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Autore: Elos    13/03/2011    4 recensioni
Murad lo minacciava, certe volte, e poi gli offriva regali, doni per farsi perdonare e per ingraziarselo e per vedere se un giorno o l'altro gli sarebbe riuscito di vederlo sorridere, magari, perché doveva essere molto meglio avere intorno un Elwyn appagato, in pace con sé stesso, in pace con la sua situazione, in pace con Murad, soprattutto con Murad. Non era mai riuscito a comprarsi un sorriso di Elwyn, ma insisteva, ancora e ancora, sperando di riuscire ad indovinare la giusta offerta, il giusto prezzo per quel sorriso.
Perché Murad lo minacciava, sicuro: ma, poi, conosceva una verità diversa.
[...]
Seconda classificata al concorso L'Harem... e il Pagliaccio indetto da Eylis.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- stazione di attracco



Elwyn aveva aspettato che gli dicessero che erano attraccati di nuovo ad una stazione di servizio, prima di chiudersi in bagno.
Questa volta era il monte Ararat. Elwyn non sapeva cosa fosse, dove fosse: sapeva solo che la Città del Cielo era ferma, ed era ancorata, e toccava qualcosa che era terra, finalmente, che era qualcosa di diverso da sé stessa. Sembrava molto più aperta, così.
Murad l'aveva lasciato da forse un'ora. Era quasi buio, fuori dalle finestre. A quell'altezza avrebbe dovuto fare molto freddo quando la notte calava, ma i sistemi della Città del Cielo la mantenevano tiepida e asciutta in ogni stagione, ad ogni altitudine e ad ogni ora. Regolavano l'afflusso di ossigeno. Regolavano l'ingresso della pioggia tramite schermi e tettoie mobili: a nessun Celestiale piaceva affrontare la stagione dei monsoni senza un'opportuna copertura.
In bagno Elwyn aveva portato il coltello con il quale tagliava il pesce, il rasoio magnetico che usava per radersi la barba sottile - Murad preferiva che avesse il viso glabro, liscio - e una lastra di vetro che aveva staccato ad un bicchiere rotto. Non sapeva quale delle tre cose sarebbe andata bene, quale delle tre cose avrebbe funzionato.
Bastò il coltello del pesce. Era un sollievo: Elwyn aveva avuto paura, nel reggere la scheggia di vetro, che avrebbe potuto spezzarsi nella carne, restare tra i muscoli, tra i nervi, danneggiarlo. Aveva avuto paura del dolore, anche, ma ogni volta che sembrava farsi troppo, ogni volta che le fitte e la nausea gli montavano nello stomaco e minacciavano di farlo crollare, pensava a Murad.
Se dovrò averti drogato, per averti felice...
La lama aveva tagliato la pelle ed era affondata nel muscolo. Il sangue aveva riempito i lembi della ferita ed era traboccato ai lati del braccio. Elwyn aveva cercato di tagliare meno che poteva, solo in corrispondenza della cicatrice, ma poi si era reso conto che avrebbe dovuto ficcarci dentro le dita - di pinze non ce n'erano, non c'era niente per fare leva - ed aveva allargato il taglio.
Aveva vomitato nel lavandino quando la punta del coltello aveva incontrato la superficie di qualcosa di liscio e duro, ma poi si era reso conto che non era osso, quello, ma metallo. Era il segnalatore: l'aveva trovato. Aveva sentito le lacrime colargli sul viso, un po' per il dolore, un po' per il sollievo.
Con le dita non era riuscito a tirarlo fuori. Aveva provato ad usare un coltello, poi un cucchiaio. Quello che era riemerso dalla ferita era stato un grumo di sangue filamentoso avvolto attorno ad una piccola sfera di metallo. L'aveva lasciato cadere nel lavandino e aveva usato brandelli di vestiti per fasciare il taglio, fermare il sangue, l'emorragia.
Il braccio gli faceva male, fitte lancinanti che gli davano l'emicrania, che lo nauseavano, ma ogni volta che pensava a Murad il dolore sembrava allontanarsi di un passo.
Se devo farlo, lo farò. Spalancò una delle finestre che davano sul grande giardino circolare. Sopra la finestra c'era una terrazza, due metri più in su una sporgenza. Ancora più su, tubature. Più in alto ancora spigoli circolari. La sommità del palazzo sembrava lontanissima, ma Elwyn sapeva che era possibile. Poteva farlo: ora l'aveva capito. Non come tutti gli altri, dalle porte, dalle scale, ma dalle finestre, sì, lui poteva. Non tutti potevano farlo, ma lui poteva.
Alzò le mani e si aggrappò alla terrazza, issandosi. I rami dell'albicocca rampicante gli fecero da scala, mentre saliva, saliva, saliva.

- - -



Erano i sensi di colpa ad averlo riportato davanti alla porta delle stanze di Elwyn, pensò Murad.
Una parte di lui era consapevole di aver agito per il meglio: che il segnalatore era per il meglio, che le minacce erano per il meglio. Che la vita che gli stava offrendo era per il meglio, e sarebbe andata bene ad entrambi, prima o poi. Un'altra parte di lui continuava a pensare, ossessivamente, all'espressione di Elwyn, odio, schifo, rancore, disgusto. Niente meraviglia. Niente piacere.
Murad aveva trascurato le altre stanze del palazzo, in quei mesi, per fare visita solo a quelle di Elwyn: era più soddisfatto così, perché stare seduto vicino al pagliaccio rendeva più leggere le sue giornate. Dopo la clinica, dopo il segnalatore, non si parlavano quasi per niente. Elwyn obbediva, sicuro, se gli veniva ordinato di rispondere, ma Murad non voleva ordinarglielo. Non voleva che ci fosse bisogno di ordinarglielo. Voleva che Elwyn desiderasse rispondergli. Le altre persone nel palazzo lo desideravano, quindi perché lui no?
Posò una mano sui battenti chiusi e mandò un comando vocale al sistema di controllo: le porte divennero trasparenti, mostrando l'interno delle stanze di Elwyn. Le luci erano ancora accese. Se fossero state spente forse non sarebbe entrato; così, invece, Murad spinse la porta e chiamò:
- Elwyn? -
Avrebbe dovuto dargli un altro nome, si disse. Suha o Basma, che era il nome del sorriso, perché sicuramente un giorno Elwyn avrebbe sorriso, e gli sarebbe stato grato, e non avrebbe più pensato di voler essere altrove. Avrebbe dovuto chiamarlo Anbar, come l'ambra grigia, perché come l'ambra grigia Elwyn poteva essere sgradevole e ostile, ma poi aveva in sé quello che lo rendeva prezioso, quello che faceva l'aria leggera, fragrante.
- Elwyn. - chiamò ancora Murad quando nessuno gli rispose. Elwyn non era sui cuscini e non era sulla terrazza. Non era nel suo letto, non era accanto alla vasca. Non era neanche nel bagno: ma c'erano delle chiazze sul lavabo, altre chiazze sui grandi specchi accanto alla vasca, e sul pavimento, una pozza rossa che Murad riconobbe a stento. Non aveva visto spesso del sangue, prima.
Per un attimo non riuscì a distogliere lo sguardo dal rosso, dalle chiazze, dal sangue, e aveva paura di rialzare la testa perché avrebbe potuto trovare il corpo di Elwyn, forse, nella vasca o nell'alcova della doccia, o...
Non c'era nessun cadavere da nessuna parte. Nel lavello, però, c'era un grumo di roba molliccia e insanguinata e di metallo, una capsula, che a Murad risultò estremamente familiare. Aveva chiesto lui che venisse messa in Elwyn. Sotto la sua pelle. Dentro al suo braccio.
In quel momento tutti gli allarmi di tutto il palazzo sembrarono esplodere e scoppiare, e il suono travolse Murad insieme alla consapevolezza che Elwyn era scappato – di nuovo – e che era ferito.

Spedì la Sorveglianza a cercarlo in Città. Nei bassifondi, nelle strade circostanti, che rastrellassero ogni angolo e ogni piega per cercarlo. Uno dei sensori di movimento l'aveva rilevato quando aveva messo piede sul tetto; ma, da quel momento in poi, era come scomparso. Non c'erano telecamere, nel palazzo-giardino: era il posto quieto e sicuro di Murad, quello, un posto come una fortezza, un santuario. Niente telecamere, nel posto in cui voleva essere lasciato in pace, lontano dagli occhi degli altri, lontano dagli occhi di tutti.
La Sorveglianza riferì che nei bassifondi Elwyn non c'era. Nessun ragazzo/ragazza dai capelli chiari, la pelle chiara, gli occhi chiara. Nessun ragazzo/ragazza con un braccio ferito. Murad aveva trovato il coltello con il quale si era aperto la pelle, la carne, per raschiare l'osso e togliere il segnalatore: lo teneva tra le mani, ora, con il sangue coagulato a macchiare la lama e l'impugnatura, a scorrergli tra le dita. Era questo l'odore che aveva il corpo umano, quando lo si spaccava? Quest'odore di ferro, di ruggine?
Non era nei bassifondi, rifletté Murad, ancora in piedi nelle camere di Elwyn. Non era per le strade. Nessun palazzo l'avrebbe accolto, fuggitivo, senza documenti, nessun Celestiale l'avrebbe protetto. Non c'era luogo della Città in cui avrebbe potuto nascondersi. Non c'era luogo...
- Ai cavi. - comunicò alla Sorveglianza attraverso il ricevitore. - E' ai cavi d'attracco. - E poi, prima di permettersi il tempo di ripensarci, aggiunse: - Verrò anche io. -

Voleva essere lì quando l'avrebbero trovato, Elwyn, si disse Murad. Voleva essere lì perché Elwyn sapesse fin da subito che non sarebbe stato perdonato, che lui era furioso, che l'avrebbe punito. Per essere fuggito. Per essersi ferito. Come aveva osato, Elwyn, danneggiarsi così? Non avrebbe mai, mai dovuto. Non si apparteneva. Apparteneva a Murad.
Voleva essere lì per poterglielo dire di persona. Voleva essere lì perché così, quando l'avrebbero trovato, avrebbe potuto essere sicuro fin da subito che il danno non fosse irrimediabile. Che fosse vivo.
Lo trovarono dove si erano aspettati di trovarlo, Elwyn, solo un po' più avanti. A Murad, che lo vide con un piede già sul cavo d'attracco, una fune d'acciaio dal diametro di un metro e mezzo, l'altro piede sul gancio, in equilibrio precario su un vuoto fatto della neve e delle rocce della montagna dove le nuvole si insinuavano, buie di notte, tra la Città del Cielo e l'Ararat, si gelò il sangue nelle vene. La Sorveglianza si era fermata prima di raggiungerlo: nessuno desiderava fare una mossa sbagliata, un passo sbagliato, e rischiare di far cadere una delle proprietà di Murad.
Murad superò gli uomini della propria scorta e poi quelli della Sorveglianza della Città, avanzando verso Elwyn con il braccio teso. Il ragazzo rimase in piedi sul cavo, gli occhi fissi su di lui, e non si mosse. Contro la massa scura della montagna era tanto pallido da sembrare fatto di luna, o di vetro, così che pareva che la luce della Città gli passasse attraverso il viso e si riflettesse sui suoi vestiti. Portava gli abiti che Murad gli aveva dato, gli abiti della circense – gli abiti del pagliaccio.
- Torna indietro. - disse Murad, piano. - E' inutile. La stazione d'attracco è già stata allertata. Se anche tu riuscissi ad arrivare in fondo al cavo ti prenderebbero e ti riporterebbero qui. Ma è impossibile: c'è troppo vento, più in basso. Cadresti. Moriresti. -
Elwyn continuò a fissarlo e non disse niente.
- Vieni qui. - ripeté Murad, con impazienza, sentendosi lo stomaco vuoto alla vista di tutto quel niente sotto ai piedi del pagliaccio. - Non farmelo ripetere. -
Era la cosa sbagliata da dire: Elwyn fece un altro passo indietro, a quelle parole. Tutta la Sorveglianza si mosse verso di lui come un'onda viva, ma Murad alzò una mano e li trattenne. Non poteva rischiare di spaventarlo. Non poteva rischiare che cadesse.
- Non farlo. - esclamò. - E' inutile. E' stupido. Torna indietro, subito. Non sarai punito. -
Elwyn taceva, e aveva l'espressione fissa, stanca. Sembrava impossibile capire a cosa stesse pensando, ma non arretrava più: e questo, pensò Murad, voleva dire che quella era la strada giusta da imboccare.
- Ti darò quel che vorrai. Ritorna qui, adesso. -
Tutto quel che Elwyn avesse voluto, purché rimettesse piede sulla Città del Cielo, al sicuro, purché Murad potesse toccargli le braccia ed assicurarsi che fosse vivo, integro, che potesse continuare a guardarlo, a tenerlo, che la piccola, graziosa circense – il pagliaccio – fossero ancora lì con lui.
Elwyn aprì bocca e disse:
- Non posso... -
- Tutto quel che vorrai. - insisté Murad.
- Non basterebbe. - disse Elwyn. Scosse la testa: pareva esausto. - Non basterebbe. -
Murad pensò, disperato, che gli stava sfuggendo tra le dita. Per un attimo accarezzò l'idea folle di lanciarsi in avanti, di afferrarlo, trattenerlo, erano solo pochi passi, pochi passi sul cavo...
- Non puoi andare da nessun'altra parte... -
- Non qui. - lo interruppe Elwyn. - Altrove. -
Fece un altro passo, e tutto ad un tratto Murad non riuscì a vedere altro che non fosse la sua folle idea, afferrarlo, trattenerlo, e il passo di Elwyn l'aveva portato alla sua destra, non indietro, e tutto ad un tratto non c'era più il cavo d'acciaio sotto ai suoi piedi, nessuna cosa ferma e piena, solo il vuoto e le nuvole e il buio che li separava dalla montagna, metri e metri e metri più in basso, ad un infinito abisso di distanza.
Murad si lanciò in avanti per afferrare Elwyn, e la Sicurezza si lanciò in avanti per afferrare lui. Lo trattennero per l'orlo della veste mentre già era con un piede sul cavo, e Murad riuscì solo a vedere Elwyn che andava giù, giù, ed Elwyn lo guardò e sorrise.






Note:
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo. Per tutti i definitivi ringraziamenti, ci vediamo tra due settimane, quindi!
Nel frattempo, grazie ancora ad Averroe e a abcdefghilm.
  
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