F
come fantasia
Nove anni – La
gincana
C’era un
fitto chiacchiericcio, quel pomeriggio, nel giardino che aveva visto nascere
Chiara, un brusio delicato ed allegro, che riempiva l’aria di parole e risate.
Erano passati esattamente nove anni da quel lontano giorno di Luglio in cui la
bimba era venuta al mondo, e come la tradizione vuole, i suoi genitori avevano
organizzato una festa per rendere onore a quel giorno speciale che aveva
cambiato loro la vita. Cinzia, in particolare, da madre fantasiosa e unica qual
era, aveva sperimentato nuovi giochi divertenti per allietare il pomeriggio dei
partecipanti. Una caccia al tesoro sarebbe stata troppo banale per una come
lei, così aveva ideato una cosa diversa, più complicata e assolutamente folle:
una gincana.
«I maschi non servono, le femmine amano la luna
piena. Uno me ne devi portare se il gioco vuoi continuare» recitò Cinzia ad
alta voce. Attorno a lei si erano assiepati così tanti bambini che contarli era
impossibile: erano tutti gli amici di Chiara, o i suoi conoscenti, o chi, come
lei, aveva scelto Brucoli come luogo di vacanze per la propria estate. Le loro
madri erano sedute in disparte, chiacchieravano tra di loro e ridevano nel
vedere l’enfasi divertita con cui l’organizzatrice interpretava gli indizi che
lei stessa aveva ideato.
Non appena
Cinzia finì di parlare, sua figlia, con gli occhi brillanti di furbizia e
gioia, scattò. Chiara era cresciuta nel mare, e nel mare era quasi nata. In
più, condivideva con la mamma sette anni di emozioni, nonché un’empatia che le
rendeva tanto simili quanto in sintonia. Per cui non c’è da sorprendersi se
intuì subito quell’indovinello. Ricordava ancora quando, appena un anno prima,
suo padre l’aveva portata sul molo durante una notte di luna piena e le aveva
mostrato come le femmine di riccio di mare amassero la luce lunare, e grazie a
quella uscissero fuori dai propri nascondigli. In fondo, aveva solo nove anni
di vita da tenere a mente. Per questo motivo, appena finito di leggere schizzò
verso le scale che portavano al molo, sotto lo sguardo attento e curioso sia
dei suoi compagni di squadra, sia degli avversari, che pur non capendo
l’indovinello, la seguirono per accertarsi di non perdere.
Chiara
correva, e mentre correva si spogliava: via la maglietta, giù la gonna,
lanciate chissà dove le scarpe – sarebbe stato difficile individuarle, una
volta finita la gincana, per riappropriarsene. Per fortuna la mamma aveva
comunicato a tutti che per i giochi sarebbe servito il costume, e lei lo aveva
già sotto i vestiti. Di sicuro, anche nuda, non si sarebbe fatta problemi a
tuffarsi in mare, né avrebbe provato vergogna davanti ai suoi amichetti – era
ancora troppo piccola perché il senso del pudore fosse sviluppato in lei. Senza
fermarsi, si tuffò in mare provocando schizzi rumorosi e destando lo stupore
dei suoi amici. Riemerse solo per prendere fiato, e poi sparire di nuovo,
inghiottita dall’oceano. Sott’acqua, tutti i suoni erano ovattati: c’era un
silenzio mobile e liquido, e anche se la sua vista era offuscata, anche se gli
occhi le bruciavano, Chiara, abituata sin da piccola a nuotare e trattenere il
fiato, non tardò ad individuare il riccio di mare, tesoro sepolto sotto un
breve strato di sabbia e incastonato in un piccolo buco di uno scoglio. La
bimba allungò una manina, e con estremo sprezzo del pericolo, infilò le ditina sottili tra le spine dell’animale; lo estrasse con
cura dal suo nascondiglio, strappandolo al sasso a cui era ancorato, ben
attenta a non pungersi. Poi riemerse, stringendo con delicatezza il suo trofeo
nella manina. Corse dalla sua mamma e glielo porse, sul volto un sorriso
vittorioso.
«Non è cacca» disse subito Cinzia, pronta
a dare il secondo indizio. A quelle parole, tutti i bimbi scoppiarono a ridere.
«Mamma, ma
cosa dici?» La risata fresca e cristallina di Chiara ruppe il brusio delicato
che quel pomeriggio aleggiava nel giardino, baciato dalla luce del sole. Cinzia
sorrise, poi riprese come se niente avesse interrotto le sue parole.
«Non è cacca, ma lo stesso non la puoi
toccare, nel mare la devi cercare» Concluse con un sorriso, per poi riporre
nella tasca dei jeans il biglietto su cui aveva scritto l’indovinello. Sua
figlia rise, con la sua solita risata sguaiata, poi, come prima, scattò verso
il molo, intuendo quel che sua madre richiedeva. I suoi compagni, fiduciosi e
consapevoli delle sue capacità intuitive, la seguirono ridendo, mentre i suoi
avversari tornavano adesso dall’oceano con un riccio di mare stretto in mano:
lo maneggiavano con cautela, come se fosse avvelenato, e non possedevano quella
disinvoltura con cui, invece, la festeggiata l’aveva estratto dalla sua roccia
per poi portarlo a sua madre.
Un passo
avanti ai suoi rivali, Chiara scese di corsa le scale. Stavolta non ci sarebbe
stato bisogno di tuffarsi: gli asini di mare – anche se a lei piaceva molto di
più il nome volgare di “cacca di mare” – si lasciavano trascinare dalla
corrente e trovavano infine quiete nelle acque basse. Avevano esattamente la
forma di un cetriolo, tozza e allungata, ma dato il colore marroncino alla
bimba ricordavano di più gli escrementi, e la voce popolare le suggeriva
quell’appellativo per lei divertente. Senza nemmeno una smorfia, quando ne
individuò una si abbassò e la prese tra le mani, per poi correre di nuovo verso
la sua mamma, agitando l’animale e permettendo così ai suoi avversari, anche se
inconsapevolmente, di risolvere il prossimo indovinello.
Chiara
depose l’asino di mare nella bacinella che sua madre aveva disposto al centro
del giardino, dopo averla opportunamente riempita con dell’acqua salata, così
da permettere la sopravvivenza dei poveri animaletti prescelti per le prove.
«Brava
Chia!» la incoraggiò Cinzia, sorridente: era fiera di sua figlia, del suo
intuito e della sua temerarietà; di quella vulcanica energia che sprizzava da
ogni poro del suo piccolo essere, soprattutto da quegli occhi a mandorla che,
chissà come, aveva ereditato da suo padre. «Siete pronti per il prossimo?»
domandò con plateale allegria la donna, sventolando con fare teatrale il
foglietto che conteneva il prossimo indovinello. Un coro di divertiti “sì”
seguì quella domanda. Cinzia esitò qualche altro istante, nel tentativo di dare
un piccolo vantaggio agli avversari, che ancora non erano tornati dalla seconda
missione. «È il polmone del nostro mare,
e giammai la devi strappare. Solo oggi, senza strafare, una sola, ma fresca, ne
devi portare» recitò infine, pronunciando con lentezza quasi esasperante
quelle parole.
Chiara,
questa volta, rimase immobile. Le occorsero un paio di minuti per riflettere su
quel nuovo indovinello. Voltò lo sguardo verso il suo papà, e non appena
incontrò i suoi occhi sorridenti ebbe l’illuminazione e, per la terza volta,
corse verso il molo più veloce del vento. Nella sua mente echeggiavano le
parole di suo padre, che durante una delle loro solite gite in gommone le aveva
spiegato di come la posidonia, alga ormai sempre più rara nei nostri mari,
fosse incredibilmente importante per l’ecosistema marino, essendo produttrice
d’ossigeno; ed era, al tempo stesso, quasi a rischio di estinzione a causa di
tutte quelle persone che la strappavano per puro divertimento.
La bimba,
seguita dai suoi fedelissimi compagni di squadra, percorse di corsa la
lunghezza del molo e giunta all’estremità si tuffò di nuovo, schizzando i suoi
amici e suscitando le loro divertite risate. Quanto più velocemente possibile,
si allontanò dalla riva per raggiungere l’acqua più alta, laddove l’alga
cresceva. Non ebbe nemmeno bisogno di immergersi: la posidonia accarezzava la
superficie del mare ondeggiando con lentissima grazia al ritmo delle onde
oceaniche. Chiara, con delicatezza, ne strappò una, ed una soltanto, e poi, con
quel piccolo tesoro stretto nel pugnetto, nuotò fino alla riva, e una volta
arrampicatasi di nuovo sul molo, senza preoccuparsi del rischio di scivolare o
di quello ben peggiore di un brutto raffreddore, ancora gocciolante corse verso
il giardino: salì i gradini che portavano al piano superiore a due a due, e poi
saltellò davanti alla sua mamma sventolando l’alga con espressione trionfante.
«Il plossimo, il plossimo» urlò
eccitata, strappando a sua madre un sorriso di puro amore. Cinzia non perse
altro tempo, acconsentendo subito alla richiesta della bimba.
«Adamo ed Eva usavano le foglie. In piena
estate mamma li coglie; con il prosciutto a molti piace, portamene uno se non
ti dispiace» disse ad alta voce, con enfasi, al fine di recitare al meglio
la sua parte. Dopo aver pronunciato quest’indizio, spostò gli occhi su sua
figlia, che aveva assunto un’espressione incerta.
«A me mi
dispiace» disse lei a bassa voce, delusa che l’indovinello non riguardasse
ancora il mare, e dispiaciuta perché non era stata capace di risolverlo
immediatamente, come gli altri. Tanto più che, proprio in quel momento, i suoi
rivali stavano tornando dal mare con un’alga stretta nel pugno.
«Non si dice
a me mi. Dai che sei avanti» la incoraggiò sua madre, sospingendola verso il
frutteto di casa loro. Era un indizio silente, ma che Chiara gradì fortemente,
perché la voltò proprio in direzione dell’albero di fichi, e quando i suoi
occhi accolsero quell’immagine brillarono, e lei di nuovo, ancora umida e con i
piedini nudi, riprese a correre. Non gli importava nulla della terra sotto i
piedi, delle pietre che le ferivano le piante o dei ramoscelli che le
graffiavano la pelle: era così intenta nel suo compito, in quella caccia al tesoro
così diversa dalle altre, che non esitò nemmeno per un attimo. Raggiunse
l’albero, e alzandosi sulla punta dei piedini – come aveva imparato durante le
assidue lezioni di danza – ne raccolse uno. Una piccola lacrima di latte bianco
scivolò fuori dalla punta del piccolo frutto, e sporcò il palmo della mano
della bimba, che tuttavia ancora una volta ignorò quella sensazione, per
lanciarsi verso sua madre così da porgerle il trofeo appena conquistato.
Cinzia, soddisfatta anche se segretamente colpevole, annuì compiaciuta e poi
prese il foglio su cui aveva appuntato gli indovinelli e, come aveva già fatto
precedentemente, recitò ad alta voce il prossimo indizio: «Ripara dal sole, per moda piace a tante, e ne esiste persino uno
parlante»
Chiara fu
ancora una volta delusa nel constatare che anche quell’indizio non riguardava
l’oceano, ma fu ugualmente contenta di notare, a pochi metri da lei, un
neonato. Era seduto sul passeggino, e agitava con le manine paffutelle un
bicchiere di plastica, come fosse un gioco estremamente divertente; e indossava
un cappellino di stoffa che serviva per ripararlo dal sole cocente di quel
pomeriggio. La bimba fece qualche passo verso di lui, e poi gli strappò dalla
testa l’indumento; stava per andarsene, quando un pensiero premuroso le
attraverso la mente: ebbe la cura di spingere il passeggino all’ombra,
ignorando però i vagiti infastiditi del bimbo. Sua madre le rivolse un’occhiata
di rimprovero quando lei le porse con espressione furba e sorniona il
cappellino: lo restituì al neonato, e solo dopo aver dato a sua figlia un
piccolo buffetto sulla nuca, per punirla di quel gesto sconsiderato, pronunciò
ad alta voce l’ultima richiesta.
«Bravi siete alla fine: adesso dovete
procurarvi un autografo di una di queste persone, ma attenzione: non tutte le
firme valgono uguale. Quella di Brunella Senargiotto
vale 15 punti; quello di Marina Malato vale 10 punti; quello di Nora Greco vale
8 punti; quello di Benedetto Signorelli vale 6 punti».
Cinzia
depose per l’ultima volta il foglio di carta nella tasca dei jeans, e osservò
con il cuore in gola sua figlia, che correva verso il cancello d’uscita, in
direzione di una delle case dei diretti interessati. Lei, invece, si diresse in
cucina, e dopo aver aperto il frigo, ne estrasse una torta che aveva preparato
lei stessa: l’aveva glassata con gelatina azzurra, poggiandovi sopra delle
conchiglie di cioccolato e raffigurando così il mare che sua figlia tanto
amava. Prima di portarla in giardino, per esporla alla vista di tutti, vi
inserì le candeline. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove.
Nove anni.
Chiara stava
proprio crescendo. Forse troppo in fretta.