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Autore: Elos    27/02/2011    2 recensioni
Murad lo minacciava, certe volte, e poi gli offriva regali, doni per farsi perdonare e per ingraziarselo e per vedere se un giorno o l'altro gli sarebbe riuscito di vederlo sorridere, magari, perché doveva essere molto meglio avere intorno un Elwyn appagato, in pace con sé stesso, in pace con la sua situazione, in pace con Murad, soprattutto con Murad. Non era mai riuscito a comprarsi un sorriso di Elwyn, ma insisteva, ancora e ancora, sperando di riuscire ad indovinare la giusta offerta, il giusto prezzo per quel sorriso.
Perché Murad lo minacciava, sicuro: ma, poi, conosceva una verità diversa.
[...]
Seconda classificata al concorso L'Harem... e il Pagliaccio indetto da Eylis.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- palazzo-prigione



Nei primi mesi d'aprile la Città del Cielo aveva attraccato da qualche parte sui monti dell'Armenia: c'era una stazione di supporto a duemilasettecento metri dal suolo, lì, alta sopra una valle di rocce pallide. La Città avrebbe scambiato acqua piovana, pulita, frutta e verdura in cambio di pietre e metalli, spiegò Murad ad Elwyn. Gli aveva chiesto di sedersi accanto a lui, quel giorno, con le gambe incrociate su un alto cuscino di velluto rosso, e gli aveva passato un braccio attorno alle spalle, appoggiandosi a lui mentre guardavano fuori dalle finestre.
Oltre i vetri il meraviglioso giardino si stagliava su diversi livelli, stratificandosi verso l'alto piano su piano. Un ramo rampicante carico di albicocche grosse come la testa d'un bambino si sporgeva all'interno delle stanze di Elwyn. Murad allungò una mano, staccò un frutto e glielo offrì.
La frutta era una cosa, l'aveva scoperto con il tempo, che qualche volta riusciva a comprare Elwyn: acquistava un momento di serenità, un accenno di rilassatezza, due grammi di accondiscendenza. Elwyn mangiava la frutta avidamente, sotto gli occhi divertiti del Celestiale. Non doveva averne avuta spesso, prima, pensava Murad. Aveva fatto arrivare per lui i frutti dell'annona, dalla polpa bianchissima e dolce, e quelli della passiflora; l'avocado, il mango e i datteri crescevano liberamente nel giardino, accanto alle arance, grosse arance scure da spremere nei bicchieri di vetro verde, più piccole arance gialle e lievemente amarognole, alle mele farinose, agli ananas e al cocco.
Anche questa volta Elwyn, che se n'era stato fino a quel momento con la schiena rigida, sostenendo il braccio di Murad come fosse un peso ostile, spaventoso, si distese appena mentre accettava l'albicocca.
- C'è qualcosa che vorresti? - gli chiese Murad mentre mangiava, piegandosi per guardarlo in viso.
Elwyn disse che avrebbe voluto uscire. Non poteva uscire? Andare fuori, fuori dal palazzo, anche solo per un po'?
Il viso sorridente di Murad era diventato molto meno sorridente, tutto ad un tratto.
- Se potessi uscire... - gli domandò. - … dove vorresti andare? -
Fuori, rispose Elwyn semplicemente, fuori di qui.
Ma Murad gli aveva detto di no. Quella, sembrava, era una cosa che Elwyn non poteva avere.

Murad aveva un viso affilato da falco. Portava i capelli molto lunghi, perché era quello l'uso della sua famiglia, e li teneva legati in una coda, perché lasciarli sciolti lo infastidiva. Sulle vesti che usava per discutere d'affari quella chioma fluente formava un contrasto anacronistico; ma sugli abiti di seta velata che teneva nel suo palazzo-giardino diventavano a posto. A posto, tutto qui.
Aveva la pelle scura. Gli piaceva tenere tra le proprie mani una di quelle di Elwyn: che aveva un palmo piccolo, e dita sottilissime, nel confronto, e molto, molto, molto pallide.
- Potrei chiamarti Suha. - gli aveva detto una volta. - Ma non Khalisah. - C'era un sorriso, in Murad, che in certi momenti appariva insieme divertito e infelice, ed era quel sorriso che aveva tirato fuori, parlando, nel guardare verso Elwyn. - E' un nome che è una promessa di sincerità. Darti un nome così sarebbe una menzogna. -
I nomi di Murad, la lingua di Murad, venivano da un luogo lontano decine di secoli e almeno un paio di mondi. Erano nomi di un altro tempo.
Raccontava Murad che in quell'altro tempo i giardini erano cresciuti sulla terraferma e nel deserto, e li avevano chiamati oasi. Raccontava Murad che l'acqua era stata preziosa come l'oro, lì, ed era scivolata tra sassi e sabbia ogni volta che la pioggia era scesa dal cielo. Raccontava di un posto dove si tramandava la storia di qualcuno che aveva narrato mille favole ad un re per allontanare la morte, e poi chiedeva ad Elwyn di raccontare lui qualcosa: così, diceva, avrebbero tenuto lontana la noia.

Avevano lasciato la stazione d'attracco da forse una settimana il giorno in cui Elwyn tentò per la prima volta la fuga.
Aveva aspettato, appiattito contro la parete, che la porta delle sue stanze venisse aperta per permettere a Murad di passare: poi, quando il Celestiale era entrato, l'aveva colpito alla nuca con un grosso piatto di metallo ed era scappato correndo giù per i corridoi e giù per le scale dell'immenso palazzo-giardino.
Non conosceva nulla che non fossero le sue camere: aveva perso tre volte l'orientamento nel cercare di raggiungere il pianterreno, perché i gradini a tratti sembravano portare verso il basso, e invece conducevano solo ad un interpiano chiuso, un vicolo cieco, e a tratti non c'erano gradini da nessuna parte, per quanto lui li cercasse, solo porte serrate e risate dietro a battenti sbarrati e tende tirate.
Era entrato in una stanza dove una bella ragazza vestita di verde dormiva su un divano senza braccioli, ed era riuscito ad andarsene senza svegliarla. Era passato attraverso una finestra per raggiungere una parte isolata del giardino, e da lì era rientrato dall'altro lato del complesso.
Aveva sentito la Sorveglianza venire allertata e aveva capito che Murad si era ripreso, e che aveva dato l'allarme.
Aveva avuto, per la prima volta da quando la sua fuga era iniziata, paura di essere ripreso. Paura delle conseguenze.
Il palazzo sembrava stringerglisi attorno ad ogni corridoio che prendeva, ad ogni scalinata che imboccava. Tutte le porte erano chiuse, adesso, sbarrate dal sistema centrale di sicurezza. Elwyn era andato a sbattere contro un grande battente serrato e aveva scoperto che le piastre d'apertura erano state disattivate: aveva appoggiato la fronte alla porta, giunto alla fine della sua fuga, e aveva chiuso gli occhi.

L'avevano riportato a Murad senza bisogno di usare la forza. Sembrava così esile e così fragile accanto alla Sorveglianza – tutti quegli uomini parevano tanto più alti, tanto più massicci, nel confronto! – che per un attimo Murad aveva esitato.
Ma poi Elwyn l'aveva guardato, e aveva gli occhi così pieni d'odio, e di disprezzo, che ogni pietà era come svanita dal suo cuore.
- E' stata una pessima idea, la tua. - gli aveva detto con amarezza. - Davvero una pessima idea. - E poi, scuotendo la testa: - Avevo sperato che non saremmo mai arrivati a questo. -
E a quelle parole l'odio negli occhi di Elwyn s'era diluito nella paura.

Due giorni più tardi Elwyn era tornato dalla clinica con un carico aggravato di malumore ed ostilità ed una piccola, quasi invisibile cicatrice sul braccio destro.
Aveva dormito per tutto il tempo, sedato, nello speciale avioveicolo che l'aveva condotto dal palazzo-giardino alla clinica e dalla clinica al palazzo-giardino, e così non aveva nemmeno avuto la soddisfazione di poter vedere un po' di fuori, un po' d'esterno. Murad aveva pensato che sarebbe sembrato una specie di premio, altrimenti. Che avrebbe potuto favorire altri atti di ribellione, altri tentativi di fuga.
Aveva preso da parte Elwyn, la sera in cui il ragazzo si era svegliato, e gli aveva spiegato:
- Quello che ora hai sotto la pelle è un segnalatore. E' collegato alla sicurezza del palazzo: se cerchi di uscire da queste stanze, il sistema comunicherà alla piccola capsula piena di sonnifero che è annessa al segnalatore di aprirsi. Ti addormenterai ovunque sei. Ogni tentativo di fuga verrà stroncato ancor prima d'iniziare. -
Elwyn l'aveva guardato, stancamente disgustato, e Murad gli aveva stretto il mento in una mano:
- Questa volta è il segnalatore. Non cambierà la tua vita. Non cambierà niente in te. La prossima volta sarà qualcosa di più drastico. Non mi costringere a farlo... - La voce del Celestiale s'era abbassata, sfumando in qualcosa che avrebbe potuto sembrare una preghiera, anche, una supplica. - … non mi costringere a farlo. Se devo farlo, lo farò. -

Ogni possibilità di veder sorridere Elwyn, dopo il segnalatore, era andata persa.

Murad gli aveva fatto portare un cesto di fragole, una settimana più tardi. Elwyn non ne poteva avere mai assaggiate: erano frutti che crescevano poco anche in serra, e che avevano bisogno di cure, di spazio, di freddo. Le idrocolture ne producevano in quantità limitata, e se le potevano permettere, anche tra i Celestiali, solo i più ricchi, i più potenti, quelli che avevano i migliori contatti con le sezioni dei coltivatori.
Elwyn non le aveva nemmeno guardate finché Murad, spazientito, non gli aveva ordinato:
- Mangiale. -
Elwyn gli aveva obbedito. Sembrava masticare polistirolo, e invece aveva desiderato, Murad, di poter vedere una volta di più l'espressione famelica e meravigliata che la frutta aveva sempre fatto nascere sul suo viso.
Meraviglia. Non disgusto. Meraviglia. Meraviglia per i doni che gli faceva avere, per la vita bellissima che gli faceva vivere. I bassifondi erano lo schifo e la feccia. Questo era il paradiso. Questo doveva essere il paradiso, aveva pensato Murad, confusamente.
L'aveva sentito vomitare, dopo, chiuso nel bagno, e l'aveva odiato per questo.
- Se dovrò averti drogato, per averti felice... - gli aveva urlato addosso, ferocemente, prima di uscire. - … ti avrò drogato! -
Ed Elwyn, Elwyn, Elwyn che non sapeva come stavano veramente le cose, Elwyn che non sapeva che cos'era un giullare – raccontare le verità, dire sempre la verità – Elwyn che non riusciva a capire quando Murad mentiva, Elwyn che non sapeva di essere qualcuno, Elwyn, ebbene, gli aveva creduto.






Note:
Un grazie speciale a Averroe, che si è fermata a commentare lo scorso capitolo.
  
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