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Autore: Akita    22/05/2011    1 recensioni
Storia sospesa a tempo indeterminato.
Seguito di "Memorie Dei Rinnegati-La Figlia Delle Spie".
Sono ormai passati tanti anni dal terribile viaggio di Lsyn Amarto, un tempo figlia delle Spie.
Molte cose sono cambiate. Primo, lei stessa. Di nuovo il destino tornerà ad incombere su di lei, e su chi ama, come una nuvola scura. E, di nuovo, bisogerà lottare con le unghie e con i denti per conquistarsi il diritto di alzare il capo verso la vita.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie dei Rinnegati.'
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Mio caro mostriciattolo sfregiato;

Innanzitutto, non so per cosa scusarmi prima.

Il mio ultimo aggiornamento risale praticamente a Natale, e, peraltro, quest’ultimo capitolo è molto piccolo ed insignificante.

Mi scuso di entrambe le cose: non potevo posticipare ancora di più, ma non avevo energia necessaria per arrivare dove volevo. Anche se narrare di una Naive in versione troll mi ha divertito.

Lo so, questo capitolo avrebbe dovuto essere tutto per Machin, ma ho deciso, per una volta, di invertire l’ordine.

Altrimenti, il caro lettore Olivera mi avrebbe uccisa una volta e per tutte.

Bah, questo è tutto quello che ho da dire in proposito.

Al prossimo capitolo, quando sarà.                                                                                                                                       

                                                                                 Akita.

 

 

                                                                             

 

 

Qualcuno ha mai provato la netta sensazione di non riuscire assolutamente a capire quello che si sta guardando?

Come se davanti vi fosse un rompicapo, un enigma ingarbugliato, una specie di gomitolo di cose che non si riescono a districare, e tutto quello che vedi è, francamente, un ammasso insensato di roba.

Benissimo.

Io mi sentivo esattamente così.

Ero sul ponte di una nave, con i miei amici e il capitano Naive Kewslar, o dovevo esserlo, e guardavo davanti a me, dove, ormai vicinissima, c’era la città di Atlantis.

Insomma, mi avevano detto che quella cosa era Atlantis, ed io non potevo far altro che crederci. Ero troppo confusa per avere delle opinioni sensate in proposito

Ci sarebbe stato da ridere forte, se solo quella situazione fosse stata meno seria.

Ad un certo punto, mi ricordo bene, pensai addirittura che stessero scherzando. Doveva essere uno scherzo. Per forza.

Strizzai gli occhi, cercando di ricavare qualche informazione dal paesaggio, qualcosa che non fosse un’accozzaglia poco comprensibile di colori e forme.

L’ansia tremenda che avevo provato fino ad un secondo prima si era dissolta, sostituita da un sentimento indefinito, che mi faceva bruciare lo stomaco, come se dentro ci fosse fuoco.

Qualcosa tipo confusione, paura, aprire gli occhi e scoprire di vedere niente, aprire la bocca senza saper parlare. Non riesco a definire questo sentimento, e non credo fosse molto positivo.

Cercai, disperatamente, qualcosa che potessi ricondurre al conosciuto.

Stavamo costeggiando lo strapiombo, pietra chiara battuta dalle onde di un mare tutto sommato calmo.

Non era un’isola piccola, non aveva le dimensioni di Gerinti, ma non si poteva definire enorme.

Piuttosto graziosa, conservava ancora moltissima vegetazione. Il paesaggio naturale, a primo acchito, non era molto diverso dalle isole che costeggiavano il continente, anzi.

Sarei stata felice di mettere piede in quel luogo di pace, ma quella cosa chiamata città mi terrorizzava, ed era poco.

I miei pensieri erano totalmente calamitati lì. Non pensavo che si stava avvicinando il momento dello sbarco e dell’arrivo finale, né che stavamo per  immergerci in un mondo che ci avrebbe divorati alla minima debolezza.

Ero troppo confusa. Sarò ripetitiva, ma non c’è altro da dire.

Niente, non c’era niente da fare. Anche se cercavo di guardare altrove, in mio sguardo veniva irresistibilmente calamitato su Atlantis.

Non c’era niente da fare. Oltretutto, eravamo così vicini che era impossibile guardare da qualche altra parte.

Mi costrinsi a mettere ordine nei miei pensieri, e cercare di mettere ordine anche nella confusione che si stendeva davanti ai miei occhi.

Feci un paio di respiri profondi, cercando di calmarmi. Il risultato fu un conato di vomito. Non dovevo dimenticare il mal di mare, né  la relazione complicata che c’era tra il mio stomaco ed il mio umore.

Inoltre, piuttosto che calmarmi, quel gesto mi fece venire voglia di scappare dritta nella mia stanza, chiudermi dentro ed insistere per essere riportata immediatamente a casa.

Mettere piede lì? Proprio lì? Col cavolo.

Io non ci andavo. Non ci sarei andata per niente al mondo, nemmeno pagata. Di nuovo, per l’ennesima volta, pensai ad Isnark.

Immaginai anche di stringergli il collo non tanto amichevolmente, ma il mio umore non migliorò di molto.

Disorientata, recalcitrante, guardai i miei amici e compagni di viaggio. Di certo loro mi avrebbero confortata.

In fondo, ero io quella dalle reazioni esagerate, ero io l’isterica. Capouille poteva innervosirsi facilmente, ma era di fondo un guerriero, Zipherias era praticamente un blocco di pietra solida.

Io ero stata una Spia, ma stavo cercando, in ogni modo, di dimenticarlo. Ero una Ch’argon e basta.

Ero un’elfa isterica e basta. Ero isterica e basta, forse così è meglio.

Quindi, tralasciando queste considerazioni oziose, ero io che stavo reagendo male. Dovevo solo prenderla con più filosofia, e cosa c’era di meglio di un paio di amici equilibrati per riprendere il controllo?

Sicuramente mi avrebbero presa in giro, mi avrebbero rassicurata, ed io mi sarei sentita stupida, e meglio. Sicuramente già mi stavano fissando e ridacchiando tra loro, le comari, come avevano fatto durante tutto il viaggio. Su, Lsyn, non fare così, se tu che hai i nervi troppo tesi, calmati.

Mi sentii fiduciosa, e li guardai.

Per poco non mi sfuggì un’esclamazione di incredulità. O forse mi è sfuggita e non me lo ricordo.

Quello che mi ricordo benissimo, invece, sono le facce dei miei amici.

In quel preciso istante, Capouille si stava coprendo gli occhi con una mano. Si era rifiutato di vedere.

Zipherias invece, il mio caro Zipherias sempre calmo e granitico, strizzava gli occhi, come infastidito dal sole.

Ebbi anche una fugace visione di Naive, con l’espressione di una persona in procinto di ricevere il regalo più grosso della sua vita ed un sorriso furbo sulle labbra.

Il mio amico dalla pelle scura fu l’unico che ebbe il coraggio di parlare.

Non si voltò nemmeno verso Naive, la sua sembrava piuttosto una domanda retorica. Tutte le sue energie erano concentrate sul rompicapo, per cercare di prenderlo nel migliore dei modi.

“cos’è?”. Domandò semplicemente, con una voce che quasi non riconobbi come la sua. Non ho mai più sentito la voce di Zipherias tremare in quel modo.

Il sorriso odioso di Naive si accentuò, e lei non rispose. Non ne aveva bisogno, tutti sapevamo benissimo dove e come guardare.

Mi sentii afferrare da un panico indicibile. Cercai disperatamente di concentrarmi sulla città. Va bene, visto che non potevo farci assolutamente niente, meglio imitare Zipherias.

Prenderla con filosofia, quello era il segreto. Era tutto normale, niente ci stava minacciando e niente voleva farci del male. Filosofia.

Più facile a dirsi che a farsi. Filosofia.

Niente, la sensazione di oppressione non voleva andarsene.

Pian pianino, però, tutto cominciò ad avere un certo senso. A forza di costringere a fissare, tutto cominciò a ricomporsi in una dimensione più familiare.

Da lontano, Atlantis sembrava una specie di incarnazione della nave. Splendente e gloriosa, quasi artefatta.

Al centro della città c’era una specie di edificio, credo, altissimo, il più alto mai visto in vita mia.

Aveva una forma slanciata, agile, bucava il cielo come un ago. Sembrava ricoperto d’oro, alla luce del sole.

Non vedevo chiaramente tutto il resto, da quella distanza, ma mi sembrava che l’impianto fosse regolare ed ordinato, tipico di una città degli elfi, particolare che mi fece sentire un po’ più a casa.

Non era abbastanza tranquillizzante, ma, se mi fossi soffermata sulla forma un po’ strana di tutto, credo sarei impazzita in brevissimo tempo.

A mare, inoltre, c’era un gran traffico.

Prima, così stordita dalla quantità di nuove informazioni, non ci avevo fatto minimamente caso, ma, ora che le cose stavano riprendendo il loro senso, per modo di dire, potevo guardarmi meglio intorno.

C’erano barche di tutti i tipi, colori e dimensioni.

Alcune piccole, dall’aspetto molto umano, piene di reti, colorate allegramente, piene di bandierine, altre a vela, più grandi e tozze, dai colori scuri.

Alcune erano simili alla nave su cui stavamo viaggiando, e differivano solo per piccoli particolari, come i colori e le polene.

Una di queste, di legno scuro e lucido e argento, e dalla polena a forma di delfino, ci passò vicinissima, facendo una confusione mortale.

La nostra nave rispose con altrettanta foga. Intorno a me, tutto sembrò tremare per un suono sgradevole e profondo. Qualche marinaio di diede ad esclamazioni di gioia, che nessuno curò di soffocare.

Quello fu leggermente troppo per me. Non ero abituata a sopportare quel tipo di stress.

Non riesco a ricordare né come cominciai né cosa dissi esattamente, ma sono sicura di aver investito il capitano Naive Kewslar di una salva di ingiurie, suppliche per tornare a casa, domande, tutto, ovviamente, nella lingua degli elfi, dimenticandomi totalmente che lì nessuno mi capiva.

Una cosa molto strana, nessuno dei miei due compari intervenne per sedarmi. Anzi, sono tuttora sicura che non si siano nemmeno accorti della mia esplosione.

Quell’elfa maledetta mi guardò, grattandosi l’angolo del naso, perplessa.

“Lsyn Amarto, temo di non aver capito cosa mi state dicendo.  Anche se sono sicura che non fossero complimenti, potreste ripetere in un idioma civile?”.

Quella domanda, quel tono così ilare, fecero saltare quel poco di calma che mi ero imposta. Che cosa aveva detto? Idioma civile?

Che cosa stava insinuando? Stupida testa di gallina.

Accidenti, il capitano avrebbe potuto scrivere un intero tomo su come offendere un elfo del continente.

È vero, ma che importava? Noi eravamo gli ultimi tra i diplomatici, elfi imbecilli da trattare come si voleva, da sballottare qui e lì a piacere, senza chiedersi cosa pensassero loro di tutto quello.

Da quando avevamo lasciato Fiya era stata una sequela continua di umiliazioni. Anzi, da quando eravamo a Fiya.

Insomma, ero un po’ stanca di essere trattata come una specie di creatura primitiva, non del tutto senziente.

Ma che idea degli elfi aveva, quella tipa? Suo padre non le aveva insegnato che nel continente avevamo una cultura, una storia che a loro faceva un baffo?

Bella storia, la loro, invece. Erano arrivati lì e basta. Avevano costruito.

Tante grazie, chiunque avrebbe potuto farlo.

Non avevano una lingua, né un’identità. Erano solo tante persone di etnie, razze ed idee diverse che si erano messe d’accordo.

Tante teste che cercavano, volenti o nolenti, di non scannarsi.

Se quello era il loro concetto di modernità, allora, col cavolo che l’avrei accettato, e tante grazie all’idea di elfi trogloditi.

Ah sì, e tante grazie alla diplomazia: non sapevo dove mettermela, dopo quell’affermazione.

La straordinaria uscita sulle lingue civili aveva prodotto anche un altro effetto, oltre a farmi uscire definitivamente di testa.

Capouille e Zipherias avevano sentito, e avevano deciso che, in quel momento, Atlantis non era molto interessante.

Prima che potessi aprire minimamente bocca, sentii un paio di mani diverse posarsi sulle mie spalle.

Una presa solida, sicura, ed una più delicata.

I miei amici mi erano venuti in soccorso.

Vedevo praticamente rosso. Accidenti, dire a me una cosa del genere era il miglior modo per fare un bel bagno a mare. Avevo dimenticato il mal di mare, addirittura.

Intanto, Naive continuava a ridere. Ma che aveva, quella lì? Era stupida?

Stavo per parlare, quando Zipherias mi anticipò.

“quanti anni hai, Naive?”. Cominciò, con voce pacata. Lo invidiai. Lui sì che sapeva mantenere la calma.

Il capitano non sembrò minimamente scomporsi di fronte a quella palese mancanza di rispetto. Era la prima volta che le davamo del tu. Non smise nemmeno di sorridere.

Sbuffai con tutta la forza che avevo. Mi stava davvero dando sui nervi. Il sorriso della maledetta si allargò ancora di più, e lei rispose con voce che definirei soave. Odiosa.

“non vedo cosa c’entri la mia età. È un po’ scortese chiedermelo, non trovate?”.

Ecco, allora voleva proprio provocarci. Scortesi, noi? Ma si era vista allo specchio, lei, la personificazione della maleducazione? Animale che non era altro.

Zipherias strinse un po’ più forte la sua presa, di solito quasi impercettibile. Ecco, si stava arrabbiando un po’ anche lui.

Ci fu un lungo momento di silenzio.

Non mi resi nemmeno conto di essere io a parlare, a bassa voce.

La mia voce uscì più distorta del solito per via della rabbia. Cominciai a tremare, e fui costretta a stringere le mani a pugno. Ah, come mi sarebbe piaciuto schiaffeggiare quella faccia impertinente.

“c’entra che…”. Ringhiai, guardando storto il capitano. Ah, se solo fosse stata mia nipote… per quella frase le avrei dato una punizione esemplare. Che educazione insegnavano quegli elfi, ai propri figli?

Il sorriso di Naive non si spense, ma nei suoi occhi vidi un pizzico di apprensione. Ah, finalmente.

“c’entra che forse esiste qualcosa che si chiama educazione. Tua madre non te ne ha mai parlato, o forse nella tua lingua civile questa parola non esiste? O forse la tua stupida civiltà non permette queste finezze?”.

Presa com’ero dal mio discorso, non mi accorsi nemmeno della strana vibrazione della nave.  Si era fatta molto forte. C’era un rumore cupo nell’aria, ed un odore strano, quasi acre.

Non me ne importò molto. Niente era più importante dell’umiliazione che intendevo infliggere a quella scostumata.

Non ne potevo più. Avevano decisamente oltrepassato il limite!

La cara scostumata, intanto, si era guardata attorno, oltre le nostre spalle, ed il suo sorriso si era fatto ancora più furbo.

Ero sul punto di strozzarla con le mie stesse mani. Piccola presuntuosa… chi si credeva di essere?

Forse la presa dei miei amici sulle mie spalle non serviva solo per supporto.

Lei ci guardò, ancora più soave di prima, come se il nostro discorso non l’avesse minimamente toccata.

“forse”. Disse, serena, la voce strana, come se stesse reprimendo la più grande risata del mondo.

Ci fu un attimo di silenzio indispettito, una pausa di riflessione in cui, ancora fumante di rabbia, ebbi modo di rendermi conto di due cose.

Primo, c’era più rumore del solito.

Secondo, la nave non vibrava più.

Sentii puzza di fregatura imminente. C’era qualcosa che non quadrava a dovere.

“fatto sta che siamo arrivati. Siete meno spaventati, ora? Giratevi pure. Benvenuti ad Atlantis”.

 

 

  
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