A come amore
Dieci anni – La
rabbia di Mauro
Bronte, ore 10:54.
Mauro
aveva gli occhi lucidi, ma per fortuna il riverbero degli occhiali impediva al
pubblico di vedere la sua commozione. O forse il suo dolore.
Chinato
su quell’uomo, ne teneva tra pollice e indice l’esile polso, privo di battito.
Carmelo Fusco aveva ottantadue anni quando il neurologo gli diagnosticò una
malattia nervosa degenerativa; a distanza di tre anni, si spense.
Sua
moglie, accanto a lui, gli teneva l’altra mano, quella non impegnata dal
medico, e piangeva con fortissimi singhiozzi disperati la sua perdita.
«Me
l’avete ammazzato, me l’avete ammazzato» continuava a ripetere tra una lacrima
e l’altra, e lanciava occhiate torve e cariche di dolore e disprezzo a Mauro,
che manteneva lo sguardo fisso su quel volto rigato da una ragnatela di rughe,
e immobile nella stasi della morte.
Era
arrivato troppo tardi: quando era giunto presso il civico 91 di Via San
Bernardo, Carmelo era già passato a miglior vita, senza che sua moglie se ne
fosse accorta. Non era la prima volta che a Mauro moriva un paziente, ma era la
prima che si scontrava con un dolore così palpabile, e la recente perdita del
padre aveva contribuito a renderlo più sensibile sotto molti punti di vista,
specie quello della morte. Sapeva che, in quanto medico, avrebbe dovuto
mantenere una distanza e una freddezza che gli avrebbero consentito di non
provare dolore per pazienti sconosciuti; ma in quel frangente, non riuscì a
mantenere il controllo.
Quando
chiuse la porta di quella casa, scoppiò in lacrime
Casa Finocchiaro, ore 21:44
Chiara
aveva appena indossato la sua camicia da notte preferita. Gliel’aveva regalata
sua madre ormai quasi tre anni prima, ed era talmente consumata che aveva già
cominciato a mostrare i primi segni di cedimento. Era strappata all’altezza del
collo, e aveva l’orlo scucito. Il rosa di cui era tinta la stoffa era talmente
scolorito da sembrare bianco, in alcuni punti.
Mauro
le aveva detto più volte di buttarla, ma lei non l’aveva mai ascoltato: le
piaceva troppo per rinunciarvi.
Cinzia
era a danza, e Mauro era stato costretto a preparare la cena. Con nervosismo,
la mano tremante e il labbro che di tanto in tanto fremeva al ricordo di quella
mattina, aveva rotto un piatto, sbattendolo forte contro la tavola, quando si
era reso conto che non c’era nulla di pronto: non aveva voglia di cucinare;
voleva solo far finire al più presto quella pessima giornata. Ma aveva tre
figlie a cui pensare, anche se mai come quella sera gli era pesato fare il
padre.
Avevano
finito di cenare da poco meno di un’ora. La tavola era ancora colma di piatti,
nonostante Mauro avesse detto alle due figlie maggiori di sparecchiare. Quando,
dopo una salutare e rifocillante sigaretta, fumata nella penombra del suo
bagno, tornò in salone e si rese conto che Renata e Chiara non avevano obbedito
alla sua richiesta, la rabbia deflagrò in tutta la sua devastante protesta.
Chiara
ne sentì i passi pesanti, prima ancora di veder comparire il suo viso da dietro
lo stipite della porta. Mauro urlava, ma lei non riusciva a capire cosa stesse
dicendo: era troppo concentrata a osservare il suo volto contratto dalla
collera. Era rosso, e lei poteva vedere la vena del suo collo pulsare
pericolosamente.
Mauro
la prese per un polso con forza, e la strattonò bruscamente. Tutto ciò che
riuscì a cogliere Chiara furono alcune parole che, prima ancora che
dispiacerle, la terrorizzarono.
«E
buttala questa camicia da notte» Era un urlo di rabbia così potente e
spaventoso, che la bimba si chiuse a riccio su stessa, stringendo le spalle tra
di loro e incavando la testa sul collo. Ma non servì. Suo padre le afferrò il
colletto della camicia da notte, e lo tirò forte, con una violenza devastante:
la stoffa si squarciò con un suono straziante, e tanta fu la brutalità con cui
l’uomo compì quel gesto, che Chiara perse l’equilibrio e si trovò a ricadere
tra le braccia di suo padre. Ma questo volta, ad accoglierla, non trovò il
caldo abbraccio paterno, bensì la voracità di un mostro che non riconosceva più
e di cui aveva paura.
Vergognata
dalla sua improvvisa nudità, Chiara raccolse il lembo penzolante della camicia
da notte e cercò di coprirsi il petto, sebbene non avesse ancora forme da
celare; poi, terrorizzata da quella reazione, si scostò subito dalle braccia di
suo padre e cercò di sfuggire alle sue grinfie.
Fu
in quel momento che sentì la porta di casa aprirsi, e con un salvifico pianto
si gettò tra le braccia di sua madre, appena tornata dalla sua attività ludica.
Lei la abbracciò, senza fare domande, e vide in quel momento suo marito
comparire da dietro la porta della stanza delle bambine: aveva sul volto una
traccia di quella rabbia, ma quella collera violenta era stata sostituita da
un’espressione mortificata, e sorpresa per il suo stesso comportamento.
«Io non ti permetto di fare una cosa del genere a mia figlia»
Mamma urlava. Era la prima volta che li sentivo litigare così
forte. Ed era colpa mia.
Questo pensiero mi uccideva: mi sembrava l’apocalisse. Si
erano chiusi nella loro camera, e io mi ero accucciata dietro la porta serrata,
e ascoltavo quello che dicevano. In realtà, parlava solamente la mamma;
veramente, più che parlare gridava. Sembrava folle di rabbia; chissà cosa aveva
pensato. Papà non aveva nemmeno avuto il tempo di spiegarsi, e mamma era
saltata subito alle sue conclusioni.
Quella litigata durò qualche minuto, ma a me sembrarono ore.
Quando sentii il silenzio teso della fine svuotare l’aria di attesa, scappai
nella mia stanza. Mamma mi raggiunse lì, pensando che dormissi. Mi rimboccò le
coperte e poi si accucciò accanto a me. Si addormentò dopo ore, ma io, tra le
sue braccia, mi sentivo scomoda e non riuscivo a dormire. Avevo gli occhi
aperti e pensavo alla tragedia che si era consumata per causa mia.
Non so quanto tempo passò, prima che prendessi quella
decisione. Scivolai lentamente dal letto, attraversai il corridoio e aprii
piano la porta della camera dei miei genitori. Papà era sveglio, forse
aspettava la mamma. Non so cosa provò quando vide la mia minuscola sagoma stagliata
contro la luce del corridoio. Entrai in camera sua, mi arrampicai sul letto e
lo abbracciai. Fui costretta a superare la paura che avevo provato qualche ora
prima, perché quest’ultima era molto più debole del mio amore per lui. L’avevo
temuto per la prima volta, in un modo feroce e selvaggio che non aveva fatto
altro che accrescere il mio affetto.
«Ti voglio bene» dissi.
«Anche io, amore. Scusa»
Ci addormentammo così. Non ricordo cosa successe la mattina
dopo.