C A P I T O L O 1
Ero piegata sul tavolo con le mani nei capelli e continuavo a
guardare l'orologio per paura che l'ora più terribile della
giornata
fosse già arrivata. Mancava un minuto preciso per l'arrivo
di Carla
D'Osvalda, conosciuta ai più come lo sciacallo
per
le torture che
faceva subire alle sue vittime prima di finirle con un doloroso 2. Il
rumore insopportabile delle sua scarpe sudaticce si sentiva
già da
chilometri di distanza. Guardai impaurita la mia compagna di banco,
nonché migliore amica nell'ambito scolastico, alias
Benedetta che
contraccambiò quello sguardo.
L'avevo conosciuta il primo giorno di liceo, nell'auditorium, durante
il discorso del preside. Eravamo sedute vicine ed entrambe eravamo
terrorizzate da quel nuovo mondo che presto sarebbe diventata la
nostra quotidianità. Per fortuna, scoprimmo di essere in
classe
insieme e da quel giorno la considero la mia migliore amica, anche se
non so se sia contraccambiato. Nonostante fosse speciale per me,
nemmeno lei sapeva che in realtà ero una sfigata patentata.
Lo sciacallo entrò in classe con dei libri in mano che erano
più
grossi di lei e si posizionò dietro la cattedra che quasi la
copriva
interamente. Sembrava docile con quell'aspetto minuto, ma in
realtà
era un mostro. Le sue interrogazioni e verifiche erano molto peggiori
dei giochi sadici dell'Enigmista! E, purtroppo, sarebbe rimasta anche
l'anno prossimo, il tanto atteso quinto anno di liceo. A meno di un
malore improvviso o un incidente con l'auto di una ragazza appena
patentata che rispondeva al nome di Alice Livraghi. Stavo lavorando a
quel piano progettando il tutto durante le inutili ore di storia
dell'arte.
Carla ci osservava con quegli occhi rugosi e infuocati, scorrendo il
dito indice sul registro. Aiuto! Avevo paura! Primo perchè
non
volevo essere interrogata in matematica e secondo perchè non
volevo
diventare come lei a 45 anni, così flaccida e brutta.
«È già pezzata»
commentò Benedetta, senza farsi sentire «Come
cacchio fa a sudare così a Gennaio?!»
continuò schifata.
«Magari ha qualche problema ormonale» ipotizzai.
Benedetta, in arte Germa, per la sua straordinaria somiglianza con
Stefani LadyGaGa Germanotta, alzò entrambe le sopracciglia,
guardandomi dubbiosa. Smorzai una risata sul nascere, facendo uscire
dalla mia bocca un verso simile ad uno starnuto. Lo sciacallo
alzò
lo sguardo dal registro e mi guardò arcigna, facendomi
passare quel
breve momento di ilarità.
«Un problema ce l'ha di sicuro» riprese Benedetta
una volta che la
D'Osvalda tornò a guardare il registro «Ma non
ormonale. È da
troppo che non vede un uccello. Se lo ha mai visto»
sghignazzò
solitaria. A me non faceva ridere per nulla dato che mi sarei
ritrovata nella stessa identica situazione di Carla: 40 anni vergine.
«Visto che
ha così tanta voglia
di ridere, perchè non viene fuori interrogata signorina
Sago» tuonò
lo sciacallo, smorzando la risata di Benedetta che fu visibilmente
percorsa da un brivido di terrore. Sospirai sollevata. Mi dispiaceva
per Germa, ma come dicevano i latini mors
tua, vitas mea o una
cosa del genere. Il latino non era affatto il mio forte, non mi
piaceva perdere tempo con una lingua morta. Mi rilassai sulla sedia,
scivolando in avanti pronta a godermi quell'ora di relax, sorridendo
e sospirando beata.
«Livraghi! Crede di essere a casa sua?»
Mi irrigidii quando mi chiamò. Subito tornai a sedermi
composta e le
sorrisi bonaria sbattendo più volte le ciglia per risultare
più
dolce, adottando la strategia del gatto con gli stivali. Solitamente
con il professor Ghida, insegnante di filosofia, funzionava sempre.
Secondo Benedetta era efficace perchè quell'uomo era troppo
vittima
del fascino femminile, si accontentava di qualsiasi donna bella o
brutta che era. Il requisito minimo per passare il Ghida's test era
di avere una vagina. Io, quella volta, avrei dimostrato che si
sbagliava di grosso, che erano i miei occhioni dolci ad ammansire
qualsiasi bestia feroce, perfino la D'Osvalda.
«Venga a fare compagnia alla sua amica» mi disse
con un sorriso
tirato e finto quanto la faccia del preside Pierangelo Muccara. Ok,
funzionava solo con ghida.
Mugolai qualcosa di incomprensibile persino a me stessa e
strascicando le All-stars mi diressi alla lavagna. Incrociai le
braccia, appoggiandomi ai primi banchi mentre assistevo silenziosa e
tesa al massacro di Benedetta. Che diamine! Quella donna pretendeva
troppo da noi! Era già tanto che riuscivamo a fare due
più due.
Anche se i dubbi che qualcuno non ne fosse in grado c'era, come ad
esempio Giulio, il mio compagno di classe che aveva tutte le materie
insufficienti, soprannominato the mad per le sue uscite non proprio
normali. Una volta, interrogato in storia, si era alzato, aveva unito
le mani ai fianchi e aveva urlato Kamehameah! concludendo
la
sua performance con un rutto. Sospeso per tre giorni.
Cominciai a mangiarmi le unghie come facevo sempre in situazioni di
grandi stress. Le avevo accuratamente sistemate il giorno prima
dannazione! Una volta che decidevo di curarmi le unghie,
perchè
solitamente mi costava troppa fatica, la D'Osvaldo mi interrogava. Lo
faceva apposta, ne ero certa!
«Sago lei è un ignorante in matematica!»
esplose la professoressa
«Quattro! Vada a posto!» indicò
perentoria il suo banco.
Ecco, bene! Toccava a me. Allarme antincendio perchè non
scatti?!
Una volta che serviva un'inutile prova di evacuazione non la facevano
mai. Mi avvicinai lentamente alla cattedra in modo da rubare secondi
preziosi alla mia figura di merda. E non solo perchè mi
sarei
mostrata una capra davanti a tutti, come al solito, ma anche per
l'umiliazione che mi avrebbe propinato quella donna. Era frustrata,
di sicuro. E il fatto che quella delusione derivava da una scopata
mai fatta mi terrorizzava eccome. Sarei diventata un'acida
professoressa di matematica che sfogava la sua frustrazione su poveri
alunni innocenti e magari tra questi ci sarebbe stata un'altra Alice
Livraghi, che sarebbe diventata anch'essa un'acida e così
via. Un
circolo vizioso. Forse se avessi organizzato un incontro con il Ghida
sarebbe diventata una donna allegra e solare. Era brutta, certo, ma,
essendo donna, superava il test del professore di filosofia. Cercavo
di stare calma, nonostante mi guardasse se mi volesse sbranare e
automaticamente cominciai a indietreggiare.
«Esercizio numero 10» mi disse allungandomi il suo
libro.
Lo lessi ma ai miei
occhi
appariva arabo. Mi grattai la testa guardandomi attorno come un
cerbiatto sperduto in cerca di un volontario che mi salvasse, ma
tutti, compreso Giulio “the
mad” erano impauriti
dalla Carla. Scrissi i dati alla lavagna, come prima cosa, lentamente
e rendendo i numeri il più ciccioni possibili
così da perdere un
sacco di tempo.
«Livraghi se continua con questo ritmo la mando al posto con
un 2!»
sbraitò la frustrata.
«Relax baby!»
Appena mi accorsi di
non aver
solo pensato la frase che maggiormente adoperavo nella vita comune,
mi morsi la lingua. Lo sguardo della sciacallo era incandescente.
Parlavo troppo e a sproposito. Le sorrisi, mostrando i denti,
mormorando un imbecille Scusi
prof. Inutile
dire che
il resto dell'interrogazione fu un massacro, con domande ignote su
argomenti inesistenti, partoriti dalla mente malata della D'Osvalda
ed esercizi impossibili perfino per un neolaureato in matematica.
Sospirai quando vidi un bel tre panciuto comparire sul libretto. Una
macchia indelebile nel mio curriculum scolastico.
«Stai calma Ben!» le dissi mentre la mia amica
sosia di Lady Gaga,
anche se mora, prendeva a pugni la macchinetta.
«Mi ha fregato i soldi!» si giustificò,
prendendola a calci
«Stupida macchinetta!» gracchiò poi,
sospirando e allontanandosi.
Una delle cose che meno sopportava Benedetta era perdere le sue amate
monete per colpa di una macchinetta, tirchia com'era. Spendeva solo per
lo stretto necessario e trovava inutile lo shopping. Talmente era
attaccata ai soldi che, pur di non spendere la ricarica, mi squillava
in modo che io la richiamassi. E io non digerivo affatto questo
atteggiamento, ma avevo cominciato a sopportarlo.
Io la seguii a passo svelto verso una meta a me ignota, cercando invano
di calmarla. Benedetta si diresse verso le
scale percorrendole con velocità. Il mio essere bradipo mi
fece
perdere la sua scia e per poterle stare dietro caddi dalle scale,
prendendo una culata dolorosa e staccandomi un braccio che era
rimasto attaccato al corrimano nell'inutile tentativo di rimanere in
piedi. Già quella caduta da Paperissima era un'umiliazione
abbastanza pesante, soprattutto durante l'intervallo, ma come se non
bastasse il destino si divertiva a prendersi gioco di me. In quel
momento, in quell'esatto istante, il ragazzo più bello della
scuola,
il latin lover, il mio sogno proibito, Davide Saronno mi
passò
accanto, abbracciato alla sua nuova fiamma bionda e riccioluta. Ero
una delle tante ragazze innamorate di lui e una delle poche che lui
non cagava. Due erano le possibilità: o non sapeva che
entrambi
popolavamo quel pianeta o mi aveva scambiata per un uomo. Nonostante
il mio seno piccolo e quasi inesistente, era chiaro che fossi una
ragazza, per cui sicuramente la prima ipotesi era quella più
accreditata. Lui frequentava il quinto anno e la prima volta che lo
vidi era quando andavo il seconda liceo, durante la giornata
sportiva, che giocava a pallavolo. Fu facile scoprire il suo nome,
tutti conoscevano Davide Saronno in quella scuola.
Rise, molto probabilmente aveva assistito a tutta quella scena
comica. Mi superò e sentì quella specie di
Guendalina Blabla
chiamarmi sfigata. Stupida oca con il dono della
parola!
L'unica cosa positiva era che Davide sapeva dell'esistenza di una
goffa ragazzina ignorata fino a quel momento. Mi rialzai,
sistemandomi i jeans scuri e cercando di pulirmi dal marciume che si
annidava in quella scuola. Corsi via, imbarazzata raggiungendo
finalmente Benedetta seduta sul muretto che costeggiava la rampa per
disabili.
«Dove eri finita?» mi domandò.
«Ho avuto un incidente» deglutii, ripensando alla
mia figura di
merda
Benedetta annuii e tornò a guardare davanti a sé.
Era da quando
aveva messo piede in classe che era elettrica. Inizialmente pensavo
che la causa fosse l'interrogazione di matematica, ma ora mi stavo
ricredendo.
«Si può sapere che hai?» le domandai,
quasi scocciata.
«Ho preso un quattro in matematica»
cominciò ad elencare. Alzai le
sopracciglia. E io cosa avrei dovuto fare per quel tre? Uccidermi?!
No, per quello ci avrebbe pensato mia madre «La macchinetta
mi ha
fregato i soldi e ieri mi sono lasciata con il mio ragazzo!»
appoggiò il mento sulle mani sconsolata.
Roteai gli occhi. Perchè, dico e ripeto e sottoscrivo,
perchè si
finiva sempre a parlare di ragazzi?!
«Mi dispiace» dissi solamente, cercando di
mostrarmi interessata.
Che potevo sapere io di come si soffriva per la perdita di un amore?
Nulla. Ed ero anche la meno consigliabile per consolare un cuore
infranto.
In quel momento arrivò anche Claudia, una ragazza del terzo
anno
amica di Benedetta che conoscevo per corrispondenza, con il suo
solito panino delle undici tra le mani.
«Che ti prende Germa?» domandò con voce
cupa e roca.
«Mi sono lasciata con Marco!» le rispose
«Claudiano!»
Benedetta odiava essere chiamata Germa perchè odiava essere
paragonata alla sua sosia. Così aveva coniato il soprannome
Claudiano per la sua amica per via della sua voce mascolina. E non
aveva tutti i torti. La prima volta che la incontrai ero nel bagno
della scuola a fare i bisogni e sentivo Ben parlare con un maschio.
Ero sconvolta! Un uomo nel bagno delle donne?! Quando uscii imprecai
contro quel ragazzo che era entrato nel nostro bagno chiamandolo
maiale. Quando poi domandai dove fosse andato, Claudia alzò
la mano
facendomi capire che l'uomo in questione era lei. Le mie figure di
merda non possono contarsi sulle dita di dieci mani.
«Tempo due settimane ne hai già un
altro!» ribattè Claudia
ridacchiando.
Benedetta la guardò torva, ma il camionista non aveva tutti
i torti.
Germa cambiava uomini alla velocità della luce e non
riuscivo a
capire come lei potesse avere così tanti ragazzi ed io
essere a
quota zero. Ero molto più carina di lei, almeno con i
capelli corti
non sembravo un uomo. I misteri della vita.
«Stai per caso insinuando che sono una sgualdrina?»
domandò
Benedetta stizzita.
«Io non ho insinuato niente» ribattè
Claudia con nonchalance.
«Ma lo hai pensato!» la punzecchiò.
L'amica dai capelli rosso fuoco sorrise sorniona, seguita poi a ruota
da Benedetta, che le diede un lieve schiaffo sul braccio.
«Lo so che lo sono!» ridacchiò divertita
«Ma che ci posso fare se
amo il sesso?»
«Come darti torto!» esclamò Claudia,
quasi in estasi.
Le guardavo ridere e, poco convinta, mi unii a loro, annuendo come
una babbea. In realtà non ero affatto divertita, ma
scioccata! Come
poteva Benedetta essere così felice di essere considerata
una
passeggiatrice?! Il sesso rendeva davvero così stupidi?
Oppure era
così bello da volerne fare in continuazione? Scossi la
testa,
estraniandomi dai loro discorsi e cominciando a guardare Davide
attaccato alla colonna poco distante con me. La mia fantasia
volò.
Mi immaginavo tra le sue braccia al posto della riccioluta, che mi
baciava sensualmente, con le sue mani sulle mie natiche. Mi
immedesimai fin troppo nella parte che mi parve di sentire davvero le
sue mani sulle mie flaccide chiappe. Ma chi volevo prendere in giro?
Era impossibile perfino in una fantasia erotica che Saronno si
avvicinasse a me. Non rispecchiavo la sua donna ideale: non avevo un
gommone al posto delle labbra, niente tette gonfie e nessun culo alto
e sodo. Affranta, sospirai rumorosamente attirando l'attenzione di
Benedetta e Claudia che, terminati i loro stupidi discorsi, mi
guardarono dubbiose.
«Che sospiro!» commentò Claudia.
«Da innamorata!» aggiunse Benedetta «Sei
innamorata?» mi domandò
poi con un sorriso malizioso e un sopracciglio alzato.
Sbarrai gli occhi. Che cosa avrei dovuto rispondere? Non volevo
apparire una sfigata, così me ne uscii con una sciocchezza
enorme.
«In realtà sì» sorrisi
imbarazzata, mentre mi maledicevo
mentalmente. Anche se tutto sommato non era una vera e propria bugia.
In fondo avevo una cotta per Davide.
«Chi è?» domandò con voce
stridula Benedetta prendendomi le mani.
Sentii il mio cuore andare a trotto nel petto, era come se avessi una
carica di cavalli nel torace. Non potevo dire che ero cotta e
stracotta di Davide, sarebbe stato troppo chiaro che era solo un
amore platonico. Dovevo dare libero sfogo alla mia fantasia.
«Non lo conosci» mi limitai a dire telegrafica.
«È di questa scuola? Quanti anni ha? Come si
chiama? È bello?»
partì a raffica Claudia.
La campanella suonò e mentre tornavamo in classe dopo
l'intervallo
dovetti raccontare tutto. Tutte le bugie. Dicevo le prime cose che mi
passavano per la testa, sperando di non dimenticarmele in un futuro.
«Si chiama» deglutii, passando a rassegna qualsiasi
nome «E» mi
interruppi. Che nome cominciava con quella stupida lettera?! Edmondo,
Erasmo «Edoardo»
Mai conosciuto un Edoardo in tutta la mia vita! Avrei potuto
scegliere un nome più adatto ad un fidanzato immaginario,
sembrava
più un nome da nonno!
«Quanti anni ha?» insistette Claudia prima di
entrare in classe.
«22» tentennai.
La rossa mi guardò sospettosa con le labbra arricciate come
se
avesse capito che quelle erano solo menzogne. Poi sorrise raggiante e
mi strinse le mani.
«Poi voglio conoscerlo!» squittì,
nonostante la voce da
camionista.
Le sorrisi mentre lei entrava in classe. Sapevo che mi stavo
cacciando in un mare di guai. Presi a camminare velocemente,
raggiungendo la nostra aula. Il professor Giusti era già in
classe e
ci guardò torvo, indicando poi i nostri banchi con un cenno
meccanico del mento.
«Ma state insieme?» mi domandò Benedetta
mentre il professor
Giusti spiegava l'Orlando Furioso.
Che palle le domande! Le odio le odio le odio! Ma una tazza
di
latte e cavoli tuoi la mattina, no?! Pensai, ma non lo dissi.
Non
mi piaceva mentire, mai. Ma in questi casi ne andava della mia
immagine da adolescente! Se si veniva a scoprire il mio mondo
fantastico sarei diventata lo zimbello della scuola. Sospirai, ormai
la speranza che lei si fosse dimenticata, svanì.
«Sì, più o meno» mentii.
«Ma è bello?» continuò,
disinteressate alle occhiate dell'Umberto
Giusti Furioso.
Saperlo!
«Sì, più o meno. C'è di
peggio, ma anche di meglio» rimasi sul
vaga, in modo da non aver più problemi.
«Come vi siete conosciuti?» continuò
imperterrita.
Rotei gli occhi, sbuffando. Lei mi guardò contrariata,
arricciando
le labbra come era solita fare quando era arrabbiata od offesa per
qualcosa.
«Scusa se sono una scocciatura» cominciò
irritata «Ma tu non mi
racconti mai niente, devo cavarti le informazioni con la
forza!»
«Scusa» le dissi.
Benedetta mi accarezzò il braccio e mi sorrise, incitandomi
a
rispondere alla sua domanda.
«Livraghi, Sago volete anche un tè con dei
biscotti?!» domandò
arrabbiato Giusti.
«Non sarebbe male» mormorai, dimenticandomi
dell'udito da supereroe
del professore.
«Non faccia dell'ironia, Livraghi!»
Per il resto della lezione Ben smise di sommergermi di domande
stupide. E incomincia ad amare il professor Giusti che mi aveva
salvato dalle sue grinfie. Avrei potuto fargli una torta, ma avrei
rischiato di avvelenarlo.
Con la voce del professore in sottofondo, mi immersi nuovamente nel
mio mondo. Tanto Edoardo, ben presto, avrebbe levato le tende dalla
mia mente, come era avvenuto per Nicolò, Sebastiano e
Riccardo, i
tre miei ex fidanzati senza volto che nessuno, nemmeno io, aveva mai
visto. Dovevo trovare una scusa per sbolognarlo, una scusa credibile.
Una cosa ardua! Non sapevo perchè due potevano lasciarsi,
l'unico
che mi veniva in mente era il tradimento ma che palle! Sempre la
solita scusa! Non volevo fare la parte della povera ragazza distrutta
perchè il suo uomo era andata a letto con un'altra.
Bè, per qualche
mese avrei finto di avere questo fantomatico fidanzato, ci avrei
pensato in seguito.
All'uscita da scuola, cercai di parlare di tutto fuorchè di
ragazzi.
Trovavo interessante parlare perfino dell'Eredità! Claudia e
Benedetta mi assecondarono, stranamente. E camminavo talmente veloce
per arrivare il prima possibile nel cortile che mi domandai che fine
avesse fatto l'altra parte di me, ossia il bradipo che quando ero
piccola si era insinuato nel mio corpo e lo usava come dimora.
Sorrisi sgargiante quando arrivammo davanti allo scooter di Ben,
almeno mi sarei liberata di lei per un po'.
«Ciao ragazze» ci salutò indossando il
casco «Ci sentiamo su
Facebook»
«Ok» dissi «Ciao Germa!»
Lei mi fulminò con lo sguardo e io le feci la linguaccia.
Poco dopo
anche Claudiano mi abbandonò salendo sulla macchina di suo
padre che
tutti i santi giorni la riaccompagnava a casa. Anche io volevo andare
in auto, e invece ero costretta a prendere quel lurido vasetto di
sarde, meglio nota come Linea 30.
Raggiunsi la fermata sull'altro
marciapiede insieme ad un'altra ventina di persone, per lo
più
appartenenti alle specie di truzzi e bimbeminkia. Di loro non
conoscevo nessuno, se non Davide, anche se non personalmente, con lo
zaino portato su una spalla che rideva insieme ai suoi amici. Mi
incantai nel guardarlo in tutta la sua statuaria bellezza. Adoravo i
suoi capelli neri e quella barba da uomo vissuto. I suoi occhi
azzurri come il mare mi trafissero e cominciò a ridere,
sicuramente
mi aveva riconosciuta nella ragazzina goffa che aveva creato un
cratere nelle scale. Nascosi il viso sotto la sciarpa, troppo
imbarazzata in quel momento per continuare a camminare a faccia
scoperta.
Ballonzolavo, cercando di ricavare calore. Faceva troppo freddo per i
miei gusti, lo odiavo, a meno che non nevicava. Il gelo con la neve
era tutt'altra storia. Senza di essa, non aveva motivo di esistere.
L'autobus arrivò poco dopo, già quasi
completamente colmo di gente.
Respirai profondamente, pronta ad affrontare quell'ennesimo viaggio
come una sardina.
«Alice!» sentii urlare, ma non mi voltai.
Sicuramente si stavano
rivolgendo ad un'altra Alice. Io non conoscevo praticamente nessuno
di quella scuola.
«Alice Livraghi!» cantilenò la stessa
voce di prima, in tono scocciato.
Sbuffai e mi voltai a destra e a sinistra vedendo un ragazzo seduto
sul sedile che sventolava una mano. Mi feci strada tra la folla
cercando di non essere vittima della forza centripeta, ma, ovviamente
non avvenne. Rischiai di cadere più volte, sbattendo anche
contro
Davide.
«Scu-scusa» balbettai.
«Dovresti stare più attenta» mi disse
con un sorriso, la prima
volta che sentivo la sua meravigliosa voce.
Boccheggiai, sentendo che stranamente l'aria fredda di Gennaio stava
diventando ardente. Cercai di fare un mezzo sorriso, ma credo che ne
uscì una smorfia ridicola. Mi allontanai da lui e raggiunsi
finalmente il ragazzo biondo che mi aveva chiamato, sedendomi al
posto della sua cartella che occupava il sedile accanto a lui.
«Fede!» esclamai, abbracciandolo, riconoscendolo
solo in quel
momento. Non avrei mai potuto dimenticare i suoi biondi capelli
ribelli. Federico Abbate era stato un mio compagno delle medie, lo
avevo considerato il mio migliore amico finchè le nostre
strade non
si erano divise per via del liceo. Erano quasi cinque anni che non lo
vedevo né lo sentivo e mi fece piacere ritrovarlo su
quell'autobus.
Cambiato, notevolmente cambiato, a partire da quelle spalle larghe
che portarono la mia mente a fare dei pensieri impuri.
«Sei...» mi interruppi per guardarlo con un sorriso
e gli occhi
stupiti. Federico si passò una mano tra i capelli con fare
da figo,
credendo che gli avrei detto che era diventato l'uomo più
bello del
mondo, ma non era affatto così «Sei uguale a
Ibra!» esclamai.
Mi guardò con gli occhi ridotti a due fessure, incrociando
la
braccia.
«Hai lo stesso naso!» lo indicai eccitata.
Federico si passò le dita su quella canappia che si
ritrovava in
mezzo alla faccia e mi guardò torvo. Io gli sorrisi
dolcemente, una
sorta di perdono che lui accettò sorridendomi di rimando,
scuotendo
la testa.
«Allora, come va la scuola?» mi domandò,
cambiando argomento.
«A parte che oggi ho preso un 3, per il resto va
bene» alzai le
spalle «Tu?»
«Abbastanza bene» rispose.
Entrambi frequentavamo il liceo scientifico, solo che lui aveva
preferito quello di Milano. Dico, perchè mai farsi il mazzo
mezz'ora
tra autobus e metropolitana per andare ad un liceo che c'era anche
vicino al nostro paese? Quando lo venni a sapere, mi infuriai con lui
e chiusi qualsiasi rapporto. Sono un tipo che serba rancore e quel
gesto lo avevo vissuto come una sorta di abbandono. Avrei voluto
condividere con lui l'ebbrezza del liceo.
«Ti sei fatto di steroidi per diventare così
grande e muscoloso?»
gli chiesi poi, squadrandolo da capo a piedi. Aveva le gambe talmente
lunghe che faceva fatica a stare seduto in quel sedile stretto. Lui
scoppiò a ridere, anche se la mia domanda non era una
battuta ma un
vero e proprio dubbio. Anche perchè me lo ricordavo basso e
rachitico.
«No! Ho cominciato a fare sport» spiegò
con un
sorriso, facendo diventare la sua
bocca più larga di quanto già non fosse. Sport,
una parola sconosciuta alle mie orecchie pigre.
«Cioè?» domandai curiosa.
«Nuoto»
Un'altra parola assente nel mio vocabolario. Ero impedita in acqua,
tanto che in piscina, per non annegare, andavo in quella dei bambini o
evitavo di entrare.
Ci fu un
momento in cui
nessuno dei due parlò, un silenzio che quasi mi imbarazzava.
«Sei ancora arrabbiata con me?» mi prese alla
sprovvista con quella
domanda e soprattutto con quegli occhi color nocciola che sembravano
quelli di un cucciolo. Incrociai le braccia, mettendo il broncio,
osservando il suo sorriso spegnersi piano piano.
«Ma no!» esclamai sorridendo «Sono
passati cinque anni! Anche se
ancora non riesco a capire perchè hai scelto un liceo a
Milano, nonostante ce ne fosse uno a pochi chilometri da casa
tua» il
mio tono divenne brusco.
«Mi sembra che tu non abbia ancora superato questo
abbandono» fece
le virgolette ad una parola che avevo usato io durante il nostro
ultimo incontro, quando litigammo. Le virgolette mi irritavano e lui
lo sapeva. Se se lo ricordava.
«Non sono arrabbiata!» continuai con voce stridula
«È solo che
pensavo che tu tenessi a me!»
«Andiamo!» sbottò lui, sbattendo la sua
enorme mano sul ginocchio.
Un suo schiaffo ti avrebbe mandato all'altro mondo a fare tanti
saluti al Creatore «È solo un liceo! E se tu
tenevi tanto a me, mi
avresti cercato. Abitiamo vicini, ricordi?!» mi
punzecchiò acido.
«Nemmeno tu mi hai cercata! Abitiamo vicini,
ricordi?!» sorrisi
soddisfatta.
Lui mi fulminò, scuotendo la testa e cominciando a guardare
fuori
dal finestrino. Non era stati certo il massimo incontrarsi nuovamente
dopo cinque anni con un dialogo del genere. Incrociai le braccia al
petto, lanciandogli di tanto in tanto qualche occhiata per vedere che
cosa stesse facendo: ripeteva esattamente le mie mosse. Sorrisi
quando i nostri occhi che erano tutt'altro che arrabbiati si
incrociarono e lui fece lo stesso, facendomi poi un buffetto sulla
guancia. Mi era mancato. Tanto.
L'autobus, arrivato all'altezza di via Cavour, svoltò
avviandosi
verso la mia fermata.
«Potresti prenotare la fermata?» domandai a
Federico «Con il naso
dovresti arrivarci» ridacchiai, indicando il pulsante sul
palo di
fronte a noi. Lui mi guardò offeso, indicandomi quello che
aveva
poco sopra la testa. Cavoli, però, un po' di autoironia non
guasterebbe! Anche se io sono la prima a non ridere di me stessa,
soprattutto quando mi si fa notare che ho la cellulite. Sbuffai
contrariata, alzandomi e facendomi strada per arrivare allo
sportello, seguita a ruota da Federico che scese alla mia stessa
fermata.
Sollevai la testa guardandolo incredula, accorgendomi solo in quel
momento di quanto fosse alto. E mi sentivo a disagio a camminargli
accanto. Nemmeno con un tacco dodici avrei raggiunto la sua statura.
«Quanto cavolo sei alto?!» esclamai incredula.
«1.94» rispose, passandosi una mano tra i capelli
biondi.
«Mi presti un po' di gambe?» ridacchiai.
«Volentieri!» esclamò lui ridendo con me.
Mi cinse una spalla spingendomi verso di lui. Il mio cuore
guizzò a
quel contatto. Non ero mai stata così vicina ad un ragazzo,
escluso
mio fratello flatulento e mio padre. Annaspavo, ma cercavo di non
darlo a vedere.
«Mi sei mancata» mi confidò
avvicinandosi al mio orecchio.
«Anche tu» ammisi imbarazzata.
«E scusami per prima» continuò,
schioccandomi un bacio sulla
guancia.
Sentivo caldo, tanto caldo, troppo. Quel contatto con un essere del
mio sesso opposto cominciava a imbarazzarmi troppo e rischiava di
farmi venire un attacco di cuore. Non volevo di certo morire ad un
passo dai diciotto anni e soprattutto vergine! Lo spinsi via,
ridendo, sentendo finalmente che l'aria cominciava a rifluire.
«Stammi lontano che mi fai sentire una nana!»
esclamai, accelerando
il passo. Ma, ovviamente, non servì a nulla
perchè con le gambe
lunghe che si ritrovava, Federico mi raggiunse in un secondo.
«Ma tu sei nana!» ribattè passandomi una
mano tra i capelli e
scompigliandoli.
Arricciai il naso, facendogli una linguaccia e cercando di ricomporre
la mia zazzera mossa e di ridargli una forma decente. Alla scuola
media, le nostre strade erano destinate a dividersi nuovamente.
Già
sapevo che non lo avrei rivisto mai più dopo averlo
salutato, se non
magari tra altri cinque anni. Una cosa che proprio non mi riusciva
era mantenere le amicizie, anche se c'era stato quel riavvicinamento
inaspettato e infuocato.
«Ci vediamo!» mi disse salutandomi con la mano. Io
risposi
sventolando la mia, guardandolo tristemente entrare in un piccolo
viottolo che lo conduceva a casa.
Sospirai mentre sfregavo i piedi sullo zerbino prima di entrare in
casa. Mia madre era una fissata: se non ti pulivi le suole potevi
startene fuori sul pianerottolo a dormire comodamente sul tappetino
pungente.
«Sono a casa!» esclamai, appoggiando lo zaino e
togliendomi la
giacca.
Milky, il mio gatto bianco e morbidoso, si strofinò sulle
gambe
lasciandomi palle di pelo grosse come arance sui pantaloni neri.
«Ciao» una risposta svogliata provenne dal bagno da
cui, poco dopo,
uscì il mio fratellone-barile, occhialuto e con l'alito di
cipolle,
vestito solo con un paio di pantaloni, mostrandomi la pancia flaccida
e le braccia tatuate. I tatuaggi per lui erano come una droga. Aveva
fatto il primo a 14 anni di nascosto dai miei genitori e, ancora
adesso, a 23 anni continuava a pitturarsi il corpo. Un uomo che mi
faceva perdere la voglia di trovare un fidanzato. Si chiamava
Raffaele, ma io preferivo Smell. Era iscritto a
Farmacia, ma
erano più le volte che stava a casa che in
università.
«Come è andata?» mi domandò
anche se non era per nulla
interessato.
«Insomma» alzai le sopracciglia «Ho preso
3 in matematica»
«Somaro, somaro!» mi insultò, imitando
il verso dell'asino.
«Vorrei ricordarti, Smell, che tu avevi
NC in matematica»
sorrisi vittoriosa quando lo vidi farsi serio.
«Il pranzo è sul tavolo» disse
scocciato, grattandosi l'ombelico.
Lo guardai allontanarsi schifata andando poi in cucina dove vidi il
mio pasto reale che giaceva sul tavolo: uno stupido panino al latte
con una misera fetta di prosciutto cotto. Voleva per caso farmi
morire di fame?! Lo sollevai scoprendo un biglietto scritto con
l'orrenda calligrafia di Smell.
La tua linea mi ringrazierà :)
Appallottolai quel foglio più volte, buttandolo a terra e
calpestandolo violentemente. Odioso e stupido fratello! Afferrai il
panino e ne presi un morso. Inutile dire che ne divorai
metà. Mi
misi davanti alla porta di Raffaele sulla quale c'era un teschio con
sotto scritto Keep out. Quell'allarme era per avvisare della puzza
che aleggiava in quella stanza, puzza di fumo e chissà
cos'altro.
«Quello ciccione sei tu non io!» urlai, sorridendo
poi compiaciuta
alla porta.
Entrai poi nella mia bellissima camera insieme al mio gatto. Era
piccola, ma confortevole ed era colorata con tutte le sfumature del
rosa, il mio colore preferito. Mi spogliai, indossando la tuta, la
bellissima e comodissima tuta, spaparanzandomi sulla sedia girevole
davanti alla scrivania e accesi il computer. Nell'attesa che caricava
girai su me stessa, cosa che adoravo fare, anche se dopo sembrava che
mi fosse scolata due bottiglie di vodka. Non che io mi sia mai
ubriacata, ma credo che più o meno ci si debba sentire
così, con la
testa che piroetta e lo stomaco che vuole schizzare fuori.
Il mio appuntamento giornaliero con internet mi aspettava. La prima
cosa che feci era accedere a Facebook, anche se
già sapevo
che non avrei fatto nulla se non parlare con Germa. Ma mi stupii per
la richiesta di amicizia che mi era arrivata.
Federico Abbate voleva essere mio amico.
Sorrisi stupidamente vedendo la foto del profilo di Fede, lui a petto
nudo - e che petto- con dietro il mare azzurro a fargli da sfondo.
Non era bellissimo, anzi, tutt'altro, ma aveva un corpo dannatamente
bello. Controllai il suo status: single. E la cosa
mi rendeva
estremamente felice.
Buona domenica a
tutti!
Allora per prima cosa devo dire che non mi aspettavo un successo tale
per un corto e scarno prologo! Davvero, sono senza parole! Grazie di
cuore ♥
Spero che i capitoli non vi deluderanno e che rispecchino le vostre
aspettative!
Come avevo annunciato il capitolo è abbastanza corposo,
spero non troppo. Se lo ritenete troppo lungo ditemelo che nei prossimi
cercherò di farli più corti.
Siamo entrati nel mondo di Alice, molto lentamente perchè
è una ragazza molto sensibile. Abbiamo avuto anche un
piccolo stralcio dei vari protagonisti che si avvicenderanno in questa
storia. E Alice ha già detto la bugia che le
sconvolgerà l'esistenza, ossia di avere questo fantomatico
fidanzato di nome Edoardo.
Passiamo ai ringraziamenti.
GRAZIE a pickwick, caramellina 20 e smilenii per la loro
recensione.
GRAZIE a chi
ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate.
GRAZIE a chi
ha letto solamente e siete in molti :)
Poi, vi ricordo che se volete avere un'idea di come mi sono immaginata
i personaggi li troverete nel mio profilo. Ovviamente, voi potete dar
loro il viso che preferite.
Un bacio a tutti, Manu ♥