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Autore: Eloise_Hawkins    14/12/2011    2 recensioni
Una raccolta di ricordi che si snoda tra le pagine di una vita vissuta con tenacia e affetto. Un'accozzaglia di giorni che narra di una crescita delicata, felice, a tratti sofferta, ma tutto sommato serena. Tra risate e coccole, tra lacrime e dolori, si svolge la vita di Chiara, la protagonista di questa storia, che con un sorriso a volte dolce, a volte amaro, racconta la vita che i suoi genitori le hanno regalato, l'affetto che la sua famiglia le ha donato, il sorriso che ha faticosamente costruito. Sempre all'insegna dell'amore, e del forte legame famigliare che Cinzia e Mauro hanno saputo creare.
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo.
A mia madre, perché nei suoi occhi ho imparato la fantasia.
A mia nonna, perché attraverso i suoi racconti ho capito la vita.
Ai miei folletti, Renata e Irene, che mi hanno tenuto per mano fino ad oggi, in questo girotondo chiamato vita
.
Questa storia si è classificata prima al contest "L'alfabeto dei ricordi", indetto da Angy Lulu sul forum di Efp.
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Thanks for the memories'
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D come disillusione

 

Otto anni – Delusioni

 

Quando Cinzia varcò la soglia di casa, la prima cosa che vide fu sua figlia Chiara. Era seduta sul divano, le braccia incrociate sul petto e un’espressione corrucciata sul visetto infantile. Nonostante quella smorfia, i suoi occhi erano tristi: sembrava più mortificata che arrabbiata, e la donna rimase a guardarla per lunghissimi minuti, incuriosita da quell’atteggiamento inatteso. Ogni tanto la bimba sospirava, ma non accennava a muoversi: rimase in quella posizione per tutto il tempo, e quando udì i passi di sua madre avvicinarsi, non distolse lo sguardo da quel punto immaginario della sua mente su cui era tanto concentrata.

Cinzia si sedette accanto a lei, ma non parlò, né la toccò: un po’ perché temeva la sua reazione, e aveva paura di rompere quella fragile bambolina nervosa; un po’ perché il freddo intenso di Dicembre le aveva gelato le dita, e non voleva imprimere sulla pelle delicata della bambina quella temperatura rigida che le aveva punto i polpastrelli. Ma Cinzia non ebbe bisogno di muoversi, né di dire nulla: fu sua figlia a parlare per prima, facendole un’unica, limpida domanda.

«Non esiste, vero?» La sua voce sembrava profondamente infastidita per qualcosa che sua madre non intuì subito, nemmeno dopo che quelle parole le raggiunsero il cervello. Chiara non l’aveva guardata: continuava a fissare dritto davanti a sé, il visetto contratto in una smorfia e le braccia conserte sul petto. La sua testolina quasi scompariva, ingoiata dalle spalle sottili e ossute, alzate a coprire il capo ricciuto. Quando, dopo molti minuti di silenzio, si voltò verso Cinzia, non potè fare a meno di innervosirsi nel notare quell’espressione perplessa e curiosa che si era dipinta sul volto della madre.

«Babbo Natale» precisò con tono scontroso. Il viso della donna si illuminò di consapevolezza, e il suo cuore cominciò a battere forte per la delusione di ciò che aveva appena sentito.

Babbo Natale. La bugia che tutti i bambini si vogliono sentir dire, l’illusione magica di un entusiasmo sognante. La rappresentazione di un mondo migliore, più buono e altruista, e la dimostrazione che la magia esiste, basta solo crederci.

Cinzia aveva cercato per anni di alimentare quel dolcissimo inganno, giocando di fantasia e vivendo di ricordi – quelli della sua infanzia. Solo l’anno prima aveva sbriciolato davanti l’albero di Natale i biscotti al cioccolato che le loro figlie avevano lasciato per quell’omone vestito di rosso che non sarebbe mai venuto a consumare il buon pasto. Ma lei non si era lasciata intimorire dall’idea entusiastica delle bambine, e aveva anzi incoraggiato il loro ardore, suggerendo cosa offrire al vecchio, e dove lasciare i biscotti e il latte. Poi, quando loro non guardavano, aveva svuotato il bicchiere di latte dentro il vaso delle stelle di Natale, e aveva lanciato molliche marrone scuro sul pavimento, per poi rimettere i biscotti dentro la scatola. Infine, aveva preso un tovagliolino di carta, e l’aveva tagliato in modo da mimare il morso di una renna. Il morso di una renna, figurarsi: non ci sarebbe mai entrata, davvero, una renna nel salone. Ma quando le sue figlie l’avevano visto le loro espressioni, le loro urla di gioia e quell’entusiasmo selvaggio e feroce, avevano ripagato ogni sforzo. La loro felicità valeva la pena di qualsiasi bugia.

Ma Chiara, a quanto pareva, non era dello stesso parere: se ne stava lì, immobile e arrabbiata, a fissare il vuoto con le sopracciglia aggrottate e il labbro inferiore sporgente. Le guance gonfie, proprio come una bambina cocciuta.

«Chi te l’ha detto?» domandò pacatamente Cinzia, cercando di aggirare l’ostacolo che le si era posto davanti, e sperando così di addolcire l’umore della figlia. Quella sembrava non avesse aspettato altro: scattò in piedi, e spalancò le braccia e gli occhi castani in un chiaro gesto di esasperazione.

«Una supplente! È venuta nella nostra classe e ha detto che siamo troppo grandi per crederci» urlò, attirando l’attenzione di Renata, che si era rinchiusa nella sua cameretta a giocare, e che richiamata da quelle grida isteriche aveva sporto la testa oltre lo stipite della porta, spiando quella discussione. «E Laura mi ha preso in giro perché già lo sapeva!» sbottò arrabbiata la bimba, che non si era accorta della presenza importuna della sorella. Chiara spalancò le braccia, agitandole in aria, e gesticolando in modo buffo, con cenni ampi che esternavano tutta la sua frustrazione.

Sua madre strinse le labbra, e la guardò con un’espressione tristissima sul volto. Sapeva, in fondo, che sarebbe arrivato questo momento; era già giunto con la prima, che si era rivelata un aiuto prezioso nei Natali a seguire; ma che già anche la seconda avesse raggiunto quella maturità malinconica in cui i sogni e le illusioni infantili lasciano il posto alla crudele realtà, era una cosa che ancora non riusciva ad accettare. Invidiava la spensieratezza entusiasta con cui le sue figlie scartavano i regali durante quei magici momenti strappati a un mondo troppo spietato. Smettere di credere in certe, meravigliose bugie, significava abbandonare le braccia dell’infanzia per addentrarsi nei territori più oscuri della coscienza adulta. Era un primo svezzamento a cui nessuno si poteva sottrarre.

Cinzia non annuì, né negò quello che Chiara aveva già detto. Ma il suo silenzio fu per la figlia una conferma. Il suo visetto arrossato sembrò sciogliersi: si sgretolò quella rabbia incredula, andò in pezzi la sorpresa che le aveva corrotto il cuore. Semplicemente, su quel volto dai tratti infantili si disegnò un’espressione di sincera, stanchissima delusione.

Da quel momento, niente sarebbe più stato come prima. Chiara si era scontrata per la prima volta con il mondo degli adulti, quell’universo fatto di bugie a fin di bene e attenzioni in punta di piedi, ma pur sempre crudele e irrispettoso nei confronti dei sentimenti di una bambina di soli otto anni.

E da quello scontro ne era uscita sconfitta.


 

 

   
 
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