Broken Mirror
3. Decisioni
Elisa si dedicò alla scrittura come mai prima d’ora. Scrivere, scrivere. Era diventato il suo ossigeno, non riusciva a stare bene con se stessa se non scriveva tutto, se non descriveva con la massima precisione tutte le impressioni che percepiva in quella stanza che iniziava a diventare gelida, con l’arrivo del freddo.
Passò una mano sul muro. Era freddo. E guardò la sua mano, come se fosse la prima volta, così magra, scarna…
Vuota di
vita. vuota d’amore.
Io, affamata
di te, o vita mia… dove sei?
E con
la mano sinistra scriveva. La mano del Diavolo, l’avevano indicata, da piccola,
mentre scriveva tranquilla. Ebbe paura di se stessa per tanto tempo. Però, in
un certo qual modo era quasi contenta di quella mano. Si distingueva dagli
altri. Fu anche il motivo per cui veniva lasciata sola, isolata, indicata come
strana, pazza.
Solo perché
scrivevo poesie. Solo perché parlavo della solitudine e del dolore come
compagni di vita.
Questa non è
pazzia. È fredda realtà.
Persino
le maestre, alunne di verità vecchie come il mondo e di modernità fresca come
il tempo. Quando scriveva con la sinistra la bacchettavano. Quanto pianse,
durante la scuola elementare.
Elisa
si guardò la mano, osservandone attentamente la superficie. Piena di cicatrici
vecchie, rimarginate. Una mano infante
piena di sangue.
Cambiò
mano.
Solo
perché non scrivo come loro non
significa che io sia diversa.
Guardò
il risultato della sua scrittura. Ricordò di quanto fece male imparare a
scrivere così.
Chi sa
vedere al di la della superficie, è come un cigno nero.
La mano
iniziò a tremarle. E passò la penna alla sinistra. Sentendo come una sensazione
idilliaca nelle fibre del suo essere, finalmente dispiegate le ali della
libertà.
Non mi sono mai chiesta come
mai io volessi essere diversa dagli altri…
Forse per il mio aspetto.
Forse per la mia poca arguzia nelle materie scientifiche.
Sta di fatto che nella
scrittura io spicco.
Nell’inchiostro io trovo
conforto. Come il marinaio si sente d’un tratto giusto quando è in mezzo
all’oceano.
Io guido la barca del mio
ingegno con la penna, il mare il mio inchiostro nero. Nero come l’anima. Nero
come me.
Delle volte scrivo solo per
il piacere di vedere la mia mano muoversi.
Non so perché, ma persino il
lento scivolare sul questo foglio mi incanta.
Come una danzatrice incanta
un uomo.
Si soffermò sulla sua mano.
Nell’incanalatura tra il pollice e l’indice si era fatta tatuare due ali d’angelo.
Quando impugnava una qualsiasi penna,
sembrava che essa stessa fosse sul momento di spiccare il volo.
Quando se lo era fatto sentì come
dispiegarsi le sue ali.
Realizzata nell’animo, stampare su di
sé, indelebilmente, la sua natura.
«Ali d’angelo sulla mano del diavolo.»
mormorò, con la voce arrochita dal non utilizzo. Sorrise, ricordandosi di chi
l’aveva apprezzato per la prima volta.
Elisa
si dilettava a scrivere una poesia, quando Cassandra spuntò alle sue spalle,
facendola sobbalzare.
“Che
cosa stai scrivendo?” chiese, guardando dalla sua spalla.
“Oh,
niente…” disse, girando la testa, guardandola dall’alto. E vide i suoi occhi
meravigliati, fissi apparentemente sul foglio.
“Che
c’è?” chiese, cercando di seguire il suo sguardo.
“La
penna… ha le ali.” Mormorò, prendendogli la mano e osservandola da vicino.
“Sì…
è un tatuaggio che mi sono fatta quando ho compiuto diciott’anni…”
mormorò, informandola. Immaginò che il suo sguardo si spegnesse, e invece
brillava ancora di più.
“È…
bellissimo…” sussurrò, sfiorando le righe fini e delicate dell’uomo che le
aveva infisse nella sua carne con le dita. Come spaventata nel poterlo sbavare.
Come se sparisse.
“Lo
pensi davvero…?” chiese, sconvolta. Meravigliata che potesse cogliere un
piacevole disegno, considerato barbaro da tanti. Una deturpazione del corpo.
“Certo!”
affermò, con quella sicurezza che aveva la sua voce nei momenti importanti.
Elisa
ne sorrise, e il suo cuore fu così colmo di amorevole ebbrezza che,
dimenticandosi dei modi e del consentito, le prese il volto e la baciò.
Fu
il loro primo bacio.
…
…
Ma non l’ultimo.
Elisa guardò la sua gabbia con
sprezzante felicità. Il semplice ricordo delle sue labbra calde e morbide la
rendeva come un calderone di gioia così sprizzante, che quelle pareti grigie di
cemento e quelle sbarre fredde non la prendevano, si alzò dirigendosi verso
l’unica bocca verso il mondo.
E vomitò tutta la sua felicità.
Ubriacandosi del vento freddo che, sì, portava neve.
Dolce e fredda neve candida. Come la
sua pelle.
Come la sua voce.
Come lei.
“Non so nulla con
certezza. Ma la vista delle stelle mi fa sognare.”
Vincent Van Gogh
Cassandra stava seduta sul letto,
guardava fuori dalle grandi vetrate grigie della casa, leggermente colorate di
quei vani tentativi di lei di cancellare la bruttura della vita fredda e
calcolatrice dell’uomo.
Non vedeva niente di suo nella sua
camera. Tutto ciò che era estraneo era lei. Sorrise amaramente, quando guardò
il suo violino, chiuso a chiave nella teca di vetro. La chiave la teneva suo
padre.
Quella scatola di cristallo simboleggiava
come era la sua vita: un oggetto prezioso mantenuto sotto chiave, per
proteggerla da tutto. Persino dalla vita.
«Come si può rinchiudere una cosa così
bella in una teca di vetro?» pensò a voce alta.
La bellezza effimera delle cose
svanisce con il semplice non utilizzo di esse. La prigione non può uccidere la
bellezza della musica, le sue sensazioni, la sua vitalità e voglia di fuga dal
reale vecchio e gelido della verità.
Fu in quel secondo che Cassandra
identificò quella teca di cristallo come la sua vita in quella casa, e il
violino come se stessa.
Quasi smorto. E sbatté con violenza il
pugno sul vetro, infrangendolo e ferendosi la mano. Non badò al dolore. Era più
urlante e disgustoso quello della sua anima rinchiusa in una dura e fredda teca
di cristallo pungente. Afferrò lo strumento e iniziò a suonare, la mano
lentamente perdeva sangue, eppure non vi badò. Suonò. Suonò quell’unica musica
che sapeva suonare in momenti come quelli. L’unica melodia che potesse calmarla.
E quando finì l’ultimo arco abbandonò
le braccia, svuotata di tutto. Persino dell’anima.
Nessuno l’aveva ascoltata. Nessuno
l’aveva sentita suonare il suo dolore. E con le lacrime agli occhi crollò a
terra, piangendo su se stessa. Sentendo un dolore crescere ancora più grande
della solitudine che l’ammantava.
Principessa
musicista, sola in un castello di cristallo.
Soffre. Piange. Nessuno l’ascolta. E un
musicista senza spettatori è come una penna senza la carta su cui scrivere.
Inutile, insensata.
Urlò. Urlò con tutto il fiato che
aveva, nelle orecchie ancora la sua musica. Nelle orecchie la sua voce roca.
E si sentì sola. Sola, col proprio
dolore, come non si era sentita mai.
«Nonna…nonna…» mormorava impaurita, non
mamma come i bambini spaventati.
«Nonna… perché la musica non mi sazia…?
Perché la vita mi sfugge dalle corde…?» parlava lei, con l’unica persona che
l’avesse mai ascoltata, l’unica persona che le aveva dato un minimo di calore
umano e di amore.
«Nonna… perché non ho la forza di
affrontarli…?» disse, sentendo entrare i suoi genitori. I suoi carcerieri. E
sapeva, come un sentore, un velo di verità, che quello sarebbe stato il giorno
del giudizio. Il giorno della fine di tutto quel dolore. Di quella prigione di
cristallo.
L’avrebbe spaccato. Con la propria
musica.
Afferrò il violino, come rinata a nuova
vita, come se avesse imparato un nuovo spartito.
«Il destino si compie oggi. O la musica, o la morte.» mormorò,
citando una frase che ripeteva sempre la nonna.
“O
la musica, o la morte” disse, guardando il figlio, ennesimo litigio, ennesima
fine nel silenzio.
“La
musica è per i codardi.” Affermò freddo il figlio. L’offesa a tutta la sua
vita, una lacrima cade su quella pelle raggrinzita dal tempo. Sapeva quanto in
profondità aveva colpito il figlio nell’anima di sua madre?
“Oggi
io ho perso un figlio…” ribatté, stringendo la veste, la nipote dietro di lei,
che piange silente.
“Io
oggi non ho perso nulla che avesse valore, per la mia vita.” rispose l’uomo,
prendendo giacca e cappello, uscendo sbattendo la porta.
Quegli
occhi di ghiaccio. Li aveva visti negli occhi di suo marito, quando scappò da
lei. Non se ne andò mai solo. Si era portato dietro l’anima del figlio. L’aveva
sacrificato all’altare della matematica, della scienza, della razionalità.
Uccidendo
lei. Lasciandola sola.
Le
lacrime della bambina la fecero ripiombare nella realtà.
Non
tutto era perduto.
E suonò.
[La vera felicità è la pace con se stessi.
E, per averla, non bisogna tradire la propria natura.
Cit. Mario Monicelli]
Ci voleva un genio come Shakespeare per
dire, senza grandi paroloni come la morte agisce.
“E morì.” Scrisse, nella sua opera più
grande.
Niente archi, né frase che colpiscono.
Niente.
Semplicemente “E morì”.
E io, nel mio piccolo, lo copio.
Solo che questa non è la fine J
Passando alle recensioni…
@Adhara: La risposta è arrivata tanto in la J per un motivo bellissimo
e tristissimo insieme… ma lasciamo stare, oggi ho sentito come la forza
ancestrale di una foresta che mi ha ispirato, e non riesco a capire perché.
Amorevolmente tua e sempre,
Ti amo :*
E.
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