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Autore: _Shantel    24/05/2011    14 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2
Incontro-Scontro

La Ducati rossa che sfrecciava veloce come il vento tra le strade del centro di Roma, fremeva e tremava tra le mie gambe, come una donna calda e vogliosa. Al mio passaggio tutti si voltavano, non perché riconoscessero il mio bel viso sotto il casco integrale, ma piuttosto per bearsi di quella simbiosi perfetta tra uomo e macchina, tra il mio corpo statuario fasciato dalla tuta di pelle e il rosso fiammante della mia bambina.
Il semaforo scattò proprio nell’istante in cui avrei voluto sgassare, costringendo la mia mano ad abbracciare il freno e posare un piede sull’asfalto. La giornata non era delle migliori per farsi un giro in moto, ma l’allenamento di quella mattina mi aveva sfiancato e non c’era modo migliore di allentare la tensione che far ruggire la mia tigrotta in lungo e in largo per il Centro, praticando il mio sport preferito, dopo il calcio: pavoneggiarmi.
«Hai visto che figa?» gridò un ragazzino.
«È la nuova Ducati 848 Evo 2011!» sbraitò un altro, che doveva essere esperto.
Sorrisi a quei commenti e, in risposta, feci rombare il motore, provocando urli  e fischi di gioia maschile.
«Ma perché, avete visto che bel centauro?» trillò una biondina con gli occhiali da sole, ridacchiando con la sua amica.
«Facci un saluto, bellezza!» ridacchiò un’altra signorina, un po’ più stagionatella.
«Portami con te..» si aggiunse una moretta, salutandomi con la mano e sorridendomi sensuale.
Adoravo tutto quello. Il bagno della folla, per me, era come un afrodisiaco, una droga da cui non avrei mai potuto disintossicarmi, nemmeno se fossi entrato in un centro di recupero. Lo spettacolo era la mia vita, recitata non in un teatro di Broadway, ma nel Colosseo che era l’Olimpico di Roma.
Guarda, Leo, ti adorano. Vorrebbero tutti avere un pezzo di te, persino quando non sanno chi si cela sotto la visiera fumé del casco.
Eh, sì.. quello non era un sogno, ma la pura realtà.
A quel punto decisi di esagerare e mi slacciai il casco, per poi sfilarlo e posarlo sotto il braccio, come Vale dopo aver vinto il Gran Premio di Indianapolis.
I mormorii e i gridolini che si levarono vicino alla Stazione Termini, divennero talmente assordanti da far impallidire la statua di papa Giovanni Paolo II appena inaugurata.
«È lui.. è Leonardo Sogno!» gridò un ragazzino.
«Oddio! È più bello dal vivo che in televisione!» uggiolò la biondina.
«Mi fai un autografo campione?!» gridò un omone, tirando fuori un blocchetto e attraversando la strada, incurante del traffico cittadino.
Era arrivato il momento di svignarsela. Quando i miei fan cominciavano ad assillarmi con autografi e fotografie varie, la noia cominciava ad assalirmi e cercavo in tutti i modi di trovare una via di fuga.
In quel preciso istante scattò il verde, perciò indossai il casco e partii in sella alla mia Ducati, sgassando talmente tanto da creare una nuvola di smog che avrebbe fatto impallidire le ciminiere della zona industriale di Torino.
«Sogno, sei un mito!».
«Pittore, sposami!».
«Portami via con te, farò tutto quello che vuoi!».
Ridacchiai tra me e me, tronfio e borioso come se mi avessero appena incoronato Re del Mondo. Sapevo che quelle promesse gridate al vento non erano solo parole e se avessi frenato e fossi tornato indietro, caricandomi una di quelle sciacquette sulla mia bambina, mi sarei fatto una scopata risanatrice dopo un allenamento spossante. Lo dicevo perché mi era capitato, in più di un occasione, ma quel giorno mi sarei dedicato unicamente a me e alla mia tigrotta, snobbando il resto della folla.
Andavo a 150 chilometri orari su una strada cittadina, zigzagando tra le macchine e meritandomi, il più delle volte, dei vaffanculo sbraitati dal cafone di turno. Se un vigile urbano mi avesse fermato, non mi avrebbe fatto un soldo di danno, anche perché avrei potuto pagare l’infrazione ben dieci volte il suo valore.
La città era nelle mie mani e Leonardo Sogno sarebbe diventato l’ottavo re di Roma.
In lontananza si udì un tuono che squarciò il cielo, costringendomi a rallentare, mentre il traffico si era bloccato all’inizio di Viale dell’Università. Avevo provato più volte ad iscrivermi ad una qualsiasi facoltà, per far contenta mia madre, ma non riuscivo a conciliare gli allenamenti con lo studio, soprattutto quando era tremendamente palloso. Già riuscivo a mala pena a godermi un tranquillo giro in moto, figuriamoci se dopo un training stressante a Trigoria, sarei dovuto tornare a casa per aprire il libro di Diritto e addormentarmi sopra qualche citazione che non avrei ricordato nemmeno se me la fossi fatta tatuare nel cervello.
Io e Ruben avevamo provato Economia, Scienze della comunicazione, Scienze politiche ed  infine Giurisprudenza, che alla Sapienza non è nemmeno a numero chiuso. La sessione d’esame c’era stata a Febbraio, nel momento delicato della Champions League, e con tutto l’impegno che ci avevo messo nel seguire le lezioni (nel senso che Ruben prendeva appunti al mio posto) avevo raggiunto un misero 18 e soltanto perché il professore di Diritto romano era un tifoso sfegatato della Roma.
A quel punto avevo mollato e tanti saluti. Cosa m’importava d’intraprendere la carriera da avvocato se guadagnavo, in un mese, più dell’intera Corte di Giustizia?
In quel preciso istante sentii una goccia fredda cadere tra il casco e il giubbotto di pelle, esattamente dietro la nuca, per poi scendere silenziosamente lungo tutta la mia schiena, lasciando una scia di sensazioni che mi fecero rabbrividire.
Dannazione, sta per piovere!
Ci mancava soltanto il tempo a completare quella giornata cominciata con il piede sbagliato, e mi ero troppo allontanato da casa per riuscire a rientrare prima di beccarmi l’intero acquazzone. Decisi di aumentare la velocità di marcia, in modo da avvicinarmi il più possibile all’Aurelia antica e magari trovare un ponte sotto cui potermi riparare se fosse venuto giù il Diluvio Universale.
Sfrecciai a destra e a sinistra, superando le automobili ferme nel traffico, mentre una leggera pioggerellina si trasformava nella proverbiale ‘Ira di Dio’. In Inghilterra si usava dire ‘It’s raining cats and dogs’ ma a me sembrava stessero cadendo goccioloni grossi quanto una pecora, con il campanello, il pastore e il cane, tutti insieme!
Porco zio se ero fradicio! Perfino le mutande erano da strizzare..
Uno stronzo patentato mi suonò, facendomi distrarre, così mi voltai per rifilargli un gustosissimo ‘stronzo’ con tanto di medio alzato. Non riuscivo a vedere un cazzo con tutta quell’acqua e non mi veniva di pensare ad altro che non fosse un bagno caldo nella Jacuzzi di casa.
Zigzagai ancora una volta, rimediandomi altri insulti, fino a quando non vidi di fronte a me una pozza d’acqua gigantesca, sul ciglio della strada, reduce di qualche scolo otturato. Andavo troppo veloce per riuscire ad evitarla, ma avrei potuto prenderla di striscio per evitare di cadere e rompermi qualcosa.
Il piano era ottimo, bastava soltanto metterlo in pratica.
La mia mano lasciò il freno e il mio sguardo fu del tutto concentrato sull’asfalto. Sapevo che avrei rischiato di cadere e che, se fossi stato sfortunato, mi sarei giocato l’intero finale di stagione, ma se avessi frenato le ruote avrebbero slittato per l’acquaplaning e avrei fatto la stessa fine di un uovo gettato dall’ultimo piano.
Ecco, un respiro profondo e passa la paura.
Attraversai la pozza d’acqua con maestria, alzando un’ondata di schizzi che avrebbe fatto invidia a quelle di Hydromania, e mi uscì fuori un urlo quasi da stadio per la prodezza che avevo compiuto.
Sei un mito, Leo.
«Ahhhhhhhhhhh!» ma un grido improvviso mi costrinse a voltarmi e a premere lentamente il freno.
Prima di attraversare la pozza, non avevo minimamente considerato che qualcuno stesse passeggiando sul marciapiede, proprio all’uscita della città universitaria. Quando mi fermai, alzai la visiera e notai una ragazza, con l’ombrello sospeso a mezzaria, completamente zuppa dalla testa ai piedi. Aveva uno sguardo furente, rivolto nella mia direzione, e quegli occhi celesti sembravano infilzarmi con tanti piccoli pugnali affilati.
Posai un piede sull’asfalto bagnato, mentre la pioggia picchiettava ancora sul terreno, e tirai giù il cavalletto, assicurando la Ducati per poi avvicinarmi a quel pulcino fradicio.
Era evidente che aspettava delle scuse. Aveva persino chiuso l’ombrello, rassegnata all’idea che anche se fosse venuta giù tutta l’acqua del mondo, non sarebbe riuscita a bagnarla più di così. Mi fissava in cagnesco, con le braccia conserte e la Superga bianca che tamburellava su una pozza facendo un rumore simile ad un ‘ciaf, ciaf’.
A quel punto sfoderai uno dei miei sorrisi migliori, quello di sbieco che solitamente utilizzavo per ammaliare la Letterina di turno, ed ero sicuro come un pascià che le sarebbe bastato guardarmi meglio negli occhi per spalancarli a sua volta e cadere ai miei piedi, implorando il mio perdono.
Amico, ce l’hai in pugno.
Già, io e il mio ego facevamo coppia fissa da ventidue anni ormai e nessuno ci avrebbe mai separati.
«Cosa ti è saltato in mente?!» sbraitò, avvicinandomi e puntandomi l’indice al petto come se volesse accoltellarmi con l’unghia. «Ma sei cieco? Non mi hai vista? Che razza di cafone passerebbe su quella pozza stagnante a grande velocità? Quella carretta con cui vai in giro non ha nemmeno il contachilometri?».
La voce di quella ragazzina era assordante e petulante. Non la finiva di sgolarsi e di gesticolare come un’oca impazzita, mentre brandiva l’ombrello come fosse un’arma. La mia attenzione già era normalmente precaria, ma in quel momento facevo fatica a stare dietro alle sue farneticazioni.
«Insomma, vuoi dire qualcosa? Mi hai inzuppata dalla testa ai piedi e non ho ancora sentito nemmeno l’ombra di una scusa da parte tua..» puntualizzò chiudendo, finalmente, quella ciabatta.
Silenzio, che gran bella cosa.. persino il traffico assordante e l’ululato lontano di un’ambulanza erano tollerabili se non paragonati al tono assordante della voce di quella zitella acida.
«Senti, facciamo così, chiedimi quello che vuoi e la finiamo» sospirai spicciolo, sapendo che quella ragazza stesse facendo soltanto una scenata, magari per spillarmi ben più di una foto con autografo.
La biondina inzuppata alzò un sopracciglio talmente in alto che le sfiorò l’attaccatura dei capelli, mentre l’espressione del suo volto rimaneva sempre accigliata. Che mi fossi sbagliato?
«Ti sei sniffato un indelebile o cosa?» se ne uscì inviperita, continuando a punzecchiarmi con quel dito indice che volentieri le avrei staccato dalla mano. «Esigo delle semplici scuse da parte tua, cos’è? Non riesci ad articolare nemmeno una parola col cervello bacato che ti ritrovi?».
Stava andando un po’ troppo giù pesante con gli insulti e la mia pazienza era al limite. Se quella ragazzina volesse o meno un autografo, non m’importava, ma tutta quella pantomima era inutile se voleva attirare la mia attenzione. Odiavo le ragazze con troppo cervello, m’infastidivano le maestrine e le so-tutto-io, quelle frigide e con le gambe più chiuse delle chiese durante i giorni feriali, e preferivo di gran lunga qualche modella russa che sapeva pronunciare a mala pena il suo nome, ma scopava da Dio.
«Allora, facciamo così. T’invito a bere qualcosa di caldo, visto che sono fradicio anch’io, poi ti do i pass per il bordo-campo, oppure la zona vip, quale preferisci?» le dissi, cedendo al suo ricatto.
La faccia della biondina era un misto tra il basito e un toro scatenato pronto a caricarmi. Questa volta cosa avevo detto di male? Non potevo mica darle la luna, accidenti!
«Ci sei proprio!» urlò indignata. «Adesso ti aiuto io, visto che sei lento come un bradipo a capire quello che ti dico. Riesci a pronunciare la S? Seguita da una C, poi da una U, e da altre due letterine semplici, semplici: SA. Ora mettile insieme..» mi incitò, nemmeno fossi un ritardato mentale.
«Scusa» ringhiai, intuendo che quella stronza mi stesse realmente prendendo per il culo. Ero Leonardo Sogno, dannazione, non potevo farmi raggirare da una ragazzina sporca di fango e pioggia.
«Non hai idea di chi sia io, vero?» la minacciai, sfoderando un cipiglio davvero infuriato.
Lei si rilassò, ma assunse un’espressione ironica. «Uhhhh, il nuovo boss della Camorra?» ridacchiò lei, fingendo di essere spaventata.
Davvero non sapeva chi fossi? Era da secoli che viaggiavo di città in città, di paese in paese, e perfino quando affrontammo la Dinamo di Bucarest riuscii a guadagnarmi dei fan tra la popolazione romena. Ma da dove veniva questa, da Marte?
Continuava a guardarmi di traverso, con le braccia incrociate e l’ombrello penzolante dal polso. L’acqua cadeva incessante, senza alcun accenno a smettere d’intensità, e a quel punto avevo due strade davanti a me.
Mandare la ragazzina a quel paese, tornarmene in sella alla mia bambina e sfrecciare verso casa alzando un altro po’ di polverone e prendendomi la mia piccola vendetta, oppure accompagnare Miss Acidità verso il bar più vicino, offrirle un maledetto caffè e magari ottenere una rivincita poco a poco.
Magari ne uscirà fuori qualcosa di stuzzicante. Non ti sei stufato di saltellare da una Velina all’altra? Forse una tipa normale, per quanto rompicoglioni possa essere, potrebbe funzionare da distrazione..
Feci spallucce e decisi di ascoltare il mio ego, come avevo sempre fatto d’altronde. La biondina non aveva niente di speciale. Non era troppo bella, né troppo alta, aveva zero tette ma in compenso una lingua tagliente come un rasoio. Perché no? Cosa avevo da pendere, in fondo?
«Dai, fatti offrire un caffè almeno. Vuoi urlarmi contro anche perché cerco di essere gentile?» sorrisi io, ritrovando il mio sguardo sensuale.
La ragazzina rimase sorpresa da quella richiesta. Tentò di aprire bocca due volte per replicare, ma rimase ammutolita.
«Va bene, accetto. Ma non pensare che l’abbia fatto per passare del tempo con un pallone gonfiato come te, hai capito?» puntualizzò, strizzandosi i capelli e attraversando la strada con lo sguardo fiero.
«Non mi sognerei mai» ridacchiai, divertito da quella tipa che era proprio una sagoma.
Arrivammo allo Snack Bar Cardamone e ci facemmo accomodare su un tavolinetto appartato. Ovviamente lo sceneggiato era iniziato e se qualcuno dei presenti mi avesse riconosciuto per quello che ero, non mi sarei più potuto divertire a prendere in giro la biondina tutto pepe.
«Cosa ordinate?» ci chiese Damiano, il barman che conoscevo da anni per tutte le volte che fuggivo dalla facoltà in cerca di ristoro. In un momento di distrazione della rompicoglioni, Dam mi fece l’occhiolino e rifilò delle smorfie in direzione della mia ospite.
Anche lui aveva capito che Miss Acidità era peggio di un bastone ficcato su per il culo.
«Un caffè macchiato, con zucchero di canna a parte, e un cornetto integrale semplice» mormorò lei, con l’aria altezzosa. «Mi raccomando lo zucchero di canna» ripeté poi, assicurandosi che Dam scrivesse tutto. Allora si divertiva a fare la maniaca del controllo un po’ con tutti.
«Per te, campione?» mi chiese, sfoderando un sorriso divertito.
Feci spallucce e indicai pigramente un Cornetto Algida, quello al caramello.
«Il gelato con questa pioggia?» esclamò lei sorpresa.
«Non sono nemmeno libero di ordinare ciò che voglio?» la rimbeccai io, sorridendo quando sprofondò ancor di più nella sedia e arricciò le labbra offesa.
«Arrivo subito» disse Dam, poi sparì dalla saletta in cui ci aveva fatti sedere.
C’eravamo solo noi e il televisore al plasma, attaccato al muro, che trasmetteva una vecchia partita di Premier.
«Non so se per caso mi hai detto come ti chiami» iniziai, sperando di fare un po’ di conversazione civile. Era stimolante per una volta, fingere di non essere famoso.
«Non l’ho mai detto, infatti» sibilò lei, guardando da tutt’altra parte.
A quel punto calò il silenzio ed io mi ritrovai a pensare che quella tipa non avesse tutte le rotelle a posto.
«Posso sapere il tuo nome, o devo andare all’agenzia controllo nascite?» domandai, cercando di apparire simpatico.
«È l’anagrafe, ignorante!» puntualizzò lei, assumendo nuovamente quella posa con le braccia incrociate che mi ricordava vagamente Brontolo dei sette nani.
«Come vuoi» tagliai corto, «se devo fare tutta questa fatica per sapere il tuo nome, è meglio che rimanga col dubbio».
In quel preciso istante vidi un guizzo di rimorso farsi strada nei suoi occhi celesti e pensai di aver fatto centro con la storia dell’offeso.
«Se non vuoi dirmi il tuo nome, ti chiamerò Macchia» dissi convinto.
«Perché Macchia?» si sorprese lei.
«Per la gigantesca chiazza di fango che hai sul maglione» risposi con ovvietà.
Lei serrò le labbra con ira, rimpicciolendo gli occhi a fessure e fissandomi di traverso come se volesse incenerirmi.
«Dai, scherzavo, vorrei sapere davvero il tuo nome» mormorai, cercando di farmi perdonare.
La biondina mi guardò indispettita, incerta se fidarsi o meno del mio cipiglio arrogante. Alla fine si arrese.
«Celeste» sospirò. «Ma non è un piacere, conoscerti!» disse sicura, assumendo ancora una volta la Brontolo-posa.
Celeste.. che nome carino! Ti manca una Celeste, o sbaglio?
Mi mancava, eccome. Avevo avuto tre Martina, due Sara, una Margherita e un’Emanuela, perfino una Deborah, ma Celeste non era sulla lista.
«E basta?» chiesi io, indagando ancora.
Sentivo una certa curiosità nei confronti di quella ragazza un po’ stramba e mi incuriosiva la sua storia, soprattutto perché non sapeva affatto chi fossi. Cavolo, ero sui manifesti sparsi per la città, possibile che non mi avesse mai visto? Nemmeno di sfuggita?
«Per te, sì!» rispose stizzita. «Non ho alcuna intenzione di ritrovarmi un maniaco sotto casa!».
Eh, come se perdessi il mio prezioso tempo correndo dietro ad una frigida come te.
«Come vuoi!» e alzai le mani in segno di resa. «Non era mia intenzione fare lo stalker».
«Ecco qui!» disse Damiano, accorrendo con il mio Cornetto Algida e con il caffè di Celeste. «Un gelato per il nostro campione, e caffè macchiato con zucchero di canna a parte e cornetto rigorosamente integrale».
«Grazie!» disse lei, tirando fuori dalla borsa inzuppata una bottiglietta di gel Amuchina e passandoselo meticolosamente sulle mani.
Oddio, era anche una specie di maniaca dell’igiene!
Intanto scartai il mio adorato gelato al caramello e mi preparai a gustarmelo al meglio, sapendo che nemmeno il cibo più grasso avrebbe potuto intaccare il mio fisico pressoché perfetto.
«Non mi hai detto il tuo, di nome» mi fece presente lei, aprendo la bustina di zucchero e versandone la metà nel suo caffè.
Mi si presentarono nuovamente due scelte: dirle il mio vero nome, rischiando che, almeno anagraficamente avesse sentito parlare del bomber della Magica, oppure spararla grossa e mentire fino alla morte.
Ormai avevo cominciato a dire cazzate, tanto valeva continuare.
«Ruben» dissi, mancando completamente di fantasia.
Lei spalancò quei suoi enormi occhi acquamarina per poi sorridere. «Mi stai prendendo in giro?».
La presi come una sorta di offesa, anche se non era mio il nome che stavo usando, quella ragazzina stava oltrepassando il limite della mia pazienza.
Ero abituato ad essere osannato, non preso in giro.
«Parli tu, che ti chiami Celeste..» borbottai, sbocconcellando i granelli di nocciola sul Cornetto.
A quel punto si zittì e ci guardammo con aria complice. In poco tempo scoppiammo entrambi a ridere come due scemi, senza trovarci più in sintonia che in quell’istante di leggerezza.
«E Rooney segna! Uno a zero per il Manchester!» gridò Marianella, il cronista sportivo di Sky che commentava sempre la Premier.
Celeste rivolse un’occhiata assassina al televisore, tanto che pensai esplodesse di punto in bianco, poi tornò a dedicarsi al suo cornetto integrale.
«Deduco che non ami il calcio» ipotizzai, traducendo il suo sguardo linciatore.
«Non è che non lo amo, lo detesto!» rispose lei, fissandomi furente.
Beh, non a tutti piaceva il calcio. Ora mi spiegavo perché non conoscesse la mia fama come calciatore, ma avrebbe dovuto almeno vedermi su qualche rivista di moda, visto che avevo posato anche per Armani.
«È un lavoro come un altro» mi giustificai.
«Ma sei pazzo?! Guadagnano più dei chirurghi, più dei cardiologi e perfino più dei maggiori Premi Nobel! Santo Cielo, ricevono fior fior di quattrini per correre come bisonti da una parte all’altra del campo dietro ad una palla.. sono più deficienti dei cani» sbottò infervorata, poi spalancò gli occhi e mi guardò mortificata. «Non sei uno di loro, vero?».
A quel punto deglutii a vuoto, sentendomi come a nudo sotto il suo sguardo. Perfino una nocciolina mi andò di traverso e tossii per tre quarti d’ora prima di riprendere a respirare con regolarità.
Quando incrociai nuovamente i suoi occhi, era pronta ad un nuovo assalto. «Scusa, ma che lavoro fai? Perché, onestamente, non mi sembri uno studente..» disse senza peli sulla lingua.
Quella ragazza non era fatta per le relazioni sociali e se qualcuno fosse riuscito a sopportarla, lo avrei premiato con l’intera stagione allo stadio.
«I-io?» balbettai, in cerca di una scusa veloce.
«No.. mio nonno..» disse lei sarcastica, guardandomi con sospetto.
Dovevo inventarmi una cazzata, e in fretta. In tutta la mia vita non mi era mai capitato di mentire sulla mia professione, visto che il mio talento mi precedeva, ma avevo come l’impressione che se quella biondina pelle e ossa avesse scoperto chi realmente fossi, non sarei sopravvissuto per la prossima partita di campionato.
«Il fioraio» sparai, ricordando solo in quel momento che mia nonna aveva un negozio di fiori dietro l’angolo.
«Il fioraio» ripeté lei, poco convinta. «Mi stai dicendo che un belloccio come te che se ne va in giro con una moto da diecimila euro, per vivere vende dei fiori..».
«Hai dei pregiudizi anche nei confronti dei fiorai?» le chiesi, cominciando a pensare che fosse un po’ troppo prevenuta in certe situazioni.
Fece spallucce e finì il suo caffè, sbirciando distrattamente la partita.
«No, è solo che ancora non mi hai convinta» sbuffò, tornando a scrutarmi come se riuscisse a fiutare la mia menzogna come un segugio. «È come se ti avessi già visto da qualche parte.. ma non ricordo dove!».
A quel punto mi ritrovai a sudare freddo. Forse era meglio spiattellarle tutto ora che avevo cominciato, così non mi sarei dovuto subire le sue ire più avanti. Già appariva matta come un cavallo, non osavo immaginare cosa sarebbe diventata una volta arrabbiata sul serio.
«Etcì» esclamai, dopo un brivido di freddo intenso.
«Come il mago Pancione!» ridacchiò lei, facendo volare via quella tensione che si era creata per la sua diffidenza.
«E chi è?» me ne uscii io, asciugandomi il naso con il bordo della felpa.
Celeste mi fissò con un’espressione di disgusto in volto, poi afferrò un fazzoletto dalla sua borsa e me lo porse. «Ma che cartoni animati ti vedevi da piccolo?» mi domandò sorpresa.
Cartoni animati? Mio padre mi aveva messo tra le mani un pallone da calcio prima ancora che riuscissi a camminare. Non avevo mai avuto tempo per la televisione!
«I classici» sparai, ricordando vagamente Biancaneve e Robin Hood della Disney.
Nei suoi occhi ritornò il sospetto, ma quel fazzoletto che mi aveva dato non bastò a contenere la reazione alla pioggia che ormai mi aveva contagiato.
«Etcì, etciù.. ETCì!».
«Senti, io abito qui vicino.. se vuoi puoi salire per asciugarti» mi propose, senza alcuna malizia nello sguardo.
Dio, era la prima volta che una mi invitava da lei senza nessun fine sessuale.
«Non è che mi uccidi e nascondi il mio cadavere una volta saliti?» chiesi perplesso, visti i suoi strani sbalzi di umore incomprensibili.
«Spiritoso!» esclamò sarcastica.
Si alzò dal tavolino e si recò al bar, estraendo il portafoglio.
«Ferma!» gridai, giusto per impedirle di pagare. Io l’avevo bagnata e offrirle il caffè mi sembrava il minimo. Purtroppo non mi resi conto di essere uscito allo scoperto abbandonando la saletta, così fui alla mercé di un gruppo di poppanti appena entrati per una Coca.
«Ehi, ma quello non è…?» ipotizzò uno.
«Potrebbe essere.. ma che ci fa qui?» se ne aggiunse un altro.
«Chissene fotte, chiediamogli un autografo» tagliò corto il terzo, tirando fuori carta e penna.
Dio, erano come la peste!
Tirai fuori il portafogli e lasciai a Damiano circa cinquanta euro, poi afferrai Celeste sottobraccio e la trascinai letteralmente fuori dal bar.
«Scusa, ma non prendi il resto?» domandò sospettosa.
«P-perché?» chiesi nervoso.
«Il conto era di circa dieci euro, tu gliene hai lasciate cinque volte tanto!».
A quella ragazza saputella non sfuggiva mai niente, eh?
«Avevo un debito e ho saldato il conto» tagliai corto, raggiungendo la mia bambina.
«Allora avevo ragione che eri un boss della Camorra» bofonchiò, rimanendo di stucco quando afferrai un secondo casco e glielo porsi. «Io non ci salgo su quel trabiccolo» puntualizzò.
«Infatti, non ti ci avrei mai fatto mettere le chiappe» risposi sgarbato. «Nessuno cavalca la mia bambina, soltanto io posso».
«Sei un dannato pervertito, hai dato il nome di una donna alla tua moto» sibilò seccata, poi si rigirò il casco tra le mani. «E allora cosa ci dovrei fare, io, con questo?» chiese.
Le sorrisi di sbieco e inserii l’allarme alla Ducati. «Lo tieni, perché se lo lascio attaccato al sellino me lo fregano» risposi semplicemente. «È firmato dal mitico Vale, che scherzi!».
Celeste mi fissò come se mi fossi appena fumato un intero campo di Marja, tanto grande quanto l’Olimpico.
«Allora? In che direzione dobbiamo andare per dirigerci verso la tua ‘splendida’ dimora?» le chiesi.
La biondina pelle e ossa si limitò a scuotere il capo, poi mi ammollò il casco tra le mani e incominciò a camminare innervosita. Mentre la seguivo, non potei fare a meno di ammirare il suo fondoschiena piuttosto piacente, un po’ molle in certi punti, ma da palpatina, fino a quando non giurai di averla sentita parlare da sola.
Credo che abbiamo sottovalutato la cosa, Leo.. forse Celeste è una bomba inesplosa e magari tu non sai bene quale filo tagliare.
Rosso o blu?



Il buongiorno si vede dal mattino.
Sagge, anzi saggissime parole. Quella giornata era cominciata con il piede storto e stava continuando anche peggio. Prima il mio maglione rimpicciolito dall'incapacità di Robbeo di impostare una stupida lavatrice, poi l'incontro con un'ameba ambulante con il dono della parola. Purtroppo. Alcuni esseri non meritavano di saper usare le corde vocali perché usavano quella loro capacità solo far prendere aria alla bocca che, ovviamente, non aveva nessuna connessione con il cervello. Sempre se c'era.
«Spocchioso pallone gonfiato di un motociclista incapace che si diverte a fare scherzetti con l'acqua» borbottai, mentre a passo spedito mi dirigevo verso casa. Mi capitava spesso di parlare da sola e, certe volte, non mi rendevo nemmeno conto che i miei pensieri uscivano liberi sotto forma di parola.
«Dice anche che fa il fioraio!» sorrisi sconvolta, alzando gli occhi al cielo e picchiandomi le mani sui jeans fradici «Certo! E io sono un alieno. Crede davvero che io sia stupida, che sia nata ieri, che me la sia bevuta?! È chiaro perfino a un bambino che non vende fiori! Farà qualcosa come il modello o qualcosa che ha a che fare con lustrini e riflettori. Anche perché son sicura di averlo visto da qualche parte, nonostante tu, subconscio, mi impedisci di ricordare. Ma scoprirò la verità, eccome se lo farò!» esclamai, scuotendo la testa e svoltando in un piccolo viale alberato, senza rendermi conto di aver accelerato un po' troppo il passo. Mi ero quasi dimenticata che dovevo fare da guida al fioraio. Non che mi dispiacesse che fosse rimasto indietro e che non dovessi ospitarlo nella mia splendida dimora, ma se fosse morto di broncopolmonite per causa mia, avrei avuto i rimorsi di coscienza a vita, magari sarei stata tormentata anche dal suo fantasma e la cosa mi spaventava.
Mi fermai di colpo, voltandomi per accertarmi che Ruben mi stesse seguendo. Che nome, poi. Assolutamente ridicolo! E, per giunta, non aveva nemmeno la faccia da Ruben. Ci avrei visto meglio Romeo con un nome del genere, non uno che sembrava il protagonista piacente di una serie tv americana. Perché, oggettivamente, era bello, troppo. Ma si sa che Madre Natura non è così gentile da donare bellezza e intelligenza.
Ruben non si fermò in tempo e mi ritrovai il suo petto tronfio da tacchino ripieno del Thanksgiving spiaccicato sulla faccia.
«Cammini veloce per avere le gambe corte» ridacchiò.
Lo guardai inviperita, puntando le mani sui fianchi e il suo sorriso si smorzò all'istante.
«Ti sei accorto che mi sei venuto addosso?» sibilai, con gli occhi socchiusi.
«Sei tu che ti sei fermata all'improvviso!» mi accusò, corrugando la fronte.
«Stai per caso dicendo che la colpa è mia?»
Ruben mi guardò in un misto tra il contrariato e l'incredulo.
«Dovresti fare più di attenzione, bell'imbusto!» esclamai, pungolandogli il petto con l'indice.
«Mi preoccupi» ribatté lui con un sopracciglio abbassato.
Lo vidi socchiudere gli occhi mentre la bocca si spalancava piano piano. Starnutì rumorosamente, senza nemmeno mettersi una mano davanti e la cosa mi disgustò parecchio, visto che per la seconda volta si passò la manica sotto il naso.
«Tu non sai cos'è l'educazione vero?!» domandai sarcastica, ricevendo come risposta uno sguardo confuso. Anche io che facevo tali domande ad un decerebrato simile. Scossi la testa e ripresi a camminare a passo svelto con Ruben che mi affiancava con le mani nelle tasche dei jeans.
«Facciamo presto, prima che mi muori di broncopolmonite» dissi in un sospiro.
Ruben ridacchiò preoccupato e la sua mano andò a posarsi sul basso ventre in un gesto scaramantico.
«Che fai, gufi?!» ghignò, soppesandosi bellamente quello che gli pendeva in mezzo alle gambe.
Spalancai la bocca in una chiara espressione di ribrezzo nei suoi confronti. Lo guardai di traverso mentre ridacchiava come uno stupido e gli puntai un dito contro.
«Fai assolutamente schifo» scandii, allontanandomi da lui il più velocemente possibile.
«E Celeste avanza sulla fascia laterale, ma Leo con uno scatto la raggiunge e le ruba la palla!» esclamò Ruben, girandomi intorno come un avvoltoio affamato.
A parte quella analogia calcistica del tutto fuori luogo e la sua totale mancanza di udito, oltre che di comprendonio, dato che mi sembrava di avergli detto che detestavo quello sport, ma c'era qualcosa in quel vaneggiamento che aumentava in me i dubbi sul conto di quello strambo ragazzo.
«Cosa hai detto?!» gli domandai, trafiggendolo con lo sguardo.
Ruben, intercettati i miei occhi assassini, fuggì con i suoi smeraldini su tutto ciò che lo circondava. Scosse la testa, sorridendo nervoso e gesticolando, senza però rispondere alla mia domanda.
«Cosa ho detto?» ripeté, scrollando le spalle e incurvando gli angoli della bocca, di quelle labbra carnose e rosee, così...
Celeste, contieniti. Questo è uno di quelli da una nottata e via con delle sgualdrine. Non merita nemmeno i tuoi pensieri perversi. È tutto fumo e niente arrosto!
«Sì, lo so!» esclamai per mettere a tacere il mio subconscio, roteando gli occhi.
«Sei sicura di star bene?!» domandò con tono preoccupato più per la sua sorte che per i miei vaneggiamenti.
«Pensi che io sia matta?!» ringhiai.
«Io?!» si indicò «Mai detto» alzò le mani in segno di resa.
«Sai qual è la differenza tra dire e pensare?» domandai con tono di superiorità «So che è difficile per te, ma cerca di azionare il criceto che hai in testa e ragionare ogni tanto»
Ruben annuì annoiato e mi diede una pacca sulla spalla.
«Come vuoi» ribatté scrollando le spalle.
Con quella risposta mi diede la prova certa che non mi stesse ascoltando e che il criceto nella sua scatola cranica era morto da tempo ormai. Contrassi la mascella e serrai i pugni, cercando di contenere la rabbia che traboccava da qualsiasi poro.
Riprendemmo a camminare in silenzio, solo lo scroscio incessante di quella pioggia battente interrompeva quell'opprimente mutismo. Ero fradicia, oramai, e rasentavo l'isteria. I brividi di freddo percorrevano ogni centimetro del corpo, dalla punta dell'alluce fino alla sommità della testa. Le scarpe di tela erano talmente zuppe che dei simpatici pesciolini rossi stavano sicuramente facendo compagnia ai miei poveri piedi, ormai formicolanti.
La pioggia sulla mia testa improvvisamente cessò, se non per qualche goccia fredda e solitaria che s'infrangeva sui capelli. Alzai lo sguardo, incontrando una giacca nera di pelle che mi riparava la testa. Rimasi spiazzata da quel gesto inaspettato da parte di Ruben, quasi imbarazzata da quella gentilezza. Incrociai i suoi occhi smeraldini e il suo sorriso che non sprizzava presunzione, ma solo dolcezza.
Avanti Celeste, hai ventidue anni e abbastanza esperienze con l'altro sesso per capire che questo pallone gonfiato cerca solo di abbindolarti con i suoi occhioni e quel bel faccino. Non devi cascarci, tu non sei come tutte le altre.
Già, il subconscio aveva ragione. Fortuna che c'era e che mi apriva gli occhi nei momenti più critici, mostrandomi il mondo con la lucidità tale per capire con chi avevo a che fare.
«Che gesto cavalleresco!» esclamai melliflua «Peccato che sia totalmente inutile» aggiunsi esasperata «Ormai sono zuppe anche le ossa! E se sono fradicia come un calzino sudato è solo colpa tua mio caro» conclusi acida, sottraendomi al suo riparo.
«Cosa devo fare con te? Più cerco di fare il gentile, più tu mi aggredisci!» esclamò allargando le braccia che ricaddero subito dopo lungo i fianchi.
Respirai a fondo, portandomi una ciocca infradiciata dietro l'orecchio. Forse aveva ragione. Insomma, lui faceva il carino e io gli urlavo contro come se fossi un antifurto, quasi lo volessi sbranare. Era certamente un pallone gonfiato da far esplodere con uno spillo, ma non si meritava tanta maleducazione.
«Sbrigati che fa freddo» dissi con un pizzico di rammarico nella voce.
Non gli avrei mai chiesto scusa, anche se sapevo di aver sbagliato, non volevo mostrarmi una debole di fronte a sua Maestà, re della presunzione.
«Manca molto alla tua dimora?» mi domandò, una volta al mio fianco «Sto sguazzando dentro questi vestiti!» aggiunse, strappandomi un risolino che smorzai subito.
«Non molto» risposi seria.
«Che ne dici, facciamo una corsetta?» propose, con un sopracciglio abbassato.
Non ebbi nemmeno il tempo di rispondere che Ruben mi strinse la mano e iniziò a correre, trascinandomi con lui. Rischiai di cadere più volte, la velocità da lui sostenuta era troppa per le mie gambe corte.
«A destra!» esclamai, poco prima di una svolta.
Il mio taxi personale seguì le mie indicazioni e proseguì quella corsa, sballottandomi da una parte all'altra e facendomi sentire come una carriola senza una ruota. Ero scombussolata e non riuscivo a sentire nemmeno il mio subconscio, ma solo lo scroscio della pioggia e i nostri passi nelle pozzanghere, oltre al mio fiatone da ottantenne senza un polmone.
«È lì!» esclamai, indicando un palazzo bianco e rosso mattone poco più in là.
Ci fermammo sotto il portico del condominio e mi accasciai sulle ginocchia per poter riprendere fiato, mentre Ruben mi guardava ridendo, senza la minima ombra di fatica sul volto.
«Co-come fai a non avere il fiatone?» arrancai.
«Palestra» rispose vago, scrollando le spalle.
Respirai a fondo, cercando di riprendermi e cercai nelle tasche dei jeans le chiavi del portone. La inserii nella toppa e lo feci entrare nell'ampio e buio androne. Strizzai i capelli, bagnando la moquette verdastra e mi scrollai come un cane fradicio, scatenando l'ilarità di Ruben. Lo fulminai con lo sguardo, prima di dirigermi verso l'ascensore.
Vuoi davvero prendere l'ascensore insieme a lui? Sai vero che numerosi rapporti sessuali si consumano proprio nell'ascensore? Quello ha la mano lesta, Celeste!
Ritrassi subito l'indice che stava per chiamare quell'aggeggio e mi convinsi ad usare le scale, nonostante i muscoli delle gambe pieni di acido lattico.
«Non prendiamo l'ascensore?» mi domandò confuso Ruben.
«Le scale sono più salutari» mentii «E poi sono pochi piani»
«Ok» rispose lui indifferente.
Ad ogni scalino che facevo sentivo il respiro venir meno e temevo che il cuore mi scoppiasse da un momento all'altro. Già al secondo piano volevo accasciarmi ed esalare l'ultimo respiro, chi ci riusciva ad arrivare al quinto?
«Dai Celeste, un piccolo sforzo» mi dissi, deglutendo più volte.
Mi trascinai lungo gli ultimi gradini, aiutandomi con il corrimano, con la milza che voleva guizzare fuori dall'addome. Quando vidi la porta color ciliegio del mio appartamento, sorrisi felice e sollevata di non dover più scalare quella che mi sembrava ormai una montagna.
«Pochi piani, eh?!» mi provocò Ruben, con un sorriso sornione.
«Cinque» boccheggiai.
«Tra poco ti viene un infarto!» ridacchiò lui «Potevano prendere l'ascensore! Ti saresti risparmiata un sacco di fatica»
«Beh mi pare che sia arrivata qui sana e salva, no?!» ribattei acida, aprendo la porta.
Ruben sbuffò sonoramente prima di entrare nella mia splendida dimora. Si guardò intorno, scrutando ogni angolo dell'appartamento con fare critico.
«Tu sei Ciuccio o Fiore?» domandò, esaminando qualsiasi oggetto gli capitasse sotto mano e riappoggiandole nel posto sbagliato.
Seguii innervosita la scia di disordine che Ruben si lasciava indietro, sistemando a mano a mano gli oggetti.
«Ho letto il campanello» spiegò poi, infilando le mani in tasca.
«Non ti interessa» risposi secca.
«Ciuccio Celeste, non suona male» ridacchiò «Molto malizioso» aggiunse, guardandomi provocante.
Lo fulminai con lo sguardo, smorzando la sua espressione da Homme Fatale.
«Non è colpa mia se hai un nome con il doppio senso» si giustificò poi, tornando a ispezionare il salotto come se fosse un detective impacciato.
«La vuoi smettere di mettere in disordine tutto?!» tuonai, esasperata «Questa casa è già un porcile senza il tuo intervento!» continuai, strappandogli di mano un soprammobile a forma di tartaruga.
«Che tragidezza, mamma mia!» esclamò indispettito.
Strabuzzai gli occhi e accennai ad un sorriso stupito.
«Tragidezza?» ripetei mentre lui mi guardava confuso «Magari tragicità» aggiunsi  incredula.
«Quello che è» mi liquidò lui, enfatizzando il tutto con un gesto di noncuranza della mano.
Stupido me lo aspettavo, ma non fino a quel punto. Era arrivato perfino a storpiare una parola in italiano, disinteressandosi completamente alla mia correzione. Un fioraio un po' ignorante.
«Vado a prenderti un asciugamano» gli dissi, diventando improvvisamente rossa come un peperone.
Ruben si era tolto la giacca e la maglietta, che giacevano sul pavimento, dandomi una visione fin troppo dettagliata del suo fisico asciutto e muscoloso. Le sue mani scivolarono velocemente verso il bottone dei pantaloni che slacciò subito dopo. Stizzita, mi voltai per non guardarlo e rischiare di cadere in strane tentazioni sessuali. In fondo, ero pur sempre una ventiduenne con gli ormoni che ancora funzionavano a dovere.
«Che cosa stai facendo?» sibilai.
«Mi spoglio?!» rispose incerto «Mi sembra chiaro»
«L'avevo capito!» ribattei al limite della pazienza «Ma lo stai facendo davanti a me»
«Non hai mai visto un uomo in mutande?» mi provocò con al seguito uno stupido risolino.
Contrassi il viso, respirando a fondo per mantenere l'autocontrollo di fronte ad uno sporcaccione ficcanaso come Ruben. Certo che avevo visto uomini in mutande e anche senza, ma non degli estranei cafoni piombati in casa per uno stupido incidente di percorso.  E non gli avrei parlato della mia vita sentimentale e sessuale, nemmeno morta. Scossi la testa e mi avviai a passi secchi e pesanti verso il bagno per dare a quel pallone gonfiato un asciugamano e poi cacciarlo a calci nel derriere fuori da casa mia.
«Non lo hai mai visto un uomo in mutande!» esplose ilare Ruben, divertito dalla sua stessa scemenza.
«Anche se lo avessi visto non verrei di certo a dirlo ad un troglodita come te!» ribattei, sporgendomi dallo stipite e sorridendogli sarcastica.
«Trogoche?!» lo sentii ripetere confuso.
Quel ragazzo era un caso disperato di bacatezza mentale. Mi chiedevo se mai avesse visto un dizionario nella sua vita, se ne avesse mai sfogliato uno. La risposta mi sembrava ovvia: no. Così come non aveva mai aperto un libro, sicuramente.
Quando fui in bagno, lontana dagli occhi indiscreti e perversi di Ruben, mi liberai dei vestiti fradici, riponendoli ordinatamente nella cesta dei panni sporchi. Mi accoccolai nel mio accappatoio di spugna morbida color del cielo. Mi frizionai i capelli con il cappuccio, massaggiandomi con quella nuvola e ricavandone un breve e intenso tepore. Quello che ci voleva era una doccia calda, ma avrei dovuto rimandarla finché Trogoche  fosse rimasto in quella casa.
Aprii il mobiletto del bagno dentro al quale avevo sistemato gli asciugamani in ordine crescente di grandezza e per colore, ricavandone una specie di arcobaleno di stoffa. Ne acciuffai uno delle dimensioni di un telo mare da portare a quell'essere arrivato direttamente dal Paleozoico.
«Ecco, tieni!» gli dissi, una volta arrivata in salotto, tendendogli l'asciugamano con gli occhi chiusi per non guardare quello spettacolo mozzafiato che mi era capitato di vedere solo su riviste di moda. Anche la mente più razionale sarebbe crollata di fronte a cotanto ben di Dio! E visto che non era mia intenzione perdere la mia amata lucidità, era meglio cercare di non cadere in tentazione.
«Grazie» rispose lui, afferrandolo.
Nonostante il mio subconscio gridasse a gran voce di tenere sigillati gli occhi, ogni tanto una sbirciatina gliela davo. Era rimasto solo in boxer e aveva cominciato subito a passarsi l'asciugamano su tutto il corpo, su quel copro che sembrava essere stato scolpito da un esperto scultore. Era un'opera d'arte di rara bellezza, una statua greca di una splendida divinità che di umano e terrestre non aveva nulla.
Celeste! Avanti, non dirmi che ti ci vuole così poco per cedere?! Sarà anche bellissimo, ma ti ha già dimostrato di essere privo di materia grigia.
Come sempre, il subconscio aveva ragione. Senza di lui sarei stata una di quelle galline che girovagano libere in città, pronte ad aprire le gambe al primo che incontravano.
Mentre si frizionava i capelli, raccolsi gli abiti che aveva lasciato in terra da maleducato qual'era e li stesi sugli schienali delle sedie, pregando chiunque potesse ascoltarmi di far asciugare quegli abiti il prima possibile, anche con una palla di fuoco, in modo da liberarmi di lui.
«Sei nuda sotto l'accappatoio?» domandò a bruciapelo.
Mi voltai di scatto, guardandolo in un misto tra il disgusto e l'incredulità.
«Anche se fosse?» risposi.
Ruben mi sorrideva beffardo mentre si aggiustava l'asciugamano all'altezza del bacino. Ad un certo punto vidi i suoi boxer cadere sul pavimento e i miei occhi già spalancati, strabuzzarono come se volessero fuggire dalle orbite da un momento all'altro.
«Ti sei tolto le mutande» constatai con irritazione.
«Sono fradice! Mi si stava intorpidendo l'uc...» lasciò la frase in sospeso, trucidato dal mio sguardo furente «E poi io non sto facendo storie che tu sei nuda!»
«Ma questa è casa mia e faccio quello che voglio!» tuonai stizzita.
Il cuore sembrava impazzito da un secondo all'altro e il suo ritmo aumentava ad ogni passo che Ruben faceva verso di me. I suoi smeraldi s'intrecciarono ai miei occhi, incatenandoli ai suoi senza nessuna possibilità di slegarli. Cercavo di fuggire da quella rete invisibile, ma nemmeno il mio subconscio riusciva a liberarsi da quella splendida gabbia smeraldina. Ero ancora in tempo per indietreggiare e dargli un assaggio delle mie dita, ma i miei piedi erano incollati al pavimento ed ero diventata d'un tratto una statua immobile, incapace persino di pensare. Quando fu di fronte a me, mi sorrise e quel gesto annebbiò anche l'ultima parte di razionalità che era rimasta in me. Prese una ciocca dei miei capelli bagnati e me la portò dietro l'orecchio per poi accarezzarmi la guancia con il dorso della mano. Immaginavo dove volesse arrivare Trogoche, ormai era chiaro che mi aveva presa come una di quelle sgualdrine che gliela smollavano solo per un suo sorriso e questo era un boccone amaro difficilmente digeribile. Non ero affatto così, avevo una solida moralità io. Ma che stava inaspettatamente vacillando di fronte a lui. Il mio cervello cercava di distogliermi da lui, di allontanarmi ma i suoi impulsi si trasformavano in semplici scosse che si aggiungevano ai brividi che il tocco della sua mano mi aveva provocato. Mi fece un  buffetto sul naso rotondo, sorridendo e provocandomi un altro mini infarto. Si abbassò pericolosamente verso di me, solleticandomi la fronte con le sue morbide labbra. Mi prese il mento tra l'indice e il pollice costringendomi a fondere nuovamente l'azzurro del cielo con il verde dell'erba. Stavo per baciarlo, per abbassarmi al livello di una sciacquetta qualunque priva di qualsiasi virtù. Il mio muro rigido di moralismo stava per essere smontato pezzo per pezzo, mattone per mattone da un semplice estraneo che credeva che la terra girasse intorno a lui.
«Hai degli occhi magnifici» sussurrò.
Mi bastò quella semplice quanto stupida frase per tornare in me, per spazzare via la nebbia che non mi permetteva di ragionare.
Crede che tu ti scioglierai con un stupida e convenzionale frase come questa. Ma tu non sei come le ragazze che è abituato a frequentare. Dimostraglielo Celeste!
Le sue labbra erano ad un soffio dalle mie e il suo fiato mi stuzzicava il viso. Sorrisi, socchiudendo gli occhi e gustandomi la faccia da baccalà sotto sale di Ruben che era convinto ormai di avermi preso all'amo. Peccato che ero stata io a pescarlo. Prima che le nostre labbra si sfiorassero, caricai la gamba e gli piantai un calcio nello stinco sinistro. Il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore e un mugolio sordo uscì dalle sue labbra. Lo vidi accasciarsi davanti a me e massaggiarsi la gamba, soddisfatta del mio operato.
«Per chi mi hai preso, razza di pervertito?!» ringhiai.
«Pensavo...» cominciò lui, con la voce incrinata dal dolore.
«Pensavi cosa?!» tuonai, acciuffando i suoi vestiti «Che fossi una prostituta? Che te l'avrei servita su un piatto d'argento solo perché mi hai sorriso?» gli afferrai un braccio, costringendolo ad alzarsi «Credo che per te sia uno sforzo sovrumano pensare, visto che quando lo fai sbagli» aggiunsi aprendo la porta.
Gli buttai i vestiti sul pianerottolo e lo spinsi fuori, richiudendomi l'uscio alle spalle, appoggiandoci sopra la schiena.
«Celeste!» urlava Ruben, bussando rumorosamente «Fammi entrare!» mi pregava «Sono nudo!»
Ignorai completamente le sue suppliche, anzi mi divertita sentirlo sbraitare. Avevo vacillato davanti a lui, avevo quasi dimenticato il mio rigore e quello che ero davvero per un paio di occhi verdi. Fortuna che c'era il mio subconscio.



Eccoci giunti alla fine del secondo chappy! Fiuw! E' la mia seconda storia e sono comunque un vulcanuccio di idee..
Ci siamo superate scrivendo del primo incontro tra Cel e Leo. Qui, meglio che nel primo capitolo, sono emerse nette differenze tra i due.
Leo, come avevamo intuito, è un pochettino egocentrico e sa di essere amato e venerato come una specie di divinità, così se ne va in giro a vantarsi, proprio come un narcisista. Però, in questo giorno di pioggia, non aveva fatto i conti su chi avrebbe potuto incontrare ^^'.
Non appena Cel e Leo si sono trovati faccia a faccia, sono emerse le loro diversità e il nostro protagonista ha approfittato dell' 'ignoranza' di Cel in materia di calcio per fingersi fioraio e fare una messa in scena, cercando di scoprire cosa si prova ad essere 'normale'.

Celeste è molto particolare. E' precisa, ordinata, petulante e parla anche da sola. Ha un subconscio che la rende cinica e razionale, con cui si fa un sacco di chiacchierate. Sa benissimo che Leo non è un fioraio, o meglio, lo intuisce. Uno così non si sprecherebbe mai a vendere fiori, inoltre ha il vago sentore di averlo già visto.
Chissà cosa accadrà nel prossimo capitolo e quale altre diavolerie ci inventeremo per farvi penare e per mettere alle corde i nostri due poveri protagonisti!
Baciotti,
Marty e Manu (alias M&M -> bone! :Q______)

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