Thanks for the memories
B
come benvenuta
Un giorno –
L’ombelico del mondo
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il
mondo
Era
quasi il tramonto di una splendida giornata estiva. Il sole stava lentamente
scivolando dentro l’abbraccio bagnato del mare, macchiando l’oceano di fuoco;
il cielo si era tinto di arancione, e dentro le nuvole rosee volavano allegri
gabbiani, e un solitario fenicottero, ultimo ritardatario di uno stormo che era
passato qualche ora prima.
Nel
giardino di quella casa, però, la quieta calma di quel giorno ormai morente non
era rispettata nella sua pienezza: c’era via vai, una folla di curiosi davanti
al cancello che dava sulla strada, altre due o tre persone sulle scale che
portavano al mare, e, soprattutto, un uomo che teneva per mano una donna,
seduta dentro una piccola piscina gonfiabile appartenente alla loro
primogenita, ora braccata dal nonno materno, troppo emozionato per poter
assistere a quell’evento fuori dal comune. Urlava, la madre, e piangeva di una
felicità che solo un’altra volta aveva già provato, quasi tre anni prima,
quando aveva partorito quella bimba che tentava di sfuggire alle grinfie del
nonno per spiare la testolina della sorellina nascitura. Ma lui, che per primo
aveva il cuore in tumulto, non le permetteva di assistere al lieto evento; di
tanto in tanto lanciava un’occhiata a quel giardino illuminato, sorridendo nel
vedere un gabbiano curioso attardarsi nel suo volo per spiare quel privato
universo che una coppia aveva creato nel compasso perfetto e minuto generato da
quella piscina, riempita di acqua tinta di rosso, e non per il riflesso
aranciato del sole che tramontava. Urlava, la madre, e piangeva, mentre
stringeva la mano dell’uomo che amava, cercando di dare alla luce il frutto del
loro amore.
La
ginecologa arrivò quando le doglie erano già tanto frequenti da non lasciare
tregua alla puerpera: il travaglio era già cominciato, ma la bimba non aveva
alcuna fretta di nascere – ne avrebbe avuta tanta di vivere, in futuro.
L’ostetrica gridava alla pazzia.
« Siete pazzi, dei pazzi! » si agitava intorno a quella
piscinetta, lo sguardo allucinato e le mani tremanti. « Un parto in un
giardino. A Brucoli, poi! L’ospedale più vicino è a un’ora di strada! Siete
pazzi! » Eppure nel suo sguardo clinico e professionale c’era una luce furba e
dolcissima, la luce di chi la sapeva lunga su quella pazzia, e di chi conosceva
la follia di quella madre, ultimo strascico di una vita alternativa, esternata
anche in quell’ultimo gesto: il voler partorire sua figlia in acqua, e non in
un anonimo ospedale. Aveva già avuto la prima esperienza, avrebbe potuto
ripetere il travaglio altre volte – e l’avrebbe fatto. Ma lei, prodotto di un
amore che voleva vedere, prima di ogni altra stagione, l’estate, e quella aveva
scelto per venire al mondo, doveva nascere nel mare.
Nuoterà come un delfino
e non avrà mai paura del profondo, dell’ignoto, del blu, dell’immenso. Quindi non
avrà mai paura di volare. Sì… perché secondo me saper volare è una tra le cose
più difficili da imparare, ma come tale importante. C’è sempre almeno un
momento nella vita in cui devi aprire le ali e guardare in alto e poi
dall’alto… saper guardare giù.
Ma
il travaglio era già cominciato, e la bimba, dopo due ore di attesa, spingeva
per venir fuori: si sarebbe dovuta accontentare dell’acqua dolce; l’oceano
l’avrebbe visto qualche giorno dopo, e avrebbe salutato con sguardo ingenuo,
puro di qualsiasi contaminazione, i pesci curiosi che l’avrebbero a sua volta
fissata con stupore, quella bimba che appena nata nuotava già come un delfino.
Bussava
intensamente, e pian piano veniva fuori: ecco la testolina, che spunta per un
attimo e poi scompare di nuovo; ritorna indietro, ma solo per prendere la
rincorsa e poi andare avanti, mostrando per la prima volta il suo visetto al
mondo. Scivola fuori dal ventre della madre tra pianti commossi e urla di
gioia, sotto lo sguardo apprensivo della ginecologa e quello, esausto ma
splendente, della madre, che si mette subito in allarme quando il suo pianto
non spezza quella quiete. Il cordone, lungo quasi centocinquanta centimetri,
contro gli abituali ottanta, è tutto arrotolato attorno a una piccola stellina,
ma proprio piccola piccola; una stellina che apre gli
occhi per la prima volta, e vede il viso di un uomo che non sapeva ancora che
avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni, e anche oltre; che l’avrebbe
amato di quell’amore di cui solo lei, era capace. Lo vede, i suoi occhi castani
e severi addolciti dal pianto commosso, e anche lei si commuove, e piange: il
suo vagito di neonata annuncia la sua nascita, potente, gioioso. È nata, e
vuole gridarlo al mondo; e lo fa, senza chiedere il permesso, senza aspettare.
Poi assaggia la sua mamma per la prima volta, legandosi a lei indissolubilmente
con un filo invisibile che non si sarebbe mai spezzato.
Infine,
si lascia prendere dalla manona del papà: è così piccola che entra tutta nella
sua mano, e le sue gambette minute sfiorano appena il polso di quell’uomo
emozionato: una femmina, che avrebbe avuto una mano a cui appoggiarsi, sempre –
quella stessa su cui era ora poggiata, minuscolo miracolo capitato a loro per
un meraviglioso gioco del destino.
«
Mamma, sei pronta? Al tre la chiamiamo… » la voce del papà era rotta
dall’emozione, ma comunque forte e tuonante. Ma la neonata non ne ebbe paura:
forse fu quello il momento in cui se ne innamorò; forse, invece, era stato già
prima, amore a prima vista che sarebbe stato imperituro nel tempo. « Uno, due…
TRE »
«
Chiara » La bimba sentì per la prima volta il suo nome, e al contempo la voce
corale dei suoi genitori, e tutto un insieme di altri suoni dissonanti – lo
stridore di un gabbiano che richiama i suoi compagni per mostrare quella
minuscola creaturina appena affacciatasi alla vita, lo sciabordio delicato del
mare, il fischio leggero del vento, il frinire continuo delle cicale – che per
una bimba appena nata era troppo da sopportare. Pianse, forse per far sapere ai
genitori che il nome le piaceva, magari semplicemente perché estenuata da tutte
quelle nuove emozioni – amare ad appena qualche ora di vita è davvero faticoso,
in fondo.
Il
papà avvicinò la bimba alla sua mamma, e la guardò con occhi sognanti: era
stata a dir poco eccezionale; e
accompagnarla, per lui, era stato un vero privilegio; perché lei ci aveva
creduto, aveva lottato contro tutti ed era andata avanti sempre serena, sicura
che sarebbe stato speciale. E così era stato: infinitamente speciale, e quando le vide insieme per la prima volta
– la bimba, minuscola, tra le braccia delicate di quella madre che l’avrebbe
sempre amata, una coppia speciale, già si vedeva – lei era stremata, ma nei
suoi occhi mentre la guardava, anche lì c’era qualcosa di speciale: la stessa
magia che avrebbe continuato a regalarle ad ogni compleanno.
Il
papà si alzò, e il dolore alla schiena era nulla in confronto a quello,
dolcissimo e molto più intenso, che aveva nel petto. Mentre la ginecologa
versava del ghiaccio nell’acqua calda della piscina per fermare l’emorragia
della madre, che aveva occhi solo per sua figlia, lui prese tra le mani la
placenta, scavò un piccolo buco poco distante dal punto in cui la sua stellina
era nata, e la piantò lì, in mezzo a quel giardino: si sarebbero fatte
compagnia nella crescita della vita.
I folletti raccontano
che, all’inizio e alla fine di ogni arcobaleno, c’è una pentola d’oro in dono
ai fortunati che trovano quel punto. Quell’uomo, in quel momento, pensò che,
senza dover correre lontano, lì in quel guardino c’era un punto magico ben più
prezioso. Era il punto in cui tutto era appena accaduto, ma era anche il punto
da cui stava avendo inizio una storia: questa storia. Eccolo lì: quello è
l’OMBELICO DEL MONDO.
Il
sole tramontò infine su quel pomeriggio di festa: un giorno era finito; ma una
nuova vita era appena iniziata.