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Autore: GioGiaMon    06/09/2011    2 recensioni
Equinozio di primavera;i pensieri Luthien, Elfa dalla bellezza fuori dal tempo, vanno all'ormai lontana Battaglia condotta contro l'oppressore. Una figura si delinea nella sua mente; ricordi dal sapore dolceamaro della sua amica combattente umana.
Di Jocelyn rimanevano ormai solo della pergamene ingiallite, su cui la donna scrisse brevemente i suoi pensieri e riflessioni.
Nota: è la prima originale che pubblico; è stata il mio primo esperimento, forse non troppo riuscito. Critiche sono ben'accette.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pergamena I

Pergamena I

Mai avrei creduto di riuscire ad arrivare fino qui. Ero destinata a tutt’altra vita, visto il luogo che mi ha dato i natali.

Per chi ritroverà questo scritto, sono originaria della regione Ulbra. Non è molto conosciuta, anche se è situata poco più a nord della regione in cui risiede la capitale del nostro Impero; il motivo è molto semplice. Chi vi ci nasce è destinato anche a morirvi: è una terra legata alle tradizioni, di gente abituata alla fatica e cui l’influenza della Chiesa penetra in ogni animo e in ogni mattone. Società  patriarcale che ha sempre rifiutato l’influenza esterna, chiudendosi in isolamento inspiegabile. Molti degli abitanti di Ulbra non hai visto la città principe della regione, Perysium; arroccata su due colline contigue, presenta una quantità innumerevole di scale. Piena di cunicoli e portici, tra mattonato grezzo e marmi preziosi, ha il fascino della disarmonia più stridente. La piazza principale, raggiungibile dopo la lunga scalinata in marmo bianco sciupato, rappresenta l’emblema di questa città: opulenza e miseria si scontrano e si incontrano creando una magica armonia. Una fontana imperiosa con al centro la statua del fondatore della città, con lo stendardo di un grifone, è circondata da edifici lugubri in pietra scura in cui vi risiedono ricchi mercanti e nobili viziati mentre sui sampietrini si trascinano mendicanti e senzatetto vestiti di stracci.

L’ho sempre odiata ma anche amata: mi ricorda il carattere di mio padre.  Sempre imbronciato e perennemente preoccupato per il sostentamento della sua famiglia, tanto da dimenticarsi che non abbiamo solo bisogno del pane per vivere, ma anche di amore; ma papà era incapace di dimostrare il suo amore per me e mio fratello maggiore.

Ho sempre creduto che la nobiltà fosse diversa da me, umile figlia della terra: credevo che il loro titolo fosse di derivazione divina, quasi come se i nobili non fossero molto più dei comuni uomini. Perlomeno questo è quello che mi aveva trasmesso mio padre. Ma poi ho incontrato Thomas. Avevo quindici anni e dopo l’ennesima lite in casa mi sono rifugiata nella Macchia, una selva abbastanza fitta da riuscire a confondere il mio già debole senso dell’orientamento. Ero disperata. Singhiozzavo. Ormai stava calando il sole  e il cielo imbruniva rapidamente.

Zoccoli in lontananza. Smisi di piangere; ero in allerta per cogliere la provenienza di quei suoni. Senza nemmeno riflettere sulle possibili conseguenze mi diressi verso quei rumori. Mi districai tra rovi e arbusti. Dovevo raggiungere quegli zoccoli! L’unica possibilità di ritornare verso casa! Mi aspettavo che vi fossero banditi, poco di buono,tutto, ma non quello che vidi.

Un ragazzo riccamente vestito, seduto su un tronco, imbronciato. Alzò lo sguardo e, vedendomi, sussultò. Dal conto mio ero impietrita. Era chiaramente un nobile. E pure di alto rango, a giudicare dallo stemma impresso sulla sella del cavallo. Stavo per scappare quando si alzò in piedi, mi prese la mano e con un profondo inchino si presentò.

Madonna,  permettete che mi presenti. Sono il Duca Thomas LaBranche, al vostro servizio. ‒ Il mio viso doveva un’espressione davvero buffa; non riuscivo a credere a ciò che le mie orecchie avevano appena udito! Un nobile che si inchina e mi fa il baciamano … e che  mi chiama «Madonna»!  

Madonna, vi siete forse smarrita in questo impervio luogo? mi domandò.

Voi, nobile di sangue, parlate a una popolana come? ero talmente sconcertata che mi dimenticai la disparità di rango e nemmeno abbassai lo sguardo, né mi inchinai. Ricordo che la voce risuonò come un rimprovero.

Mi rispose con un dolce sorriso, gettandomi nell’imbarazzo più completo.

Madonna, non vi è ragione del vostro rossore. Tra ma e voi non vi è alcuna differenza. Anzi, finalmente mi trovo davanti una persona vera!  mi disse, con l’aria di credere davvero alle parole che uscivano dalla sua bocca.

A me, non sembrava proprio che tra me e lui non ci fossero differenze. Mi sentii offesa; forse sarò stata pure povera e ignorante, ma di certo non ero stupida!

Tra me e voi non vi è differenza? Ma davvero credete davvero a questa scemenza? A me non pare di avere le mani linde e pulite come le vostre! Vedete? Sono piene di calli! E rovinate! E voi indossate abiti puliti e costosi, mentre io dei luridi stracci sporchi! E cosa più importante, non dovete sudare e lavorare per avere un pasto in tavola! E mi sono sempre domandata perché capita solo a pochi una tale fortuna! la mia indole irruenta era emersa di nuovo. Mio padre mi accusava di avere un carattere impossibile e che la colpa era dei miei capelli! Sì, in una società dominata dalla Chiesa, chi aveva i capelli fulvi come i miei non era ben visto.

Dalla sua faccia mi resi conto che forse ero il primo essere umano a rivolgermi a lui in modo così duro. Mi fece un po’ pena.

Ma poi mi sciolse in una risata.

Perché mai ridete? gli domandai con tono provocatorio.

Perché nessuno osa mai sgridarmi come avete appena fatto voi! E nessuno mi dice ciò che pensa! Non so se la vostra è incoscienza o mancanza di educazione, ma mi piace! a quelle parole mi sentii piccola piccola. Dovevo portagli più rispetto, esprimere ciò che pensavo con educazione. Ma tutto ciò mi è sempre stato molto difficile.

Gli porsi le mie scuse, imbarazzata e mortificata. Poi mi si avvicinò, mi scostò i miei capelli arruffati dal viso e mi sussurrò una frase che allora non capii bene.

Non sapete di essere un dono del cielo! Siete più splendida di quanto possiate immaginare. sembrava una dolce melodia trasportata dal vento.

Poi mi riaccompagnò nel mio povero villaggio.

Spero un giorno di rivedervi, Madonna. Tra sei mese dovrò trasferirmi  a Sanslyn e non potrò più tirarvi fuori da boschi e foreste! Ma prima che vada, vorreste dirmi il vostro nome? mi prese di nuovo la mano e la baciò.

Mi chiamo Jocelyn, Signor Duca. Ma ricordate che sono solo una contadina e voi un nobile. gli rammentai.

Jocelyn, già il suono mi piace! lo ripeté, estasiato.

È l’unica eredità che mi ha lasciato mia madre. Oltre al colore dei miei capelli. lo guardai diritto nei suoi profondi occhi blu.

Jocelyn, vi prego,concedetemi l’onore di godere di nuovo della vostra compagnia! più che chiedere il permesso, mi stava supplicando. O perlomeno allora mi è sembrato. Nonostante tutto ero in debito, quindi non me la sentii di rifiutare. Dopotutto me lo stava chiedendo con un tale garbo che mi era impossibile rifilargli un rifiuto.

Se proprio insistete, Signor Duca. feci l’aria di chi non sopporta tali cerimonie.

Allora, Madonna Jocelyn, mi vedrete presto! E’ una promessa! la solita promessa di circostanza, pensai tra me. Ma a sorpresa, venne di nuovo. E poi ancora e ancora. Era interessato a me, o perlomeno così voleva far intendere: a me sembrava più un capriccio che veramente interesse.

All’inizio pensai che forse voleva solo qualcuno con cui scambiare qualche opinione, cosa che non capivo assolutamente. In fondo sapevo a malapena leggere e scrivere, quali pensieri profondi potevo formulare?

Ma insisté. Ancora e ancora. Ogni volta si presentava con una rosa e con qualcosa da leggere o da sottopormi. Sia di letteratura che di politica. In quei sei mesi appresi molto sia di storia che di geografia. Mai una volta mi fece sentire l’allieva stolta, si metteva sempre al mio stesso piano; feriva il mio orgoglio e molte volte lo rimproveravo vivacemente per questo. Ma da signore mi lasciava in balia della mia ira, limitandosi ad osservarmi divertito.

Piano piano mi resi conto che persona fosse; non solo un nobile di titolo, ma anche d’animo. I pregiudizi che ognuno aveva nei confronti dell’altro furono abbattuti con la facilità con cui si demolisce un castello di carte. Quindi, all’improvviso, realizzai di amarlo. Gioia e terrore. Sapevo che presto sarebbe partito e che la differenza di lignaggio avrebbe impedito qualsiasi futuro insieme. Quindi non mi illusi, vissi quei momenti al meglio, anche se lo spettro della sua partenza incombeva gravoso sul mio cuore.

Poi arrivò il giorno prima della sua partenza. Passammo gli ultimi momenti  insieme senza sciuparli con inutili parole; eravamo troppo distratti l’uno dall’altra e risate complici dolceamare  presero il posto di frasi di circostanza.

Vorrei portarvi con me nella Capitale, ma non credo che voi me lo permetterete. disse, con una punta di rimpianto.

La mia testardaggine e il mio orgoglio mi impedirono sia di piangere che di mostrare qualsivoglia debolezza.

Avrei voluto dirgli ciò che provavo, gridarglielo, ma no potevo. Quindi mi limitai a salutarlo con un sorriso tirato mentre sul suo volto vedevo chiaramente tristezza.

Ci separammo e non lo rividi per molto tempo.

  
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