I Want It All
Era rimasto da solo in sala: Jermaine gli aveva detto di aspettarlo e, quindi, si era avvicinato alla sua roba, sedendosi per terra in attesa. Fece per appoggiare la schiena alla parete dietro di lui, ma il contatto con la superficie fredda dello specchio lo fece rabbrividire.
Non era mai stato troppo sensibile e quella sensazione lo convinse a osservare ciò che stava alla sue spalle: un semplice ragazzo, seduto e in attesa, in una grande sala vuota la cui aria era ancora impregnata della presenza di altre persone e del loro calore. Da così vicino, la sua immagine risultava piccolissima in confronto a quello che lo attorniava, ma, comunque, era sempre troppo presente per lui: abbassò automaticamente lo sguardo.
Cos’era che dicevano? Nessuno riusciva a reggere il suo sguardo ametista: perdeva lui stesso davanti al riflesso delle sue iridi.
Osservò le assi del parquet lucido e automaticamente poggiò il palmo aperto su di esso, tastando la consistenza del legno e avvertendo le piccole venature che lo caratterizzavano sulla pelle: si sentì un bambino che, per conoscere gli oggetti, ne tocca ogni piccola parte curioso.
Se la sua ultima fissa riguardava i soffitti, per tutta la sua vita la sua attenzione era sempre stata catalizzata dal suolo: che fosse pietra, marmo, terra, erba, legno, poteva dire di conoscere ogni tipo di pavimento esistente.
La terra era sempre stato il suo punto di riferimento l’unica cosa che riusciva a percepire
chiaramente.
Il pavimento era la sua unica sicurezza, era lì, ed era fresco e invitante.
Da lì era partito tutto: quante volte vi si era sdraiato, vi si era accasciato, vi aveva trovato riparo, era stato punto di appoggio e sempre più spesso punto di ritorno.
Anche la sua danza era partita da lì: spostò la mano lentamente, come in una carezza. Il breaking riguardava un rapporto stretto con la terra, il riuscire a farsela amica, compagna e alleata, lavorarla in modo che possa reggere anche nelle trick più impensabili. Però sempre a testa alta.
Questo era stato il suo problema per troppo tempo: non aveva mai capito quanto quel rapporto potesse essere equo solo se avesse puntato al mondo che quel suolo reggeva, ma Kei al contrario quel mondo lo temeva, ne aveva paura, non lo voleva e non lo sapeva guardare. E il pavimento lo sopraffaceva.
Si era crogiolato per anni nella sua debolezza, se al monastero non aveva la capacità e la possibilità di emergere, quando aveva trovato la libertà semplicemente non l’aveva saputa cogliere ed era rimasto a quell’infimo livello.
Scomparì, lasciando che la forza di gravità lo
schiacciasse a terra.
Viveva nella
convinzione di essere da solo, nonostante le tante persone che gli volevano
bene, non riusciva a fare a meno di allontanare da sé gli altri ed era sempre
stato più semplice dare retta a chi alimentava quella convinzione piuttosto che
a chi cercava di negarla.
Dai Kei,
nessuno se ne preoccuperà.
Fece scivolare ancora la mano sul parquet, ritirandola poi
velocemente sul suo ginocchio, come scottato dal legno. Invece, era semplicemente
scottato dai ricordi, perché non era più tempo di rinnegarli e allontanarli, ma
affrontarli con sincerità: la verità era che si era relegato da solo al
pavimento, perché era la sua certezza, il quieto persistere della sua
esistenza, senza sforzi e con tutto ciò che più gli era familiare: dolore e
solitudine.
Sono sempre costretto a portare i segni delle cose brutte che mi succedono.. in questo caso delle stronzate che faccio.
Spostò lo sguardo dalla sua mano, che ancora era il centro del suo interesse, fino all’incavo del suo braccio dove i suoi leggeri segni potevano essere fatti passare a un occhio non attento per qualcos’altro e, a pochi centimetri di distanza, il suo doppio faceva lo stesso, mostrandogli ciò che la sua pelle aveva da raccontare.
Si era sempre illuso di aver tentato di rialzarsi ogni qual
volta fosse caduto, ma non poteva considerarli propriamente tentativi, non
finché si rendeva conto di quanto invece fossero stati gli altri a porgergli
mani che non aveva stretto.
Per
favore, almeno tu, vivi.
Distese le dita e le fece aderire alla superficie
riflettente: ebbe per un secondo l’impressione di poterla attraversare, di
poter toccare realmente la mano di quell’altro Kei, magari più sicuro e meno
stupido di lui. Fantasticò sul possibile mondo oltre lo specchio, quello dove
lui realmente vinceva lo sguardo di tutti, dove non conosceva la paura.
Dopo il monastero lui non aveva saputo fare altro che
ributtarsi in un baratro, poi era scappato dall’eroina cercando la normalità
che leggeva negli occhi dei suoi amici, infine aveva attraversato mezzo mondo
per lasciarsi alle spalle un’esistenza grigia, sperando nei mille colori del
Giappone.
Kei,
tranquillo, andrà tutto bene.. fidati di me.
Non aveva capito quanto fosse inutile cercare negli altri,
la loro approvazione e attenzione, quando invece doveva partire da sé. Perché i
suoi amici erano più lungimiranti, erano capaci di cose che lui non poteva
neanche immaginare. Yuri, Takao, Rei, Max, lo avevano chiamato per nome tante
volte, ma lui era rimasto a guardarli, maledicendosi e restando attaccato
saldamente a quel pavimento che era la sua prigione.
Non
chiedermi di amarti, non ne sono capace.
Hilary era la chiara dimostrazione della sua cecità, del suo
rifiuto verso quelle lettere marchiate a sangue e inchiostro sulla sua pelle:
un altro proposito non mantenuto. La testimonianza delle energie e della vita
che aveva rinnegato.
Le sue dita che risalivano lo specchio lasciarono un leggero
alone al loro passaggio.
Non
dovresti stare da solo.
Quella corazza la credeva indistruttibile, ma, se si
guardava bene, delle crepe la indebolivano e permettevano a degli spiragli di
luce di oltrepassarla: quegli spiragli si stavano facendo giorno dopo giorno
più grandi, ma non tutti erano stati capaci di individuarli. Poteva nuovamente
fare i nomi di quelle persone, entrambe che avevano conosciuto il Kei
ballerino, piuttosto che quello blaider. Se Hilary
l’aveva respinta, però, Dana rimaneva la prima testimone di quel cambiamento.
Dicono
che casa sia il luogo dove si trova il cuore.. allora potrebbe essere ovunque..
e perché non nel luogo dove hai la possibilità di danzare?
Eppure la danza era disciplina, la stessa che aveva imparato
al monastero, era regole, dolore fisico, ma era vivere il pavimento come
potenziale per arrivare oltre. Negli anni in cui si era perso, quindi, aveva
sostanzialmente dimenticato tutto ciò che significava essere un blader: aveva rimosso le parti positive della sua infanzia,
poche e memorabili, e aveva lasciato che l’odio e la disperazione lo accecassero.
Si era quindi ritrovato? Aveva recuperato il buono che gli
aveva permesso di conoscere gli amici e la famiglia di una vita?
Fermò la mano, rendendosi conto di cosa nascondesse il
movimento successivo, quando la sua attenzione si sarebbe spostata dalla sua
pelle chiara al volto del suo nemico giurato.
E’ così brutto
quello che vedi?
Era arrivato il momento di prendere una posizione e di
lasciarsi il peggio alle spalle: Jermaine gli aveva ripetuto mille volte di
entrare in sala come se entrasse nella propria casa, nel proprio mondo, di
lasciare fuori ogni preoccupazione, di osservare se stesso e credere nel
proprio lavoro. Ascoltare il proprio corpo, dargli la possibilità di
esprimersi.
Per quanto quelle frasi, a inizio della sua avventura, gli sembrassero
campate in aria, aveva imparato la loro verità, l’aveva provata e, finalmente,
non l’aveva rinnegata.
Quando era questione di fiducia, lui era il primo a
tirarsene fuori, ma se davvero aveva fatto pace con i suoi fantasmi, con quei
volti di un passato in bianco e nero, osservato dal basso del pavimento, non
poteva più permettersi di scappare da se stesso.
Credo siano..
colori che danzano.
La risposta era sempre stata lì, davanti ai suoi occhi, nel
modo in cui vedeva il mondo esterno, come interpretava le parole degli altri,
quando si appoggiava al petto di Yuri per regolare il ritmo del proprio battito
o ascoltava il respiro di Hilary o teneva il conto dei tentativi di Rei di
instaurare un contatto con lui. Poteva leggere persino nell’ennesimo spostamento
della sua mano sullo specchio una sorta di danza accompagnata da un silenzio
ricco di input e accenti.
Sì.
Spostò la mano e si vide: era lui, Kei e il suo volto e i
suoi occhi tanto odiati e la sua insicurezza, li osservò, potevano benissimo
essere quelli di un estraneo se solo non vi avesse letto all’interno tutta la
sua vita.
Si era sempre astenuto da decisioni secche, le risposte
affermative e interessate le poteva contare sulla punta delle dita, ma aveva
accettato di farsi travolgere da quei pazzi mesi ed era arrivato il momento di
dare un volto a quella persona pazza e masochista e, finalmente, con un senso.
-Eccomi!-
La voce squillante di Jermaine rimbombò ancora più potente
tra quella fiera di ricordi e sensazioni, facendolo sobbalzare.
Kei lasciò la mano ricadergli sul ginocchio e si voltò come
risvegliato da un trance: guardò il coreografo avvicinarsi a grandi falcate e
sedersi a fianco a lui brandendo un pacchettino.
-Ancora due date ed è finito il tour..- si spiegò -..e
questo è l’ultimo momento di pace, fidati! Un regalo per te!-
-Perché un regalo?- chiese allarmato e perplesso il russo.
-Tranquillo non è nulla di che.. aprilo!- lo esortò
entusiasta.
Kei strappò la carta e osservò l’oggetto che aveva tra le
mani: una agendina con la copertina rigida color porpora e il dorso mogano.
-Ha un significato..- assicurò l’uomo.
-E vorresti spiegarmelo?-
-Apri!- lo invitò ancora esaltato.
Il ragazzo sfogliò le prime pagine senza trovarvi nulla di
strano, fino a che non arrivò alla fine di gennaio e inizio febbraio dove la
calligrafia contorta di Jermaine aveva riempito parecchi spazi bianchi.
-Sarai molto impegnato sappilo.. ti servirà!-
Kei scorse gli orari e gli impegni che il coreografo gli
aveva appuntato.
-Queste sono le mie lezioni a Tokio.. poi il resto potrai
riempirlo tu!- disse l’uomo indicandogli diversi giorni e dandogli alcune
indicazioni in più.
-Fortuna che mi era preparato a non ricevere una reazione
troppo calorosa!- lo risvegliò Jermaine dal silenzio nel quale era caduto per
continuare a leggere.
-Cosa? No.. grazie- disse sovrappensiero mantenendo l’agendina
aperta: nero su bianco si trovava la prova che tutto quello non sarebbe
terminato -..davvero-
-Poi con quel cellulare arretrato che ti ritrovi.. questa è
in attesa che tu diventi tecnologico!- scherzò Jermaine rialzandosi.
Gli occhi di Kei per alcuni minuti vagarono nuovamente sulle
pagine scarabocchiate lasciando una marea di nuovi pensieri affollargli la
testa.
Ormai
non ne puoi più fare a meno.. avrai il tempo di capirlo, se vorrai farlo.
Si alzò finalmente e prese la borsa, l’agendina ben stretta
tra le dita, si diresse verso la porta, ma, poco dopo aver superato il centro
della sala, come essendosi ricordato improvvisamente di qualcosa, si voltò
verso lo specchio osservando il proprio profilo per poi allargare la visuale:
ad oggi quel tipo di pavimento e quel tipo di soffitto erano assolutamente i
suoi preferiti.
L’ormai familiare boato che si alzava dalla platea una volta
iniziato il gioco di luci che apriva lo show si levò per l’ultima volta, Lauren
nel suo miniabito sbrilluccicante di sempre si lasciò scappare un sorriso
d’intesa quando incontrò gli occhi di Kei, poco prima di entrare in scena: i
cinquanta secondi di routine ed era il turno dei ballerini e a seguire niente
di nuovo per nessuno se non gli spettatori, diversi ogni sera, ma quella volta
in particolare trattati da privilegiati perché sarebbero stati gli ultimi. Poi
la pausa di venti minuti che permetteva il cambio d’abiti e la riacquisizione
di un po’ di respiro, per l’ennesima volta si permise di assistere al passo a
due di Nene e Blake e ritornare a far parte della frenesia dello show.
Si dimenticò che sarebbe stata l’ultima messa in scena, solo
pochi attimi random glielo ricordarono, ma durarono giusto il tempo di un
battito di ciglia. Così come era iniziato, velocemente terminò. Riuscì a
godersi gli ultimi flash, le ultime immagini realizzando ciò che significavano quelle
luci che si spegnevano e il buio che scendeva sulla platea che applaudiva
imperterrita.
-Da domani siamo tutti disoccupati!-
Carol alzò il bicchiere come per brindare, mentre erano
tutti seduti su uno dei divanetti del locale affittato per festeggiare
degnamente la fine del tour.
-Parla per te! Io ho già pronto un altro contratto!- sogghignò
Chayton.
I due battibeccarono tra una risata e l’altra, alzando il
tono di voce per sovrastare la musica che si faceva sempre più forte.
-Una foto con i miei bellissimi ballerini!- arrivò Lauren
saltellando sui suoi tacchi altissimi, seguita a ruota da un fotografo e una
telecamera: si infilò sul divanetto lasciandosi circondare e dando il via a una
serie infinita di scatti.
Kei cercò di resistere, ma se ne tirò fuori relativamente
presto osservando divertito la scena: quando Lauren andò a intrattenere
un’altra parte della sua crew tornò la pace e tutti
si divisero, chi a ballare, chi a riempire i bicchieri. Il russo uscì nella
veranda del locale per fumare insieme al ragazzo della security che aveva
conosciuto sin dalle prime date.
Quando rientrò erano ancora tutti sparpagliati e decise di
dirigersi verso il balcone: si fece largo tra la folla, superò Jermaine e Monique che ballavano insieme e si sedette su uno degli
alti sgabelli ordinando il suo drink.
-Non abbiamo avuto più occasione di vederci- esclamò al suo
orecchio una voce che, nonostante arrivasse ovattata, poteva riconoscere.
-E ti dispiace?- chiese a Nene alzando un sopracciglio.
-Dipende!- esclamò ordinando a sua volta da bere –Sai,
dopotutto un po’ mi mancherai-
-Che ne sai che non ci rivedremo?-
-Per carità, la mia era una frase di circostanza!-
-Come volevasi dimostrare-
-Tu cerca di migliorare e poi ne riparleremo!- concluse la
ragazza con la sua solita aria altera, prima di dileguarsi nuovamente tra la
folla.
-Ah..-
Si sentì toccare la spalla e si voltò pronto a fronteggiare
il ritorno alla carica della mora.
-Ma basta..- si bloccò di colpo non trovandosi davanti Nene.
-Cosa ti avrei fatto per essere così scortese?- chiese
Lauren accigliata.
-Pensavo fossi un’altra persona-
-Allora va bene.. ehi!- qualcuno le arrivò addosso,
spingendola e facendole quasi perdere l’equilibrio –Fai attenzione!- urlò in
direzione della folla dietro di lei, ma non avrebbe saputo dire chi l’avesse
urtata.
-Tutto bene?- chiese Kei reggendola per un avanbraccio.
-Sì.. spostiamoci un attimo- disse intimandolo a seguirla
verso un angolo con meno ressa.
-Scarpe da ginnastica mai?- le fece notare il russo una
volta fermatosi.
-Naah! Anni di allenamento!-
rispose lei sventolando una mano come per allontanare un pensiero inutile
–Piuttosto.. ti stai divertendo?-
-Abbastanza.. come mai sei interessata?-
-Ricerca sul campo.. testo la soddisfazione del personale!-
Lauren ghignò guardandosi intorno come per cercare qualcuno:
quando finalmente lo trovò, accalappiò la sua assistente e le chiese di darle
il cellulare che, a quanto pareva, le stava conservando.
-Sei stato scelto per far parte della mia lista di
contatti.. – esordì porgendogli il cellulare -..scrivi il tuo numero!-
Kei digitò le cifre e restituì il telefono.
-Devo ricordarti come mi chiamo o mi salverai con un
soprannome?-
Lauren spalancò la bocca fingendosi offesa –Ma guarda te..
solo perché è successo una volta! Uomo di poca fede! Dai, foto con
l’antipatico!- disse improvvisamente richiamando l’attenzione del fotografo,
rimasto a qualche metro di distanza, che la seguiva come un cagnolino da più di
un’ora.
Il russo sbuffò, ma si ritrovò comunque a mettere un braccio
attorno alle spalle della ragazza, concedendole quello scatto.
Non le chiese a cosa servissero quella miriade di
fotografie, anche perché la cantante fu riacchiappata dalla sua assistente e lo
lasciò nuovamente da solo.
Fecero mattina: ogni occasione in quell’ambiente era buona
per organizzare una festa e, come in quel caso, quando questa occasione aveva
delle basi solide, si andava fino in fondo.
Kei si rese conto di non aver mai dormito le otto ore di
regola in quei quattro mesi, anche se per lui si poteva estendere quell’andazzo
a tutta la sua vita, e questo accadde quando al suonare della sveglia ci mise
relativamente poco a rimpadronirsi della propria lucidità, non diversamente da
altre mattine almeno. Non dovette neppure faticare per svegliare Chayton e si riunirono nella hall dell’albergo in perfetto
orario.
Nell’attesa, abbastanza caotica nonostante tutti avessero
fatto le ore piccole, scorse Lauren andarsene per prima, senza considerare
nessuno e con un paio di grandi occhiali da sole e un cappellino a nasconderla
dai flash dei possibili paparazzi.
-Serata devastante!- esclamò Jermaine sedendosi affianco al
russo e stropicciandosi un occhio.
-Bevi troppo- gli disse guardandolo divertito annuire.
-Ognuno ha i suoi vizi!- rispose ammiccando e convincendo
l’altro a non aggiungere altro.
Nelle ultime due settimane il tour aveva toccato le città mediterranee
nelle quali non erano stati a novembre, di conseguenza il volo fino a Tokio
sarebbe durato una ventina di ore e, considerando il fuso orario, l’atterraggio
era previsto per il pomeriggio del giorno successivo: la traversata fu
tranquilla e si respirava nell’aria la stanchezza, non solo di quella notte, ma
dei mesi spesi a vorticare da uno stato all’altro senza sosta. C’era chi
pensava al meritato riposo, chi al prossimo impegno, chi dormiva, chi non
riusciva a stare fermo e chi, come al suo solito, si lasciava cullare dalla sua
buona dose di seghe mentali quotidiane escludendo il mondo attorno a lui. Il
russo, però, non ne era preoccupato o disturbato, anzi quelle paturnie erano
materiale nuovo per la sua mente malata e non poteva fare a meno che accoglierle
con curiosità.
Prese dalla tasca della giacca l’agendina che gli aveva
regalato Jermaine e la aprì come aveva fatto diverse volte in quei tre giorni:
vi aveva appuntato qualche nota in diverse giornate di tutto l’anno, ma non era
andato oltre pochi simboli e aveva ridotto la presenza delle parole, tanto che
per qualcun altro comprendere l’importanza di quelle giornate sarebbe stato
impossibile.
-Proprio al caso mio!- gli arrivò la voce di Jermaine alle
spalle, ma non se ne preoccupò fino a quando non sentì la presenza del
coreografo nel posto accanto a sé.
L’uomo tirò fuori dalla tasca una penna e rubò l’agenda a
Kei scrivendo un orario e tre parole indecifrabili sulla pagina di quella
settimana.
-Ecco fatto!- disse soddisfatto al termine della sua opera.
-Dovresti fare un corso di calligrafia- gli consigliò il
russo accigliato nel vano tentativo di decifrare la scrittura dell’altro.
-Tranquillo, intanto ti vengo a prendere così ci andiamo
insieme!- e iniziò a informarlo della festa al quale lo avevano invitato e alla
quale nemmeno Kei poteva mancare poiché erano presenti diverse personalità
importanti del campo –Andremo lontano, mio caro!-
Non fece altro che assecondare Jermaine, anche perché ormai
aveva iniziato ad ammettere che la riluttanza della primavera precedente stava
lasciando spazio a qualcosa di nuovo al quale non sapeva dare un nome: come
descrivere una sensazione positiva? Il suo vocabolario non era abbastanza
vasto, non ancora.
Imparerai, si
disse cercando di non sorprendersi dei suoi stessi pensieri.
Atterrarono all’aeroporto di Narita
in perfetto orario e, per la prima volta, non presero tutti insieme lo stesso
mezzo, né si diressero verso la stessa meta, ma si divisero. Ci furono abbracci
e saluti che non mancavano già da diverse ore, ma che finalmente si
consumavano. L’inizio della fine era stato il discorso di commiato di Lauren
durante la festa, mentre l’epilogo prendeva forma con i saluti di Carol, Chayton e Blake per primi, poi di alcune persone che aveva
conosciuto e col quale aveva trascorso più tempo: Jermaine ovviamente non si
lasciò scappare l’occasione di rubargli un abbraccio nonostante, secondo la sua
stessa tabella di marcia, si sarebbero rivisti da lì a pochi giorni.
Quando Kei uscì dal terminal e si ritrovò da solo, si
concesse un lungo sospiro e valutò le sue possibilità: per prima cosa, fumò
tranquillamente una sigaretta sedendosi su una panchina.
La giornata era assolata, i rumori della città frenetica
arrivavano confusi da oltre la grande piazza davanti all’aeroporto, mentre il
freddo risultava piuttosto pungente per gli standard della capitale giapponese;
era arrivato al punto di partenza, da dove aveva iniziato a considerare quel
possibile percorso che lo avrebbe portato a definire se stesso e il suo mondo,
aveva girato e visitato ogni possibile meta, aveva respirato, respirato davvero,
e mancava solo un piccolo passo che lo avrebbe portato a capire finalmente.
Spense la sigaretta e si incamminò sulla strada asfaltata
ponderando l’idea di prendere l’autobus, per poi convincersi che, ancora per
una volta, poteva concedersi il lusso di chiamare un taxi.
Impiegò più di un’ora per arrivare al dojo a causa del
traffico, ma, non appena scese di fronte al familiare portone di legno gli
sembrò che fosse trascorso un giorno da quando lo aveva varcato l’ultima volta.
Provò a rievocare quel momento, sovrapponendolo al presente, trovando, però,
difficile associarli: eppure non era cambiato molto, se non forse il suo
approccio verso quel ricordo.
-Kei!- l’urlo del suo nome lo accolse già dal viale
d’ingresso.
-Ciao Takao- disse con un tono molto più basso il russo.
-Stavolta sei in orario! Stiamo migliorando, eh!- si inserì
Max, accorso insieme al giapponese.
-Dove sono i capelli?- gli chiese Takao saltellandogli
davanti.
-Tagliati-
-Lo vedo!-
Riuscì a far avanzare i due, almeno per arrivare all’interno
del dojo, dove Rei e Nonno J lo accolsero calorosamente. Lo lasciarono, quindi,
andare a sistemarsi nella sua camera e rinfrescarsi, prima di svelare una cena
in grande stile preparata per festeggiare.
-Bentornato!- gli disse Hilary spuntando poco prima che
tutti si mettessero a tavola.
-Grazie- rispose abbozzando un sorriso che la ragazza
accolse con uno sguardo perplesso.
-Che c’è?-
-No, niente- minimizzò lei prendendo poi posto alla
tavolata.
Quella riunione con la tradizione giapponese, contaminata
dalle diverse nazionalità di ognuno di loro, lo coinvolse ricordandogli quella
quotidianità che, nel corso di quei mesi, si era trasformata. Gli vennero poste
una miriade di domande e, cercando di non smentirsi in onore dei vecchi tempi,
rispose vagamente, ritrovando il disappunto di Takao e degli altri che, però,
non si lasciarono scappare l’occasione di aggiornarlo con le loro novità.
Kei ascoltò e non si perse neanche una parola dei lunghi e
coloriti racconti del biondo e del giapponese, subito corretti da Rei e Hilary.
Doveva quindi ammettere che già quella volta al telefono con Rei quel branco di
casinisti gli fosse mancato?
Il mattino seguente si risvegliò confuso, soprattutto quando
riconobbe il soffitto che lo sovrastava e la mobilia della stanza nella quale
si trovava.
Quel giorno non ci sarebbe stato nessuno spettacolo, nessuna
prova, alcun viaggio, niente di niente, se non tranquillità e normalità. Solo
dopo poche ore si rese conto di quanto quella normalità che la sera prima aveva
lodato risultasse strana, piacevole, ma comunque strana.
Fece colazione, si fumò una sigaretta e, poi, quasi
sovrappensiero attraversò la sala, guardò di sfuggita la credenza nella quale
era custodito Dranzer, percorse il porticato di legno
e si diresse in palestra: lo stereo di Hilary era ancora lì, pieno di polvere,
ma sempre pronto per essere utilizzato.
Osservò le pareti, le spade da kendo, l’altarino buddista e
neanche l’ombra di uno specchio.
Si tolse le scarpe e si sedette: sentì l’odore del legno, vivo e palpabile, la sua consistenza, caldo e morbido, e si sentì nuovamente
in pace con il mondo esterno.
Sentì il bisogno di riportare un po’ di quegli ultimi mesi
in quella giornata e, senza rifletterci troppo, prese ad allenarsi, dimentico
della miriade di coreografie imparate, degli ultimi lavori, di quella parte
della danza che era considerata un lavoro, ritrovando quello che, in fondo,
erano le parole di Jermaine, ciò che gli ripeteva e gli riconosceva.
Continuò fino a quando gli altri non tornarono da scuola e
insistettero per passare del tempo con lui: fecero un giro per il quartiere,
aggiornandolo di ciò che si erano dimenticati il giorno prima, incontrarono la
ragazza che stava insinuando dei dubbi allo stoico Rei e poi si fermarono in un
bar.
-A me sembra carina- commentò Kei, vedendo affondare la
testa del cinese nelle sue mani.
-Credo che sia proprio questo il problema!- sussurrò con
fare ovvio Max.
-Molto carina- rincarò il russo.
-Da che parte stai?- chiese Rei riemergendo dalla sua
disperazione.
-Intendi se sto nella fazione Mao o altra ragazza?-
-Mi sa che non lo voglio sapere!- disse incerto l’altro
sperando che il discorso cadesse lì.
-Sicuro? Perché ho la mia opinione e..-
La suoneria del suo cellulare lo interruppe e lo costrinse a
rispondere.
-Pronto? Ciao.. no.. sì, ok.. quando?..- ci fu una lunga
pausa, poi Kei allontanò un secondo il cellulare dall’orecchio per sussurrare a
Rei –Comunque sto nella fazione altra ragazza- per poi prestare attenzione
nuovamente alla misteriosa chiamata.
Il cinese si appellò agli altri due amici cercando appoggio,
ma finì solo per deprimersi ancora di più.
-Vi dispiace se torniamo a casa?- chiese Kei una volta
terminata la chiamata.
-No, intanto s’è fatto tardi..- disse Max.
-E io non voglio più sentire opinioni!- aggiunse Rei
melanconico.
-Chi era?- chiese Takao mentre si incamminarono.
-Jermaine-
-Che voleva?-
-Dirmi di uscire..-
-Quando?-
-Stasera..- rispose il russo osservando l’ora sul display sul
cellulare -..o meglio tra poco-
-Ma tu lo odiavi o sbaglio?- chiese l’americano.
Kei rispose con una semplice alzata di spalle quando
arrivarono davanti al portone; entrò dietro agli altri per poi annunciare i
suoi piani a Nonno J, sicuro che avrebbe apprezzato. Solo alla risposta
affermativa dell’uomo si rese conto di quanto fosse risultata come una
richiesta di permesso.
Jermaine arrivò mezz’ora più tardi, ma, invece che aspettare
Kei in macchina, si avvicinò alla porta d’ingresso e salutò cordialmente gli
abitanti del dojo.
-Buonasera signor Kinomiya!-
Il russo accigliato lo osservò conversare con Nonno J,
chiedendosi quali fossero le sue intenzioni e, soprattutto, si stupì della
memoria del coreografo nel ricordarsi il cognome di Takao.
-Volevo solo avvertirla che in queste settimane ho in
programma diverse cose e spesso e volentieri sono di pomeriggio o sera, spero
non le dia fastidio che Kei possa arrivare tardi..-
Kei spalancò gli occhi dalla sorpresa per quelle parole e le
altre che seguirono, non riuscendo a coglierne il significato.
-Perché?- domandò una volta che furono saliti in macchina.
-Cosa?-
-Perché gli hai voluto parlare?- si spiegò mentre partirono.
-Volevo solo accertarmi che non ci saranno problemi..-
-Ma..-
-Kei.. finchè vivi a casa sua è
giusto che rispetti le sue regole..- il ragazzo tentò nuovamente di ribattere,
ma non gli fu lasciato il tempo di farlo -.. non siamo più in tour, qui devi
rendere conto a lui, non puoi fare quello che vuoi!-
-Lo so-
-Quello è un brav’uomo.. mi sembrava solo doveroso
informarlo!- concluse il coreografo accendendo la radio –Sai, potresti prendere
in considerazione l’idea di trasferirti più in centro..-
Kei si voltò improvvisamente, non credendo alle sue
orecchie, ma non ebbe il tempo di formulare un pensiero concreto che l’altro
cambiò discorso.
Se nelle ventiquattr’ore seguenti il suo ritorno in Giappone
aveva avuto modo di assaporare e annoiarsi della normalità, da quella serata
con Jermaine non ebbe più un attimo di respiro.
-Cosa fai?- chiese Takao affacciandosi alla stanza di Kei,
mentre questo riempiva il suo borsone velocemente.
-Esco- rispose fissandosi su un punto pensieroso per pochi
secondi, prima di tornare ad aprire il guardaroba.
-Ma perché.. sei mai stato in casa?- chiese ironico il
giapponese sbuffando.
-Cosa stai dicendo?-
-Fa niente!-
Kei lo salutò e uscì, realizzando solo in quel momento le
parole dell’amico: effettivamente non era più stato per più di due ore nel
dojo, se non per dormire, poichè per il resto le sue
giornate le trascorreva nel centro di Tokio, tra diverse lezioni, di Jermaine e
di altri consigliati da lui, feste, tappa importante e non saltabile a detta
del coreografo, e lavoretti vari.
Diverse volte Takao e gli altri volevano organizzare
qualcosa con lui, ma, anche quando dava la sua disponibilità, poi si era
ritrovato a dover annullare: si sentiva in colpa per questo, ma gli impegni si
affollavano nel giro di pochi giorni, senza troppo preavviso. Una sera
addirittura dovette partire per una trasferta di due giorni con solo dodici ore
di anticipo.
L’agendina di Jermaine si rivelò profetica e soprattutto
utilissima, poiché senza di essa non sarebbe riuscito a far combaciare nulla.
Non ebbe neanche il tempo di chiedersi se non l’avesse fatto apposta.
Un aspetto che lo stupì fu quando, due settimane dopo, il
coreografo gli confidò di non aver più messo nessuna parola per lui se non i
primi giorni e che, quell’improvvisamente interesse, era dovuto esclusivamente
al suo lavoro.
La sua lista di contatti lievitò e la frenesia del tour lo
investì nuovamente: sembrava fatta su misura per lui e questo fu il motivo per
cui, quando Nonno J cercò di riportarlo alla realtà, il mondo che conosceva gli
sembrò ribaltato, tanto da non considerare normalità quello che l’uomo gli
stava offrendo.
-Devo dare una risposta definitiva al preside!-
Kei rimase in silenzio, spiazzato, cercando le parole
corrette.
-Non hai intenzione di provare a finire la scuola, vero?-
-No- disse il russo cercando di sembrare convincente.
-Sei sicuro di questa scelta?- chiese ancora sereno.
Kei si limitò ad annuire, deglutendo –Mi dispiace se..-
-Non devi scusarti.. è la tua vita, hai il diritto di
viverla come vuoi!- continuò l’anziano sorridendo –L’importante è che a te vada
bene!-
Quei minuti surreali furono di nuovo sovvertiti dalla lista
di impegni, ma, nemmeno per un secondo, Kei sentì di aver preso la decisione
sbagliata. L’unica riserva riguardava Nonno J, che aveva messo una buona parola
per lui al riluttante preside e temeva di non avergli dimostrato abbastanza la
sua gratitudine per quel gesto che, ad occhio non attento, poteva sembrare di
poco valore.
-Ehi antipatico!- una voce squillante lo risvegliò dai suoi
pensieri mentre usciva dallo spogliatoio di una delle palestre di Tokio.
Si voltò e si stupì di scorgere Lauren che salutò con un
veloce abbraccio.
-Cosa ci fai qui?-
-Devo tenermi allenata!-
Kei la guardò scettico, poiché era sempre nella sua tenuta
impeccabile con tanto di tacchi vertiginosi ai piedi.
-Non eri in vacanza?-
-Io non sono mai in vacanza!-
-Lauren è arrivato Milo!- spuntò puntualmente la sua solita
assistente.
-Arrivo..- le rispose la cantante, voltandosi poi verso Kei
–Il tuo numero ce l’ho vero?-
Il russo annuì aspettando il seguito.
-Beh, allora se mai sarò libera potremmo vederci per un
caffè!-
-Ok..-
-Se vuoi possiamo anche trovare delle scale così ti senti
più a tuo agio!- continuò lei facendogli la linguaccia ricordando i loro strani
incontri.
-Spiritosa-
Non potè aggiungere altro poiché
l’altra fu portata via, lasciandolo nuovamente alle sue turbe mentali e al
cellulare che, per l’ennesima volta, prese a suonare.
Un altro impegno in arrivo.
Si
svegliò senza troppe pretese, la linea che divideva la realtà dal sogno era
troppo sottile. Niente di ciò che era intorno a lui era abbastanza interessante
e a fuoco da essere preso in considerazione, ma intanto non era quello
l’importante: l’unica immagine perfettamente chiara e rilevante era quel
piccolo astuccio blu, abbandonato chissà quando sopra un tavolino.
Si
mise a sedere faticando più del dovuto e si sporse sul bordo del materasso,
allungando il braccio per afferrare il contenitore e aprirlo. Incrociò le gambe
e iniziò a disporre meticolosamente l’occorrente sul lenzuolo, avvertendo
l’ansia che sopraggiungeva a ogni movimento tanto da costringerlo a velocizzare.
Quella mattina aveva osservato l’ennesimo nuovo soffitto: questa volta color pesca, in tinta con il resto dell’arredamento della stanza, con un lampadario etnico e alquanto strambo. Il materasso era comodo e le coperte emanavano la giusta quantità di tepore. Gli provocò lo stesso effetto piacevole l’attraversare il resto della casa, fino in cucina, dove si era seduto al tavolo cercando di armeggiare con il cellulare: dalla sera prima, quando aveva controllato per l’ultima volta il display, gli erano arrivati tre messaggi, su ognuno dei quali era appuntato un nuovo impegno che doveva marcarsi da qualche parte non avendo con sé la preziosa agendina.
Un
movimento sul materasso gli annunciò che qualcuno si era seduto di fianco a
lui: non avrebbe saputo dire però se questo fosse stato sempre nella stanza o
se fosse invece rincasato solo in quel momento. Nulla aveva importanza fuorché
la sua siringa.
L’avambraccio
teso di Nataliya entrò nel suo campo visivo, disturbandolo, e lo cacciò via
malamente rifiutando quel silenzioso, ma chiaro invito a farle una pera.
-Vuoi deciderti a comprare un cellulare nuovo?- disse la padrona di casa, lasciandogli davanti una tazza di quello che sembrava caffè e latte e dirigendosi verso il frigorifero.
-Mai sentito parlare di consumismo?- la apostrofò Kei –Tra te e Jay non so chi è peggio-
Lauren gli fece la linguaccia, voltandosi nuovamente: il ragazzo non poteva fare a meno di pensare quanto fosse buffa con i capelli in disordine e una maglietta extralarge improponibile, arancione di una delle vecchie edizioni dei Teen Choice Award, tutta un’altra cosa rispetto alla facciata di perfezione che mostrava al mondo esteriore.
Al
secondo tentativo della ragazza, biascicò un –Aspetta- seguito da una serie di
insulti dalla voce roca di lei. Li ignorò, come cercò di ignorare il suo
tentativo di piantargli le unghie nella spalla per attirare nuovamente la sua
attenzione e reclamare quello che, secondo lei, le spettava di diritto.
Eppure
Kei era convinto che fosse lui a dover essere il primo e nemmeno la russa gli
avrebbe fatto cambiare facilmente idea. Fu così che si legò il tubicino di
plastica al braccio, tamponò alla meglio l’incavo del braccio con le dita e
lasciò che l’ago gli penetrasse la vena, iniettando al suo interno l’eroina.
Era trascorso ormai più di un mese dalla fine del tour e gli eventi lo avevano trasportato in una direzione totalmente inaspettata: forse, più che gli eventi, avevano contribuito una bella serata trascorsa insieme, qualche bicchiere di troppo e la sua inclinazione al sesso. Il fatto era che Lauren non aveva obiettato, alimentando quella pazzia che prevedeva incontri, più unici che rari a causa degli impegni, clandestini, il più possibile segreti.
Sentì
un sussurro all’orecchio, non comprendendo il significato di quei suoni, poi un
morbido tocco, le sue labbra probabilmente, che gli sfioravano il lobo, ma
null’altro esisteva all’infuori del piacevole abbraccio della droga, tanto che
non si lamentò quando Nataliya entrò in possesso della siringa.
Si
lasciò cadere disteso sul materasso, ma qualcosa di strano lo terrorizzò: non
faceva più effetto come una volta, provò ad arrabbiarsi nell’annebbiamento di
quei minuti, lamentarsi e maledirsi poiché quella dose non era abbastanza, non
più, ancora.
Su quell’aspetto non sarebbe cambiato facilmente e, a dirla tutta, non era una delle sue priorità in quel momento: non credeva ancora di poter provare amore o cose del genere, nonostante si fosse incamminato sul sentiero tortuoso della guarigione, e non voleva impelagarsi in una relazione seria con un personaggio pubblico. Era già abbastanza sotto i riflettori per conto suo.
Bevve il restante contenuto della tazza, mettendo via il cellulare, quando sentì un peso sulla testa e dei capelli biondi invadergli la visuale.
-A che pensi?- chiese Lauren che, alle sue spalle, aveva intrecciato le dita sulla nuca del ragazzo, poggiandovi poi il mento.
Dei
capelli corvini gli sfiorarono il viso quando Nataliya si cacciò al suo fianco:
non esistevano altro che lui, il suo malessere, le sue botte altalenanti di
tranquillità e timore, le dita della ragazza che si intrecciavano alle sue e
immagini confuse di un rifugio che faceva male proprio per quanto fosse
surreale. Solo qualche attimo e tutto ciò si fece appannato, fino a scomparire.
Come racchiudere un vorticare frenetico di immagini in poche parole? Pensava alla loro tresca e agli impegni che gli si prospettavano nelle ore a seguire: aveva in mente la palestra dove insegnava Jermaine, quella dove doveva provare per il suo nuovo ingaggio, le lezioni di ogni branca dell’hip hop e quelle di Jazz sulle quali Jay insisteva, i pranzi, le cene, le feste, le audizioni. Se non era vita quella, non sapeva dove altro andare a cercarla, ma soprattutto non riusciva a trovare qualcos'altro che per lui corrispondesse a vita, la sua vita.
Lo aveva negato, vi si era nascosto, aveva avuto problemi a pronunciarlo, ma ormai si era dovuto arrendere all’evidenza: lui era un ballerino e come tale avrebbe vissuto finché ne avesse avuto la possibilità. Quindi a cosa pensava? Prese un respiro prima di rispondere.
-Che sto bene-
“Era il mio credo, il mio bisogno,
le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto.
Solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della
mia timidezza, della mia vergogna. Ero con l’universo tra le mani, e mentre ero
a scuola, studiavo, in ogni momento, qualsiasi cosa facessi, la mia mente
sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria..
..ringrazio di possedere un corpo
per danzare cosicché io non possa sprecare neanche un attimo del meraviglioso
dono della vita.”
FINE..
Discorso di Commiato Time
La
cosa che mi conforta è che ho ancora un po’ di righe di commento adesso perché,
non appena ho scritto la parola FINE, mi è salito il magone!
Intanto
spieghiamo il perché di quei puntini: come vi ho sempre detto Leggero è solo
una piccola parte di una storia infinita, per questo mi sembrava doveroso darle
un senso di continuità, nonostante il pezzo che ne verrà dopo non lo scriverò.
Ma che
ne dite di tirare un po’ le somme?
Sono
passati due anni nella cronologia del racconto, il secondo più veloce del
primo, ma pur sempre due anni nei quali ne sono successe di cose e nei quali il
nostro protagonista è cambiato. Per noi, invece, sono trascorsi undici mesi, né
più né meno.. dal 17 dicembre 2010, dritti dritti
fino al 18 novembre 2011, sono state 49 settimane per 46 capitoli: innanzitutto
vado fiera di essere riuscita nel mio intento di pubblicare con regolarità (se
non contiamo un disguido alla terza settimana e la piccola pausa di agosto)
poiché mi ero ripromessa di non farmi attendere e così è stato. Sono successe
tantissime cose da quando è iniziata questa avventura: è stato qualcosa di
improvviso, che capitolo dopo capitolo ha raccolto persone di ogni genere. Lo
so, forse è stata un’impresa titanica, potreste dire che mi è sfuggita dalle
mani, che è durata troppo, ma la verità è che così doveva essere. Avrei potuto
interromperla in altri momenti, ma sapevo che, a seconda di dove sarebbe
terminata, avrebbe acquisito un significato diverso.
Guardando
indietro credo che molte cose avrei potuto svilupparle meglio, come per ogni
cosa, ma a dirla tutta, poteva anche uscirmi di peggio: mi sono maledetta
diverse volte per essermi imbarcata in questa impresa, per non aver prima
completato di scriverla e poi, solo dopo, decidermi a pubblicare, ma in quel
caso sarebbe uscita sicuramente diversa e non per forza migliore.
L’ultima
parte comunque è stata la più difficile, nonostante fosse quella che sentivo
più vicina, ma la spiegazione è presto detta: è fatta di immagini. Le parole a
volte non sono il mezzo più efficace, anzi in questo caso erano il più
complicato, ma ho comunque fatto del mio meglio.
Altra
puntualizzazione sta nella frase che conclude questo capitolo e che avevate già
trovato nei primi undici: è l’unica non di Ligabue e non vi ho mai dato troppe
spiegazioni proprio perché parla da sola. E’ tratta da ‘Lettera alla danza’ di
Rudolf Nureyev, leggermente modificata per adattarla alla storia: consiglio
personale è di andare a leggerla se ne avete voglia.
Come
dicevo, comunque, in questi undici mesi sono successe tantissime cose, ci sono
stati alti e bassi, con alti rari e bassi che toccavano i minimi storici, credo
di ricordarmi esattamente ogni capitolo quando è stato scritto e con che umore,
per non parlare di tutto quello che è cambiato (vi assicuro che la lista
sarebbe lunghissima) e, se guardo indietro, devo solo che ringraziare della
presenza di Leggero. Iniziamo quindi da qui la lista di ringraziamenti..
Grazie a Leggero, la
fanfiction che mi ha dato gioie, dolori, patimenti,
risate e tanto, troppo ancora, che mi ha accompagnato in lungo e in largo, che
mi ha dato una distrazione, un obiettivo, e la canzone che ha dato un nome a
tutto un periodo (il mio personale Leggero Time)..
Grazie a Ligabue, di
conseguenza, per aver condiviso la sua musica e il suo mondo, perché le sue
parole sono state d’ispirazione..
Grazie a Trenitalia,
ebbene sì, prima e ultima volta che accadrà di ringraziarla, perché Leggero è
nata tra i vagoni, ad ogni ora del giorno, dalla mattina presto, all’ultimo
treno della giornata, tra i mille ritardi e quant’altro che mi hanno dato il
tempo e lo svago di creare questo mondo..
Grazie ai restanti
mezzi di trasporto, da autobus ad aerei, fino alla mia macchinina, perché
Leggero ha viaggiato su tutti questi..
Grazie alle mie
cuffie che hanno trasmesso la musica, fondamentale carica e fonte di tutto..
Grazie a scrittori,
registi e quant’altro presso i quali mi sono informata per non scrivere
cavolate (nonostante alcuna sia scappata comunque)..
Grazie alla danza..
e su questo non ci sono parole..
E qui
arriviamo al clou..
Grazie alle
persone che mi stanno attorno, che inconsapevolmente sono protagoniste di
Leggero, perché loro hanno vissuto, hanno provato, hanno respirato, hanno
danzato e soprattutto hanno condiviso le loro esperienze dandomi il sentore di
un mondo che altrimenti non avrei saputo ricostruire e perché in Kei e in
Jermaine c’è un pezzo di loro..
Grazie ai
lettori che hanno commentato sin dall’inizio e che mi hanno aiutato ad arrivare
fino a qui e mi hanno ispirato tanto che, probabilmente, alcune delle parti più
belle di questa storia sono venute così grazie alle loro recensioni..
Grazie ai
lettori che sono stati in silenzio, perché ogni giovedì notte, per mesi, anche
quando ritardavo, erano lì davanti al loro pc/cellulare/robochesiconnetteainternet
a far lievitare il numero delle visite al capitolo nei primi dieci minuti di
pubblicazione..
Grazie a
tutti quelli che hanno iniziato a leggere, per poi abbandonare la storia, per i
più svariati motivi, perché è sempre un fattore di conoscenza in più..
Grazie a
quelli che si sono emozionati, hanno vissuto queste righe, si sono annoiati,
sono rimasti delusi, hanno pianto, hanno riso, mi hanno mandato a cagare..
Grazie a
tutti quelli che non hanno capito, che non capiscono, perché così ho potuto
realizzare quanto io invece sia fortunata a riuscirci..
Grazie a
Hiromi, perché è stata la prima lettrice che ho
conosciuto, colei che mi ha aperto le porte della persona oltre il nickname, della
quale ho aspettato per mesi in trepidante attesa il commento e con la quale mi
diverto sempre a chiacchierare..
Grazie a
Lily perché.. all’inizio non lo avrei mai detto, non avrei
mai scommesso neanche un centesimo su questo, eppure è diventata una presenza
importante che con il suo modo di fare mi ha conquistato..
Grazie a
SunsetBoulevard perché è stata la prima cavia che ha sperimentato Leggero e
che mi ha donato un po’ della fiducia che mi serviva per pubblicare e dare vita
a tutto questo, che si è sorbita tutti i miei scleri durante i viaggi in
macchina e non solo..
Grazie a
Aphrodite perché è stata sempre sincera, mi ha riempito il cuore con
alcune sue recensioni, mi ha fatto crollare come un castello di carta in altre,
che si è appassionata al lato più sommerso della vicenda dandomi tante
soddisfazioni..
Grazie a
Padme che è La recensitrice di tutti,
ma proprio tutti, i capitoli di Leggero..
Grazie
a Avly, Nena Hyuga, Charlene, Halley Silver Comet, Dark Hiwatari, SouLenzi,
Lady Kiryu, Lenn Chan, Nika_night, scarlettheart, Dark_Fairy92, LoveDolphin, Hilly89, luna di perla,
B r e e, HeartInRussia,
Iria, Faith Yoite,
keri, per aver commentato più o anche solo una
volta..
Detto
questo vi chiedo solo un ultimo sforzo, ora che apparirà la parola ‘completa’
lasciate l’ultimo segno del vostro passaggio, ditemi quello che ne pensate, che
siano cose belle o brutte, pubblicamente o in privato, ma fatemi sapere.. ci
tengo!
Ora
finalmente posso piangere!
Un
bacione :)
♫ Leggero,
Nel vestito migliore
Senza andata né ritorno, senza destinazione
Leggero,
Nel vestito migliore
Sulla testa un po’ di sole ed in bocca una canzone ♫