O come oceano
Undici anni
– Delfini
Il mare era
una tavola liscia, quel giorno: non un’onda ne increspava la superficie. I raggi
del sole si bagnavano in quella distesa blu, riverberando in quell’aria fresca
dall’odore salmastro.
Quando li
videro la prima volta, erano tutti insieme. Il motoscafo filava rapido,
fendendo l’acqua e dividendola, come una lama impietosa, in due metà
morbidamente divise da quella punta d’acciaio. Fu Irene ad avvistare la pinna
un po’ sbreccata e ferita del capobranco.
«C’è
qualcosa lì» La bimba indicò una barca a vela poco distante, che veleggiava
placidamente sulla superficie liscia del mare. E lì, laddove la chiglia della
barca baciava l’acqua, appariva e scompariva una pinna. Poi due. E infine, tante che non si potevano contarle.
Erano
delfini; delfini a perdita d’occhio, fin dove lo sguardo poteva coglierne.
Nuotavano, attirati dal suono senza rumore con cui la barca a vela navigava;
giocavano con la punta di quella nave, e i suoi occupanti ridevano estasiati.
All’inizio, rimanemmo a guardarli, incantati dalla loro bellezza, seguendo
silenziosamente e da lontano quella piccola nave che non faceva rumore perché
nuotava con la sola forza dell’esile vento che soffiava quel giorno.
Ma poi
furono loro, a vedere noi. Due delfini nuotarono fino al nostro motoscafo, e si
sistemarono sotto la punta: seguivano, giocosi, il moto della nostra barca,
correndo veloci come le onde durante una tempesta, la pancia rivolta verso il
cielo e gli occhi curiosi che spiavano i volti di tre bimbe entusiaste.
Mauro non
attese che pochi minuti: galvanizzato dall’estasi del momento, fermò la barca,
infilò pinne e maschera e si tuffò lì dove l’acqua è più blu. Cinzia lo seguì
poco dopo, ed entrambi i genitori lasciarono le loro figlie in balia di quel
placido mare, che quel giorno aveva deciso di fare loro quel dono inatteso.
Io avevo
paura. Ora che la barca era ferma, mi rendevo conto di quanto fossimo distanti
dalla costa. Se guardavo verso il basso, vedevo solo blu: blu zaffiro,
screziato di venature più chiare o più scure, a seconda dei giochi con cui i
raggi colpivano il distante fondale. C’era il nulla, sotto di noi, e vedere i
miei genitori preda di quella follia riempì il mio cuore di paura. Poteva
esserci qualsiasi sotto, là sotto: loro non avrebbero visto arrivare nemmeno
uno squalo, presi com’erano dai delfini, che con curiosità si avvicinavano, pur
rimanendo guardinghi, a quei due pazzi con pinna e maschere. Di tanto in tanto,
papà si immergeva, e io temevo che non riuscisse a ritrovare la superficie,
confuso com’era da tutto quel blu.
Quel mare
che avevo tanto amato, e con cui mi ero ritrovata più volte in simbiosi,
cominciò a farmi paura. Per la prima volta, mi resi conto di quanto fosse
potente, e spietato; e io ne ebbi paura.
«Ragazze,
venite, è bellissimo. Si sentono i loro fischi, sott’acqua» gridò la mamma, a
qualche metro dalla barca.
«Si
avvicinano» aggiunse il papà, molto più distante.
Intorno a
noi vedevo qualche pinna comparire, di tanto in tanto: quando i delfini
risalivano in superficie per prendere aria, sentivo la forza con cui soffiavano
fuori l’acqua dagli sfiatatoi, e quel suono mi cullava insieme al lievissimo
ondeggiare del mare. Mi rassicurò, e quando vidi un cucciolo di delfino
esibirsi in una giravolta fuori dall’acqua, rimasi talmente incantata da quello
spettacolo da riempirmi gli occhi di quell’immagine. E da svuotare il cuore di
paura.
Come se
avesse dato inizio a un’esibizione, dopo che quel cucciolo ebbe fatto il suo
salto acrobatico, i suoi compagni lo seguirono, imitando e migliorando le sue
capriole. L’aria si riempì di schizzi, e io fui tanto sorpresa da quell’estasi,
che imitai i miei genitori: senza più pensare a quanto profonda e sconosciuta
fosse l’acqua, a quali pericoli si nascondessero nel ventre dell’oceano e a
quali rischi mi esponevo, mi tuffai.
Cinzia non
mentiva quando diceva che sott’acqua si sentivano i loro suoni: parlavano, i
delfini, e chissà cosa si stavano dicendo.
“Guarda,
quegli strani cosi non hanno le pinne, ma degli strani arti oblunghi; e non
riescono a respirare, sott’acqua: hanno bisogno di risalire continuamente in
superficie”.
Nel momento
in cui l’acqua mi avvolse, come una fresca coperta umida, la mia paura
scomparve. Guardavo sotto di me, e quel buio era un cielo accogliente in cui
potevo volare, senza più timori. I pericoli erano solo nuvole lontane, e se
anche ci fossero stati, ero certa che quegli splendidi animali che, lentamente,
e pur mantenendo le distanze, si avvicinavano a me guardandomi con curiosità,
mi avrebbero protetta.
I suoni dei
loro sonar riempivano il silenzio liquido e ovattato del mare, interrotto solo
dai tuffi con cui, dopo aver volato come uccelli temerari, si reimmettevano nel
loro ambiente naturale. La grazia con cui si muovevano era tale da poter
estasiare anche il più scettico degli uomini; e la dolcezza con cui le madri
proteggevano i cuccioli, prevenendone l’eccessiva curiosità e ponendosi davanti
a loro per evitare che si avvicinassero troppo, era tanto tenera da strapparmi
sorrisi impazienti.
Avevo voglia
di toccarli, ma sapevo che non me l’avrebbero permesso: si erano dimostrati
amichevoli, ma non stupidi. Si avvicinavano, ma mantenendo qualche metro tra me
e loro: la giusta distanza per permettere a loro di osservarmi, e a me di non
toccarli. Erano furbi, quei delfini.
Mi trovai a
ringraziare silenziosamente la bellezza dell’oceano, quel mostro dalla forza
devastante e dalla bellezza misteriosa. La paura provata inizialmente nei suoi
confronti era scomparsa quando mi ero resa conto che quel timore era un freno
alle esperienze.
In fondo,
l’oceano è un po’ come la vita. Quando lo guardi, sembra sempre lo stesso, ma
se hai il coraggio di immergerti ti rendi conto che le infinite e invisibili
correnti che lo smuovono, lo cambiano di continuo.
Avevo la
testa sott’acqua, quando successe. Ero impegnata a guardare un cucciolo che
lottava contro la madre per potersi avvicinare a me, quando sentii, a
pochissimi centimetri da me, un fortissimo “splash”. Quando mi voltai alla
mia destra, vidi il capobranco affondare lentamente, e con eleganza, il muso
rivolto verso il fondo e gli occhi socchiusi: sembrava bearsi di quel momento.
Era così vicino a me che se avessi allungato una mano ne avrei potuto
solleticare la pancia; ma in quel momento ero talmente spaventata e sorpresa,
che non ebbi modo di sfiorarlo. Quei pochi centimetri che ci dividevano, mi
fecero rendere conto di quanto fossero enormi,
i delfini: più tardi avrei saputo che quell’adulto pesava almeno due
tonnellate. Aveva la punta della pinna bianca, forse per qualche lotta interna
al branco, dovuta alla supremazia. Era il capobranco, e mi aveva appena
prescelto come ostacolo da saltare.
Quando alzai
lo sguardo per guardare mia madre, sorridente, lei aveva gli occhi sgranati e
la bocca spalancata: sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Era
spaventata, perché se quel delfino avesse sbagliato la mira mi avrebbe
schiacciato con le sue due tonnellate di peso; mi avrebbe trascinato
sott’acqua, e, stordita, non avrei avuto modo di risalire.
Ma Pinna
Bianca aveva il senso delle distanze, era buono, ed evidentemente sapeva come
trattare le bambine curiose. Quando la forza d’inerzia dovuta al salto si fu
dissipata, con un colpo di pinna si voltò verso di me e mi guardò. Poi emise
uno stridio acuto, come un segnale di richiamo. E tutto il suo branco si
dileguò sott’acqua.
Li
incontrammo altre volte, i delfini. Non risparmiammo mai risate e sorrisi,
entusiasmi e bagni. Loro saltavano, e giocavano, e ci fissavano con quella
curiosità un po’ ingenua di chi ha voglia di conoscere creature mai viste.
Furono anni d’oro, perché ancora i pescatori non erano diventati tanto avidi e
numerosi, e i motoscafi erano ancora rari, in quel mare.
Il peggio
arrivò a distanza di qualche anno. Mentre facevamo una delle solite gite in
barca, ci imbattemmo in uno strano oggetto galleggiante. Avvicinandoci
lentamente, capimmo con orrore cosa fosse, e io a stento trattenni le lacrime.
Era un
cucciolo di delfino. Ed era morto. Gli avevano tagliato le pinne, e poi lo
avevano ributtato in mare, legato a una pietra. Il piccolo animale, complice il
peso per lui eccessivo, non era riuscito a risalire in superficie per
respirare, ed era affogato. Una volta morto, il suo cadavere era risalito a
galla, e noi avevamo avuto la sfortuna di incontrarlo.
Da quel
momento in poi, incontrammo solo un’altra volta i delfini. Fu per augurarmi
buona fortuna prima del test d’ingresso in medicina.