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Autore: MedOrMad    21/12/2010    0 recensioni
"Sapeva che era un errore. Era assolutamente consapevole del fatto che sollevare lo sguardo e seguire il proprio istinto avrebbe cambiato la sua vita. E non nel migliore dei modi.Percepiva nelle viscere che cedere e cercare un volto per quella voce sarebbe diventato presto uno degli errori più stupidi della sua vita.Perché aveva sentito tante storie su quella voce melliflua."
A volte non sappiamo resistere alla tentazione di rincorrere e cercare ciò che in realtà potrebbe non essere un bene per noi. Eppure in certi casi è l'unica cosa che possiamo fare. E per alcune persone la tortura di qualcosa che non sopportano, può diventare la loro salvezza.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Looking for that something

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Sapeva che era un errore. Era assolutamente consapevole del fatto che sollevare lo sguardo e seguire il proprio istinto avrebbe cambiato la sua vita. E non nel migliore dei modi.
 
Percepiva nelle viscere che cedere e cercare un volto per quella voce sarebbe diventato presto uno degli errori più stupidi della sua vita. Perché aveva sentito tante storie su quella voce melliflua.
Non le era mai importato più di tanto di colui a cui apparteneva: certo, sapeva chi era ma, onestamente, non si erano mai ufficialmente incontrati, né tanto meno degnati di un secondo sguardo.
Ma oggi, per qualche bizzarra ragione, era intrigata dal suono che nasceva dalle sue labbra, dalle leggende metropolitane che circolavano su di lui, dall’intensità del suo tono, dal suo odore che si insinuava tra le narici di lei e le si diffondeva dentro, spargendosi nel suo sangue come veleno.
 
Non che ne fosse attratta: non riusciva neppure ad immagine e mettere a fuoco il suo viso e, in ogni caso, non aveva tempo per questo ora.
 
Aveva un piano per se stessa e nessuno poteva mettersi in mezzo. Aveva venticinque anni e aveva già sprecato abbastanza tempo a godersi la vita e a comportarsi da giovane irresponsabile.
 
“E’ ora di crescere, futura cognatina.”
 
Erano state quelle le poche ma cruciali parole che le aveva sussurrato la sua migliore amica Becky sei mesi prima. Il giorno in cui si trovò ad un bivio e fu costretta a decidere che fare della sua esistenza. Il giorno in cui realizzò che era arrivato il momento di mettersi al passo con i suoi amici e darsi una raddrizzata. Era ora di comportarsi da adulta e smettere di illudersi di essere una ragazzina, libera da obblighi e responsabilità.
 
Aveva trascorso gli ultimi due anni viaggiando e divertendosi. Lo chiamava un esperimento di vita, ma quelle erano sono belle parole usate per nascondere il fatto che voleva divertirsi e non comportarsi da persona matura. Non trovava nulla di affascinante nello scegliere un percorso, costruendo qualcosa di stabile. Tutto ciò avrebbe comportato l’ideazione di un progetto di vita al quale restare fedele, senza dubbi e cambi di rotta. E in questo lei non era affatto brava.
 
Tanto per cominciare era affetta da insicurezza cronica: ogni volta in cui pensava di aver fatto la scelta giusta, una moltitudine di innumerevoli dubbi le sfioravano l’anima e le facevano rimettere tutto in discussione.
 
La maggior parte del tempo pregava perché qualcuno le si materializzasse di fronte, regalandole un esplicativo libretto delle istruzioni della vita. Giusto per sicurezza, ecco.
 
Ma questa idilliaca prospettiva non si realizzava mai, sfortunatamente. Quindi aveva optato per un confortante, e decisamente più pratico, ripiego: sfruttava suo fratello Ben e la sua futura moglie, Becky –che coincidenza vuole essere anche la sua migliore amica- come guide personali.
Le loro serate di cineforum erano semplicemente un alibi per mascherare delle deliziose sessioni casalinghe di terapia, durante le quali li bombardava di domande su se stessa, sulla propria condotta e sulle proprie decisioni, piene di E se e Forse è stato un errore.
 
Generalmente Ben finiva col darle uno schiaffo in testa, aggiungendo che era fastidiosa, irritante e frustrante, prima di lasciare la stanza, come pure il piacere delle moleste insicurezze di sua sorella, alla sua tollerante fidanzata.
 
Sapeva di essere una spina nel fianco quando entrava in modalità Non sono certa di niente, ma non riusciva a controllarsi. Ogni qualvolta si trovasse costretta a prendere una decisione che non coinvolgesse sesso senza impegni, si trasformava in questa versione infantile di se stessa e si sentiva come un cucciolo sperduto.
 
Gli errori la terrorizzavano: non per quello che la gente avrebbe potuto pensare, non le era mai importato più di tanto del giudizio altrui, ma perché non puoi disfare qualcosa una volta fatta, non puoi tornare indietro e cancellare il disastro, e lei aveva questa assurda convinzione secondo la quale, una volta che hai fallito, non puoi tornare indietro e sistemare tutto.
 
Era così terribilmente cocciuta: nella sua visione, qualsiasi cosa fai resta scritta sulla tua pelle per sempre, a prescindere dalle circostanze e da cosa fai in seguito e, nella sua piccola mente malata, il rimediare ad un errore era solo un espediente, una scusa inventata da chi fallisce per trovare una scappatoia e sentirsi meglio con se stessi. Insomma, per alleviare il proprio senso di colpa e di inadeguatezza verso le proprie errate azioni.
 
Questo fu il motivo per cui, quando suo padre le chiese quali fossero i suoi programmi per il futuro, recitò la parte della brava e saggia ragazza e si inventò questa splendida bugia secondo la quale viaggiare per il mondo sarebbe stata un’ottima occasione di crescita personale e culturale, un eccellente banco di prova: gli raccontò di quanto questa esperienza l’avrebbe aiutata a diventare più sicura e indipendente e di quanto sarebbe stato utile nella riscoperta di se stessa. Senza contare l’utilità professionale che avrebbe avuto per la sua carriera futura lo studio delle diverse lingue che avrebbe potuto imparare.
 
Lui non le chiese di che carriera stesse parlando di preciso. E lei si guardò bene dal dirglielo.
 
Ma una cosa la sapeva. Era la cocca di papà, la sua perla. Lui si fidava di lei, credeva in lei e l’amava a prescindere da tutto. E se lei pensava che esplorare il mondo fosse la cosa giusta, ciò di cui aveva bisogno, lui non aveva nulla da ridire. Avrebbe fatto qualunque cosa in suo potere per rendere felici i propri figli: tutti lo sapevano, ma lei era l’unica a sfruttare la cosa a suo vantaggio.
 
Era una stronza, ne era cosciente. Ma se approfittare della bontà di suo padre le concedeva tempo e le permetteva di posticipare il proprio ingresso nel mondo reale, le stava più che bene passare da stronza. In fondo era per una giusta causa, o almeno questo era quello che le piaceva pensare.
 
E allora si limitò ad ignorare la voce dentro di sé che le diceva che si stava comportando da stupida e da figlia ingiusta, bloccò le suppliche di Becky che le chiedeva di smettere di fuggire dalle responsabilità e gli insulti di suo fratello che l’accusava –a ragione- di essere una ingrata e viziata mocciosa, fece i bagagli, comprò il suo primo biglietto aereo e volò oltreoceano: lontana dalla sua famiglia, dalla sua città e dalla versione cresciuta di se stessa.
 
Prima fermata: Madrid. Che c’è di meglio della Movida madrileña per continuare a comportarsi da liceale? Tequila, chupiti, magari qualche spinello e tanto sesso senza impegni. Niente lavoro, niente scuola e, soprattutto, nessuna decisione vitale da prendere.
 
E per due anni se la spassò da matti. Era libera e aveva persino la benedizione dei suoi genitori e il permesso di essere una spensierata venticinquenne.
 
Fino al giorno in cui le due persone che amava di più al mondo, decisero di rovinarle tutto.
 
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Era in preda ai postumi della sbornia, nuda e avvolta nelle proprie lenzuola quando, alle undici di mattina, il suo cellulare cominciò a squillare, facendole pulsare la testa come se qualcuno le stesse percuotendo il cranio con un bastone.
 
Sbuffò con irritazione e si nascose sotto il suo caldo e soffice cuscino, convinta che fosse il modo perfetto per bloccare il rumore e proteggere i propri fragili e stanchi timpani.
 
Sfortunatamente il corpo steso accanto a lei non sembrava pensare che lei avesse il diritto di nascondersi.
 
Una mano forte si scontrò con la sua schiena nuda, spingendole l’aria fuori dai polmoni e facendole risalire la rabbia in gola.
 
“ Rispondi al tuo stupido telefono.” Fu quello che si limitò a dire una voce maschile con un forte accento italiano, prima di voltarsi sul lato e  spostare il proprio peso sul materasso.
 
Lei aggrottò la fronte confusa e si sollevò velocemente, mettendosi seduta al centro del letto mentre le lenzuola, scivolandole in vita, la lasciarono esposta dai fianchi in su. La musica della suoneria del suo cellulare che rimbomba nel silenzio della stanza, i suoi occhi fissi sulla schiena dello sconosciuto nel suo letto, i suoi tonici dorsali immobili di fronte a lei e il suo torace che si muove al ritmo dei suoi respiri regolari.
 
“ Scena già vista.” Pensò lei.
 
Afferrò il telefono e lesse il numero di casa dei suoi sul display, prima di premere il tasto apposito per far tacere la suoneria. Avrebbe risposto tra un minuto, prima c’era una cosa che doveva fare.
 
“ Chi sei tu e perché sei ancora qui?” domandò in tono scostante, spingendo ripetutamente contro la schiena del ragazzo per assicurarsi che fosse sveglio e la stesse ascoltando.
 
“ Diego” risposte semplicemente lui senza voltarsi e aggiunse: “ Sono ancora qui perché mi andava di restare.”
 
Una risata irritata le schioccò in gola e, infastidita, afferrò un angolo del cuscino dell’intruso e lo tirò a sé, facendolo scivolare via da sotto la testa di lui.
 
“ Buono a sapersi. Ma non ricordo di averti invitato a restare.”.
 
Finalmente Diego si voltò nella sua direzione e, impugnando il cuscino di lei per rimpiazzare quello appena rubatogli, richiuse gli occhi e borbottò:
 
“ Beh, l’hai fatto.”
 
“ Errore mio. Ritiro l’offerta. Alzati e vestiti, io ho da fare. Ora rispondo al telefono e gradirei non trovarti qui quando ho fatto.” rispose lei saltando giù dal letto, non preoccupandosi di indossare qualche indumento per coprire le sue nudità.
 
“Oh e... grazie per stanotte… Almeno credo… anche se probabilmente non è stato un gran che, considerando che non me lo ricordo neppure.” e con quella semplice frecciatina si rinchiuse nel bagno.
 
“ Pronto?” domandò rispondendo finalmente alla chiamata, facendo del suo meglio per non lasciar trapelare il fatto che si era appena svegliata con decisamente troppo alcol in corpo.
 
“ Ciao a te, straniera!” canticchiò la voce gioiosa di Becky dall’altro capo della linea.
 
Quanto le mancava quella voce: se c’era una cosa che aveva sempre avuto il potere di fare era, senza dubbio, quella di provocare in lei un senso di pace. Peccato che lei non sapesse che, nel giro di due minuti, la sua cara amica Becky avrebbe ribaltato il piccolo utopico e perfetto mondo che lei si era creata.
 
“ A cosa devo l’onore?” ridacchiò in risposta passandosi una mano tra i lunghi, riccioli e morbidi capelli scuri. Accidenti, aveva davvero bisogno di un parrucchiere: non si era neppure accorta che la sua chioma fosse cresciuta tanto.
 
“ Stavi ancora dormendo?” la interrogò la voce confusa e curiosa di Becky.
 
“ Ehm… no?” ribatté lei, cercando di ingannare l’amica, ben consapevole però di quanto la sua voce roca svelasse la realtà delle cose.
 
“ Sì, certo. Bel tentativo. Scommetto che tutto quello che fai è dormire tutto il giorno e ubriacarti ogni notte. Ricordami in che parte del mondo ti trovi oggi.”
 
“ Firenze, tesoro!” squittì lei con un sorriso eccitato.

Amava la sua vita.
 
“ Allora, che succede?” domandò aprendo il rubinetto della doccia e infilando una mano sotto il getto per controllare la temperatura dell’acqua.
 
“ Ho una notizia strepitosa!”. La voce di Becky si fece così acuta che fu costretta ad allontanare la cornetta, al fine di salvaguardare l’incolumità del proprio appartato uditivo.
 
“ Sì, è evidente… Ti spiace abbassare i decibel? Mi hai quasi fatto sanguinare un orecchio.”. Le sue parole erano attutite e soffocate dallo spazzolino da denti che si infilò in bocca, iniziando a massaggiare con forza le gengive.
 
“ Scusami! È che sono così eccitata!” le sussurrò l’amica, lasciando trapelare un po’ di imbarazzo.
 
Nel frattempo la temperatura dell’acqua della doccia stava lentamente raggiungendo il punto di ebollizione, il vapore ora avvolgeva la stanza, facendo scorrere le sue lunghe ed umide dita sullo specchio e appannando il suo riflesso.
 
“ Tesoro, ho bisogno che ti dia una mossa… Sono un po’ di fretta.” Tentò di incitare Becky a sputare il rospo ed aprì la tenda della doccia, pronta a infilarsi sotto il getto d’acqua calda.
 
“ Ok, sei pronta?Ecco la news…”. Lunga pausa. Becky stava forse cercando di ucciderla?!
 
“ Allora?!” mugolò lei frustrata. Non era una persona particolarmente amante della mattina e questa giornata cominciava già a darle sui nervi.
 
Uno sconosciuto nel letto e una rumorosa migliore amica al telefono non era esattamente il suo ideale di inizio di giornata. Senza contare il fatto che le persone felici la mattina  la urtavano: è mattina, non c’è nulla di cui essere felici.
 
“ Ben mi ha fatto La Proposta. Ci sposiamo!”
 
Lo squittio gioioso ed euforico di Becky giunse forte e acuto e lei strillò insieme alla sua amica, schoccata e estasiata allo stesso tempo. Ma, nello stesso istante in cui l’eccitazione si palesò, venne rimpiazzata da qualcosa di diverso, un sentimento sicuramente meno nobile: poteva trattarsi di invidia? O forse, solo ipoteticamente, era stata improvvisamente colpita da un attacco di tristezza e nostalgia di casa? Di qualsiasi cosa si trattasse, quell’emozione, quella sensazione così potente, fu quello che la portò a convenire con ciò che Becky suggerì pochi secondi più tardi.
 
La frase che la sua amica pronunciò cambiò nuovamente la sua vita e la ricondusse al posto dal quale era fuggita per tutto questo tempo.
 
“ Abbiamo bisogno di te. È ora di crescere, futura cognatina. Penso sia il momento di tornare a casa.”
 
Casa.
 
Era davvero pronta?
 
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Ed ora eccola qui: di nuovo nella sua città, cercando di rispettare un progetto fatto sei mesi fa, e ad un passo dal concedersi una motivazione per uscire dai binari che lei stessa si era costruita.
 
Lui aveva detto una sola frase. Era servito solo quello per farla fermare immobile sul marciapiede e farla esitare. E in questo momento si domandava se l’unica ragione per cui fosse così combattuta potesse essere la sua bramosia di qualcosa, una scusa, un espediente per non essere più così dannatamente responsabile. Forse in lei albergava un masochistico e infantile desiderio di riconvertirsi alla ragazza che girava il mondo, fregandosene di tutto.
 
Non si era voltata verso di lui. Stava lottando con se stessa per non trovare un viso a quella voce. Ma tutto questo non le impedì di rispondere:
 
“ Non fumo più, mi dispiace. E il mio nome è Kathy, non Dolcezza.”
 
Mentre parlava riusciva a percepire i passi di lui avvicinarsi nella sua direzione e, per quanto sapesse che la cosa giusta da fare fosse continuare a camminare, desiderava sentirlo vicino a lei. Voleva solo catturare il suo odore, così intenso e indescrivibile, ancora un po’ più a lungo.
 
“ Che peccato.” Fu l’unica cosa che le sussurrò nell’orecchio una volta giunto alle sue spalle. Ora Kathy poteva respirarlo, riusciva ad inalare e intrappolare dentro di sé quel profumo ed era in grado di percepire il calore del suo corpo dietro di lei.
 
Strinse i pugni, sperando di trovare la forza di resistere all’impulso di incontrare i suoi occhi. Riusciva ad avvertire la sua mano quasi sfiorarle una spalla e anelò alla fine di quella tortura: non riusciva a decidere se voleva che lui la toccasse o semplicemente scomparisse.
 
La sua presenza dietro di lei le stava facendo girare la testa e la vicinanza rendeva difficile non voltarsi e cedere alla tentazione di guardarlo in faccia. Il suo respiro caldo graffiava il retro del suo collo e, con ogni soffice esalazione, il suo stomaco si contorceva per la curiosità e il piacere.
 
Poi uno strano suono. Una risata soffocata. Stava silenziosamente ridendo, probabilmente di lei, divertito dal suo mutismo e dalla sua posa rigida, e Kathy avrebbe potuto giurare di aver sentito le sue dita accarezzarle impercettibilmente il fianco destro, con la stessa pressione di un flebile alito di vento e poi, all’improvviso, con la medesima velocità con cui era comparso, sparì.
 
Non le aveva detto il suo nome. E lei non aveva visto il suo viso.
 


 
 



A/N: allora, questa è una storia che ho scritto in inglese e stasera ha trodotto perchè volevo postarla qui. Spero che non sia troppo confusa e che sia piacevole da leggere per voi quanto lo è stato da scirvere per me. Se avete tempo e voglia fatemi spare che ne pensate. Critiche costruttive, suggerimenti e recensioni sono sempre ben accolti. Come ho già detto per "My Way", per me è davvero importante poter scambiare opinioni con chi mi legge: ritengo che il parere degli altri possa essere d'aiuto per un'evoluzione in meglio del mio stile, dei miei racconti e di me stessa.

un bacio

Stefy

PS: La parte in Italicas è chiaramente un flashback
   
 
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