stringi troppo.”
“Non ti lascio.” Fu la risposta. “Scusa.”
Al inspirò, mentre sentiva qualcosa sciogliersi dentro di sé, e diventare caldissima. Sentì le lacrime premergli al bordo degli occhi, e affondò il viso nei capelli dell’altro.

Pianse, finalmente. Si rese anche conto che in tutti quei mesi non aveva pianto davvero una sola volta, da quanto Tom era scomparso. Supponeva che i pianti nel sonno non contassero.
Sentì la mano di Tom posarglisi sulla schiena, delicata: aveva sempre un modo particolare di toccare le cose a cui teneva.  
Non che si considerasse un libro, ma, rifletté, probabilmente era molto più raro che Tom toccasse le persone così, che i suoi personalissimi oggetti personali.
Inspirò il suo odore. Era diverso. Sapeva di sale, di vento e di cera per candele. Ma c’era anche il suo profumo… quello era rimasto immutato, e lì ci affogò letteralmente.
Gli esseri umani dopotutto sono animali che ragionano… E spesso non ragionano.
“Chi è che stringe troppo adesso?” Gli sussurrò all’orecchio. “Mi stai strangolando.”
“Oh, sta’ zitto… rovini sempre l’atmosfera.” Lo riprese, soffocando una risata. Erano mesi che non si sentiva una ragazzina piagnucolosa. Assurdo a dirsi, ma gli era quasi mancato.

Quasi.
Tom gli diede un colpetto sul fianco, facendolo spostare. “Sei tu che sei troppo sdolcinato.” Replicò con un sorrisetto, che si spense non appena lo guardò in faccia. Al non capì subito perché.
“Che c’è? Tanto i tuoi capelli sono comunque un disastro.” Lo informò, tirando su con il naso con grande dignità. “Da quanto non li tagli?”
“Non è per i capelli… ” Replicò, palesemente stizzito per l’osservazione. Poi esitò, schiarendosi la voce. “È solo che non voglio più vederti piangere… per causa mia.”

Al sbuffò. “Questo è sdolcinato Tom.” Si alzò dalle sue ginocchia, perché cominciava a sentirsi davvero una ragazza con le codine. “E poi lo sai che ho i dotti lacrimali sensibili.”
“Si dice così quando si è dei piagnucoloni?” Lo prese in giro, ma lo fece con cautela, spiandone le reazioni. Stava testando fin dove poteva spingersi. Quell’inattesa cautela gli piacque.

In realtà si stavano prendendo le misure. Si stavano riabituando a vestire i loro vecchi panni.
Era strano, ma piuttosto meraviglioso.
Penso di nuovo al plurale.
“Va’ al diavolo.” Gli suggerì magnanimo. “Ma prima fammi una tazza di the.”
“Preparatela da solo.” Replicò, indispettito dall’ordine plateale. “Il bollitore è davanti a te.”
“Non credo proprio.”
Tom lo squadrò di nuovo, poi storse le labbra in una smorfia. “Durerà a lungo questa schiavitù? Per quanto me la farai pagare?”
“Otto mesi come minimo, per la legge del taglione.” Gli sorrise. “The.”

Tom sbuffò contrariato, ma quando gli diede le spalle per riempire il bollitore lo vide sorridere.
Sorridere davvero.
 
****
 
 
Albus aveva accettato il the, e poi si era lamentato che la miscela fosse orribile.
Lo pensava anche lui, in effetti. Erano inglesi.
E poi, avevano parlato. Gli erano sembrati giorni, con tutto quello che avevano da dirsi. Soprattutto era l’altro a parlare, ad aggiornarlo: gli aveva raccontato di come si fosse svolto l’anno scolastico, di Rose e Malfoy … e di Ted e James, di cui peraltro aveva sempre sospettato.
Erano così palesi… Povero Harry.
Lui di rimando gli aveva raccontato la vita monotona di Putgarten, i suoi lavoretti e di Meike e Cordula.
Al lo aveva riempito di domande.  Non si era lamentato.
Avevano evitato argomenti come … beh, come se stesso. Argomenti difficili, spinosi, come…
Cosa farò quando tornerò in Inghilterra. Soprattutto… cosa ne faranno di me?
Al si era raggomitolato sulla sua branda, e adesso giocherellava con la tazza, grattando la ceramica sbeccata del bordo con un’unghia. “Penso che dovrei mandare un Gufo a papà. Dovrei fargli sapere dove sono… e che ti ho trovato.” Esordì, mentre fuori la pioggia era finita ed erano probabilmente le tre del mattino.
Tom sospirò, tacitando un’ondata di panico. “Naturalmente. Il problema è che qui non c’è un Gufo nel raggio di miglia. Questa è una comunità babbana.”
“Ma i Wollin non sono maghi?”
“Cordula è una maganò, come ti ho detto, e Meike non è ancora andata a scuola. A nessuna delle due serve un gufo.” Spiegò paziente. “Potresti telefonargli però.”
Al prese un’aria titubante che lo fece quasi ridere: anche se era più avvezzo alla tecnologia dei suoi fratelli o dei suoi genitori ne era comunque intimidito. “Sì, ma alla Tana non c’è il telefono. Ti ricordi? Nonno Arthur provò a montarlo, ma quasi esplose il salotto…”

“Giusto…” Annuì. “È il compleanno di Harry. Sono tutti alla Tana stanotte.”
“Già…”
Rimasero in silenzio. Tom era rimasto seduto al tavolino. Non perché la brandina fosse piccola per due.

No, decisamente tutto il contrario.
Sapeva che per il perdono di Al avrebbe dovuto passare una via crucis, letteralmente. Le frecciatine non si erano risparmiate in quelle ore di conversazione.
Ma lo aveva accolto, di nuovo.
C’era una cosa che però lo tormentava: come lo aveva accolto?
Come amico? Come… ragazzo?
Doveva saperlo, e non aveva il coraggio di chiederlo.
Decisamente imbarazzante.
Specialmente perché aveva una voglia incredibile di baciarlo. Zabini, per quanto fosse un amorale figlio di puttana, su una cosa aveva sempre avuto ragione: Al, crescendo, sarebbe diventato affascinante.
E lo era. Non in senso canonico, certo: erano i suoi lineamenti dolci e i grandi occhi verdi a renderlo desiderabile. Non certo sogghigni consumati o sguardi maliziosi.
Era quell’aria dolce e tranquilla a far venir voglia di… stropicciarlo.
Se tento di baciarlo mi tira un pugno?
“Fino a domattina i miei non torneranno a casa. Quindi… credo dovremo aspettare ancora un po’.” Gli disse, finendo con un ultimo sorso il the. “Mi pare di aver capito che qua non c’è niente che possa riportarci a casa. Né una scopa, né la metropolvere.”
Tom annuì, distratto in modo ignobile dal movimento delle sue labbra.
Oh, se gli erano mancate.
“Possiamo provare ad usare il deluminatore.” Suggerì.
Al fece una smorfia orripilata. “Piuttosto mi butto dalla scogliera. Mi è bastata una volta, grazie tante.”

“Allora temo che dovremo aspettare zio Harry…” Concluse. Si sentiva nervoso, il che era francamente ridicolo perché la presenza di Al era sempre stata una costante nella sua vita.
Solo che dopo otto mesi, dopo quello che è successo tra di voi…
Sarai un patchwork, ma sei pur sempre un ragazzo, mio caro. Ed i tuoi bisogni…
Non era sano ascoltare voci nella propria testa, così Tom annuì a qualcosa che aveva detto Al, che intanto aveva continuato a parlare ignaro di tutti i suoi turpi pensieri.
“… allora prendo il lato a destra.” Disse.
Tom ebbe un attimo di smarrimento: quale lato?
“… Di che stai parlando?”
Al lo guardò come se fosse scemo. “Del letto.” Disse. “Non vorrai farmi dormire sul pavimento, spero.”

“No.” Replicò meditabondo. Guardò la brandina, che in quel momento gli sembrò più squallida e malinconica del solito. “Ma non credo c’entreremo.”
Al lo guardò di nuovo come se valutasse l’idea che qualcosa l’avesse colpito in testa violentemente. “Engorgio.” Recitò, muovendo la bacchetta. Il letto diventò un due piazze piuttosto confortevole.

“Giusto…” Convenne, stizzito dal fatto di non averci pensato prima.
Il fatto è che non voglio pensarci. Non so se sarò in grado di dormire con lui, nello stesso letto.
Si sentiva incredibilmente goffo. E idiota. Ed era una sensazione irritante.
“Scusami… ma sto crollando dal sonno. È stata una giornata… lunga.” Sorrise Al. “Ti dispiace se mi metto a letto?”
“No. Fa’ pure.” Replicò brusco. Al non sembrava capire o anche solo intuire il suo disagio. Maledettamente frustrante.
L’aveva già detto?
Finse di dargli la schiena per prendere le tazze e portarle… da qualunque altra parte, l’importante era dargli la schiena mentre si spogliava.
Sbirciò da sopra la spalla.
Albus aveva sempre avuto un corpo più armonioso del suo, che si era sentito sempre troppo alto e magro. Non era molto alto, ma aveva un fisico asciutto e proporzionato.
Questo, oggettivamente.
Soggettivamente… era uno stramaledetto efebo e lui si sentiva la bocca secca e un’urgente bisogno di …
“Vado a dormire da Cordula.” Sussurrò, sentendo la sua voce provenire da una caverna profondissima.
Al lo guardò confuso. “Perché? Nel letto c’è posto per entrambi. L’ho affatturato apposta!”
E Tom capì. Capì perché c’era un sorriso che aleggiava sulle labbra di Al.
“… Mi prendi per scemo?”
“In realtà sto solo facendo il punto della situazione.” Si sentì rispondere, mentre il sorriso veniva alla luce, tenero e spontaneo come al solito, ma venato da qualcosa che aveva molto poco a che fare con l’innocenza. Lo vide comunque arrossire. Perché era Al. “Ti senti a disagio ad avermi qui?”

Averti…
“Non lo chiamerei esattamente disagio.” Replicò cattedratico, deglutendo carta vetrata. “Ripeto, mi prendi per…”
E non riuscì a finire la frase perché Al annullò la distanza tra di loro, alzandosi leggermente per poterlo baciare. Tom sentì un click, da qualche parte, nella sua testa. Questo prima di tirarselo contro e ricambiare il bacio come se fosse l’ultimo che potessero darsi.

Finalmente, finalmente. Finalmente.
Le guance di Al erano morbide mentre ci premeva appena le dita. Gli accarezzò le labbra con la lingua e lo sentì mugolare, mentre, prevedibilmente, dovette abbassarsi perché l’altro non riusciva più a rimanere in quella posizione.
La pelle nuda di Al, coperta solo dagli slip, gli sembrava bollente come lava. Solo una sua impressione probabilmente. Ma ebbe la certezza che non se ne sarebbe separato mai più.
Dentro la sua testa, c’era solo Al.
Al si staccò, mordicchiandosi un labbro. “Ho freddo.” Gli comunicò, apparentemente estemporaneo.
“… vado a prenderti qualcosa per coprirti?” Suggerì, come se volesse sul serio coprirlo.
“No.” Esitò, diventando di un curioso color aragosta. “… Spogliati tu.”
Si lasciò aiutare a togliersi il maglione e la camicia. La camicia, in effetti, la lasciò tutta ad Al.
Non aveva idea di come fosse la sua faccia, in quel momento. Se fosse addirittura arrossito.
Quello che importava veramente era il viso concentrato di Al mentre gli sbottonava le asole e lasciava cadere la stoffa oltre le sue spalle, e poi a terra.
Si impose di rimanere immobile mentre gli passava le mani lungo il petto e poi sullo stomaco, a toccare quella porzione maledetta. Inspirò.
“Cosa vuoi fare?” Gli chiese, così piano che fece persino fatica a sentirsi.
Al alzò lo sguardo. “Riconoscerti.” Disse semplicemente, prima di premergli le labbra sul collo, in un bacio sperimentale e attento.

Caddero anche i suoi pantaloni, e vennero calciate via le scarpe.
Tom a quel punto si ritenne sufficientemente torturato, ed afferrò per la vita Al, spingendolo a letto, provocandogli un’esclamazione e una mezza risata trattenuta.

“Ehi, non sono un cuscino!” Sbuffò, passandogli le braccia attorno al collo.
Tom fece una smorfia di rimando. “Cosa credi di ottenere, dicendomi certe cose?”
Al sorrise. “Beh. Qualche idea in merito l’avrei.”
Tom entrò, poco onorevolmente, nel panico.
“Al, io…” Non aveva la minima idea di dove mettere le mani suonava male?
“Tom…” Inspirò. “Domani arriverà papà, e verremo di nuovo trascinati nella realtà. E sappiamo entrambi che non sarà una passeggiata…”
Tom convenne con un cenno della testa. Era difficile mantenere la concentrazione quando i loro corpi erano così vicini, così caldi… così tesi.

“Ma stasera … nessuno sa che sono qui, e nessuno sa che sei ancora vivo. Stasera è solo nostra.” La voce si spense appena, venata da imbarazzo. “Solo io e te. E mi sei mancato tanto.”
“… Non è che hai bisogno di convincermi…” Sussurrò, sentendosi il cuore all’altezza più o meno della gola. E quel calore, dimenticato per mesi, irradiarglisi ovunque, petto, stomaco e cuore.
“… Lo sai che quando sei agitato parli come Hagrid?”
“Sta’ zitto.” Appoggiò la fronte contro la sua, sentendo i capelli di Al sfiorargli le guance. E il suo profumo, ovunque. Sentì il suo orgoglio urlare. Lo fece tacere imperiosamente. “… e resta con me.”

Al sorrise. “Mi pare ovvio. Dove altro dovrei andare?”
 
E poi ci furono baci, carezze, mormorii, mentre fuori aveva cominciato a risplendere la luna, prossima al tramontare, eppure luminosissima.
Tom vide, e per anni si ricordò che in quella notte, la loro prima notte assieme, la luce lattiginosa accarezzasse la pelle di Al dolcemente, come se volesse baciarlo anche lei.

Non ne fu geloso.
Quello non fu sesso, di cui parlavano con grandi sogghigni gli altri. Fu potersi unire, di nuovo.  
Dopo gli accarezzò i capelli, mentre Al gli si accoccolò addosso. Non conosceva bene i gesti giusti, ma ad Al non sembrava importare. Non gliene era mai importato, ed era per questo, anche, che lo amava.
 “Non hai paura?” Gli chiese, pianissimo, quasi temesse di svegliarlo, anche se aveva gli occhi aperti e lo stava guardando.
Della Thule, che non è certo sparita nel nulla. Di stare vicino a qualcuno che probabilmente subirà un processo. Di come sarà vivere il nostro rapporto così, adesso.
Potremo farlo?
Al esitò, poi gli appoggiò la fronte contro la tempia. “Certo che sì. Non averne sarebbe da stupidi.”
“Sembri calmo…”
“In realtà sarei stanco.” Sbuffò. “Comunque… non averne è molto peggio. Vuol dire rassegnarsi. E con te non mi voglio rassegnare mai.” Si sporse a baciargli l’angolo delle labbra. “Già fatto, grazie. Ed è stato uno schifo.”
Tom non rispose. Tirò la coperta sopra ad entrambi e lo strinse a sé.

Al gli sorrise. Non disse nulla, ma a Tom sembrò di leggere una frase dentro i suoi occhi.
Bentornato a casa, Tom.
Lo era davvero.
 
 
 
‘Cos if one day you wake up and find that your missing me
Thinking maybe you’d come back here to the place that we’d meet
And you’d see me waiting for you on the corner of the street
So I’m not moving³


 
 
 
****
 
 
Note:
1.Le canzoni qui e qui
2.William Shakespeare, Sonetti.

 
Non so sinceramente se questo capitolo vi soddisferà. Certo che ci ho sudato sangue, sudore e lacrime, giuro.
Argh, questi due giovincelli, quanto mi fanno penare! *guarda con amore Teddy e James invece, che sudano preoccupatissimi*
Ai posteri, l’ardua sentenza! Ah, un'altra cosa. Una ragazza favolosa ha dedicato un 'mi piace' a questa storia su Facebook. Qui il link se lo vedete.

 
 
  
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