Innanzitutto, non so per cosa scusarmi prima.
Il mio ultimo aggiornamento risale praticamente
a Natale, e, peraltro, quest’ultimo capitolo è molto piccolo ed
insignificante.
Mi scuso di entrambe le cose: non potevo posticipare ancora di
più, ma non avevo energia necessaria per arrivare dove volevo. Anche se
narrare di una Naive in versione troll mi ha divertito.
Lo so, questo capitolo avrebbe dovuto essere tutto per Machin, ma ho
deciso, per una volta, di invertire l’ordine.
Altrimenti, il caro lettore Olivera mi
avrebbe uccisa una volta e per tutte.
Bah, questo è tutto quello che ho da dire in proposito.
Al prossimo capitolo, quando sarà.
Akita.
Qualcuno
ha mai provato la netta sensazione di non riuscire assolutamente a capire quello che si sta guardando?
Come se
davanti vi fosse un rompicapo, un enigma ingarbugliato, una specie di gomitolo
di cose che non si riescono a districare, e tutto quello che vedi è,
francamente, un ammasso insensato di roba.
Benissimo.
Io mi
sentivo esattamente così.
Ero sul
ponte di una nave, con i miei amici e il capitano Naive Kewslar, o dovevo
esserlo, e guardavo davanti a me, dove, ormai vicinissima, c’era la
città di Atlantis.
Insomma,
mi avevano detto che quella cosa era
Atlantis, ed io non potevo far altro che crederci. Ero troppo confusa per avere delle opinioni sensate in proposito
Ci
sarebbe stato da ridere forte, se solo quella situazione fosse stata meno seria.
Ad un
certo punto, mi ricordo bene, pensai addirittura che stessero scherzando.
Doveva essere uno scherzo. Per forza.
Strizzai
gli occhi, cercando di ricavare qualche informazione dal paesaggio, qualcosa
che non fosse un’accozzaglia poco comprensibile di colori e forme.
L’ansia
tremenda che avevo provato fino ad un secondo prima si
era dissolta, sostituita da un sentimento indefinito, che mi faceva bruciare lo
stomaco, come se dentro ci fosse fuoco.
Qualcosa tipo confusione, paura, aprire gli occhi e scoprire di vedere
niente, aprire la bocca senza saper parlare. Non riesco a definire questo
sentimento, e non credo fosse molto positivo.
Cercai,
disperatamente, qualcosa che potessi ricondurre al conosciuto.
Stavamo
costeggiando lo strapiombo, pietra chiara battuta dalle onde di un mare tutto sommato calmo.
Non era
un’isola piccola, non aveva le dimensioni di Gerinti,
ma non si poteva definire enorme.
Piuttosto
graziosa, conservava ancora moltissima vegetazione. Il paesaggio naturale, a primo acchito, non era molto diverso dalle isole che
costeggiavano il continente, anzi.
Sarei stata
felice di mettere piede in quel luogo di pace, ma
quella cosa chiamata città mi
terrorizzava, ed era poco.
I miei
pensieri erano totalmente calamitati lì. Non pensavo che si stava avvicinando il momento dello sbarco e
dell’arrivo finale, né che stavamo per immergerci in un mondo che ci avrebbe
divorati alla minima debolezza.
Ero
troppo confusa. Sarò ripetitiva, ma non c’è altro da dire.
Niente,
non c’era niente da fare. Anche se cercavo di guardare altrove, in mio
sguardo veniva irresistibilmente calamitato su
Atlantis.
Non
c’era niente da fare. Oltretutto, eravamo così vicini che era
impossibile guardare da qualche altra parte.
Mi
costrinsi a mettere ordine nei miei pensieri, e cercare di mettere ordine anche
nella confusione che si stendeva davanti ai miei occhi.
Feci un
paio di respiri profondi, cercando di calmarmi. Il risultato fu un conato di
vomito. Non dovevo dimenticare il mal di mare, né la relazione complicata che
c’era tra il mio stomaco ed il mio umore.
Inoltre,
piuttosto che calmarmi, quel gesto mi fece venire voglia di scappare dritta
nella mia stanza, chiudermi dentro ed insistere per
essere riportata immediatamente a casa.
Mettere
piede lì? Proprio lì? Col cavolo.
Io lì non ci andavo. Non ci sarei
andata per niente al mondo, nemmeno pagata. Di nuovo, per l’ennesima
volta, pensai ad Isnark.
Immaginai
anche di stringergli il collo non tanto amichevolmente, ma il mio umore non
migliorò di molto.
Disorientata,
recalcitrante, guardai i miei amici e compagni di viaggio. Di certo loro mi
avrebbero confortata.
In fondo,
ero io quella dalle reazioni esagerate, ero io l’isterica. Capouille
poteva innervosirsi facilmente, ma era di fondo un
guerriero, Zipherias era praticamente un blocco di pietra solida.
Io ero
stata una Spia, ma stavo cercando, in ogni modo, di dimenticarlo. Ero una Ch’argon e basta.
Ero
un’elfa isterica e basta. Ero isterica e basta, forse così
è meglio.
Quindi,
tralasciando queste considerazioni oziose, ero io che stavo reagendo male.
Dovevo solo prenderla con più filosofia, e cosa c’era di meglio di
un paio di amici equilibrati per riprendere il
controllo?
Sicuramente
mi avrebbero presa in giro, mi avrebbero rassicurata,
ed io mi sarei sentita stupida, e meglio. Sicuramente già mi stavano
fissando e ridacchiando tra loro, le comari, come avevano fatto durante tutto
il viaggio. Su, Lsyn, non fare così, se tu che hai i nervi troppo tesi,
calmati.
Mi sentii
fiduciosa, e li guardai.
Per poco
non mi sfuggì un’esclamazione di incredulità.
O forse mi è sfuggita e non me lo ricordo.
Quello
che mi ricordo benissimo, invece, sono le facce dei miei amici.
In quel
preciso istante, Capouille si stava coprendo gli occhi con una mano. Si era
rifiutato di vedere.
Zipherias
invece, il mio caro Zipherias sempre calmo e granitico, strizzava gli occhi,
come infastidito dal sole.
Ebbi
anche una fugace visione di Naive, con l’espressione di una persona in
procinto di ricevere il regalo più grosso della sua vita ed un sorriso furbo sulle labbra.
Il mio
amico dalla pelle scura fu l’unico che ebbe il coraggio di parlare.
Non si
voltò nemmeno verso Naive, la sua sembrava piuttosto una domanda
retorica. Tutte le sue energie erano concentrate sul rompicapo, per cercare di
prenderlo nel migliore dei modi.
“cos’è?”.
Domandò semplicemente, con una voce che quasi non riconobbi come la sua.
Non ho mai più sentito la voce di Zipherias tremare in quel modo.
Il
sorriso odioso di Naive si accentuò, e lei non rispose. Non ne aveva
bisogno, tutti sapevamo benissimo dove e come guardare.
Mi sentii
afferrare da un panico indicibile. Cercai disperatamente di concentrarmi sulla
città. Va bene, visto che non potevo farci assolutamente niente, meglio
imitare Zipherias.
Prenderla
con filosofia, quello era il segreto. Era tutto normale, niente ci stava
minacciando e niente voleva farci del male. Filosofia.
Più facile a dirsi che a farsi. Filosofia.
Niente,
la sensazione di oppressione non voleva andarsene.
Pian
pianino, però, tutto cominciò ad avere un certo senso. A forza di
costringere a fissare, tutto cominciò a ricomporsi in una dimensione
più familiare.
Da
lontano, Atlantis sembrava una specie di incarnazione
della nave. Splendente e gloriosa, quasi artefatta.
Al centro
della città c’era una specie di edificio, credo, altissimo, il
più alto mai visto in vita mia.
Aveva una
forma slanciata, agile, bucava il cielo come un ago. Sembrava ricoperto
d’oro, alla luce del sole.
Non
vedevo chiaramente tutto il resto, da quella distanza, ma mi sembrava che
l’impianto fosse regolare ed ordinato, tipico di
una città degli elfi, particolare che mi fece sentire un po’
più a casa.
Non era
abbastanza tranquillizzante, ma, se mi fossi soffermata sulla forma un
po’ strana di tutto, credo sarei impazzita in
brevissimo tempo.
A mare,
inoltre, c’era un gran traffico.
Prima,
così stordita dalla quantità di nuove informazioni, non ci avevo
fatto minimamente caso, ma, ora che le cose stavano
riprendendo il loro senso, per modo di dire, potevo guardarmi meglio intorno.
C’erano
barche di tutti i tipi, colori e dimensioni.
Alcune piccole, dall’aspetto molto umano, piene di reti,
colorate allegramente, piene di bandierine, altre a vela, più grandi e
tozze, dai colori
scuri.
Alcune
erano simili alla nave su cui stavamo viaggiando, e differivano solo per
piccoli particolari, come i colori e le polene.
Una di queste,
di legno scuro e lucido e argento, e dalla polena a forma di delfino, ci
passò vicinissima, facendo una confusione mortale.
La nostra
nave rispose con altrettanta foga. Intorno a me, tutto sembrò tremare
per un suono sgradevole e profondo. Qualche marinaio di diede
ad esclamazioni di gioia, che nessuno curò di soffocare.
Quello fu
leggermente troppo per me. Non ero
abituata a sopportare quel tipo di stress.
Non
riesco a ricordare né come cominciai né cosa dissi esattamente,
ma sono sicura di aver investito il capitano Naive Kewslar di una salva di ingiurie, suppliche per tornare a casa, domande, tutto,
ovviamente, nella lingua degli elfi, dimenticandomi totalmente che lì
nessuno mi capiva.
Una cosa
molto strana, nessuno dei miei due compari intervenne per sedarmi. Anzi, sono
tuttora sicura che non si siano nemmeno accorti della mia esplosione.
Quell’elfa
maledetta mi guardò, grattandosi l’angolo del naso, perplessa.
“Lsyn
Amarto, temo di non aver capito cosa mi state dicendo. Anche se sono sicura
che non fossero complimenti, potreste ripetere in un idioma civile?”.
Quella
domanda, quel tono così ilare, fecero saltare
quel poco di calma che mi ero imposta. Che cosa aveva detto? Idioma civile?
Che cosa
stava insinuando? Stupida testa di gallina.
Accidenti,
il capitano avrebbe potuto scrivere un intero tomo su come offendere un elfo
del continente.
È
vero, ma che importava? Noi eravamo gli ultimi tra i diplomatici, elfi
imbecilli da trattare come si voleva, da sballottare qui e lì a piacere,
senza chiedersi cosa pensassero loro di tutto quello.
Da quando
avevamo lasciato Fiya era
stata una sequela continua di umiliazioni. Anzi, da quando eravamo a Fiya.
Insomma,
ero un po’ stanca di essere trattata come una specie di creatura
primitiva, non del tutto senziente.
Ma che
idea degli elfi aveva, quella tipa? Suo padre non le
aveva insegnato che nel continente avevamo una cultura, una storia che a loro
faceva un baffo?
Bella
storia, la loro, invece. Erano arrivati lì e basta. Avevano costruito.
Tante
grazie, chiunque avrebbe potuto farlo.
Non
avevano una lingua, né un’identità. Erano solo tante
persone di etnie, razze ed idee diverse che si erano
messe d’accordo.
Tante
teste che cercavano, volenti o nolenti, di non scannarsi.
Se quello
era il loro concetto di modernità, allora, col cavolo che l’avrei
accettato, e tante grazie all’idea di elfi trogloditi.
Ah
sì, e tante grazie alla diplomazia: non sapevo dove
mettermela, dopo quell’affermazione.
La
straordinaria uscita sulle lingue civili aveva prodotto anche un altro effetto,
oltre a farmi uscire definitivamente di testa.
Capouille
e Zipherias avevano sentito, e avevano deciso che, in quel momento, Atlantis
non era molto interessante.
Prima che
potessi aprire minimamente bocca, sentii un paio di mani diverse posarsi sulle
mie spalle.
Una presa
solida, sicura, ed una più delicata.
I miei
amici mi erano venuti in soccorso.
Vedevo praticamente rosso. Accidenti, dire a me una cosa del genere
era il miglior modo per fare un bel bagno a mare. Avevo dimenticato il mal di
mare, addirittura.
Intanto,
Naive continuava a ridere. Ma che aveva, quella
lì? Era stupida?
Stavo per
parlare, quando Zipherias mi anticipò.
“quanti
anni hai, Naive?”. Cominciò, con voce pacata.
Lo invidiai. Lui sì che sapeva mantenere la calma.
Il
capitano non sembrò minimamente scomporsi di fronte a quella palese
mancanza di rispetto. Era la prima volta che le davamo del tu. Non smise
nemmeno di sorridere.
Sbuffai
con tutta la forza che avevo. Mi stava davvero dando sui nervi. Il sorriso
della maledetta si allargò ancora di più, e lei rispose con voce
che definirei soave. Odiosa.
“non
vedo cosa c’entri la mia età. È un
po’ scortese chiedermelo, non trovate?”.
Ecco,
allora voleva proprio provocarci. Scortesi, noi? Ma si
era vista allo specchio, lei, la personificazione della maleducazione? Animale
che non era altro.
Zipherias
strinse un po’ più forte la sua presa, di solito quasi
impercettibile. Ecco, si stava arrabbiando un po’ anche lui.
Ci fu un
lungo momento di silenzio.
Non mi
resi nemmeno conto di essere io a parlare, a bassa voce.
La mia
voce uscì più distorta del solito per via della rabbia. Cominciai
a tremare, e fui costretta a stringere le mani a pugno. Ah, come mi sarebbe
piaciuto schiaffeggiare quella faccia impertinente.
“c’entra
che…”. Ringhiai, guardando storto il capitano. Ah, se solo fosse
stata mia nipote… per quella frase le avrei dato
una punizione esemplare. Che educazione insegnavano quegli elfi, ai propri
figli?
Il
sorriso di Naive non si spense, ma nei suoi occhi vidi un pizzico di apprensione.
Ah, finalmente.
“c’entra che forse
esiste qualcosa che si chiama educazione. Tua madre non te ne ha mai parlato, o forse nella
tua lingua civile questa parola non
esiste? O forse la tua stupida civiltà non permette
queste finezze?”.
Presa
com’ero dal mio discorso, non mi accorsi nemmeno della strana vibrazione
della nave. Si era fatta molto
forte. C’era un rumore cupo nell’aria, ed
un odore strano, quasi acre.
Non me ne
importò molto. Niente era più importante dell’umiliazione
che intendevo infliggere a quella scostumata.
Non ne
potevo più. Avevano decisamente oltrepassato il
limite!
La cara
scostumata, intanto, si era guardata attorno, oltre le nostre spalle, ed il suo sorriso si era fatto ancora più furbo.
Ero sul
punto di strozzarla con le mie stesse mani. Piccola presuntuosa… chi si
credeva di essere?
Forse la
presa dei miei amici sulle mie spalle non serviva solo per supporto.
Lei ci
guardò, ancora più soave di prima, come
se il nostro discorso non l’avesse minimamente toccata.
“forse”.
Disse, serena, la voce strana, come se stesse reprimendo la più grande
risata del mondo.
Ci fu un
attimo di silenzio indispettito, una pausa di riflessione in cui, ancora
fumante di rabbia, ebbi modo di rendermi conto di due cose.
Primo,
c’era più rumore del solito.
Secondo,
la nave non vibrava più.
Sentii
puzza di fregatura imminente. C’era qualcosa che non quadrava a dovere.
“fatto sta che siamo arrivati. Siete meno spaventati, ora?
Giratevi pure. Benvenuti ad Atlantis”.