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Autore: Eloise_Hawkins    11/01/2012    1 recensioni
Una raccolta di ricordi che si snoda tra le pagine di una vita vissuta con tenacia e affetto. Un'accozzaglia di giorni che narra di una crescita delicata, felice, a tratti sofferta, ma tutto sommato serena. Tra risate e coccole, tra lacrime e dolori, si svolge la vita di Chiara, la protagonista di questa storia, che con un sorriso a volte dolce, a volte amaro, racconta la vita che i suoi genitori le hanno regalato, l'affetto che la sua famiglia le ha donato, il sorriso che ha faticosamente costruito. Sempre all'insegna dell'amore, e del forte legame famigliare che Cinzia e Mauro hanno saputo creare.
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo.
A mia madre, perché nei suoi occhi ho imparato la fantasia.
A mia nonna, perché attraverso i suoi racconti ho capito la vita.
Ai miei folletti, Renata e Irene, che mi hanno tenuto per mano fino ad oggi, in questo girotondo chiamato vita
.
Questa storia si è classificata prima al contest "L'alfabeto dei ricordi", indetto da Angy Lulu sul forum di Efp.
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Thanks for the memories'
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O come oceano

 

Undici anni – Delfini

 

Il mare era una tavola liscia, quel giorno: non un’onda ne increspava la superficie. I raggi del sole si bagnavano in quella distesa blu, riverberando in quell’aria fresca dall’odore salmastro.

Quando li videro la prima volta, erano tutti insieme. Il motoscafo filava rapido, fendendo l’acqua e dividendola, come una lama impietosa, in due metà morbidamente divise da quella punta d’acciaio. Fu Irene ad avvistare la pinna un po’ sbreccata e ferita del capobranco.

«C’è qualcosa lì» La bimba indicò una barca a vela poco distante, che veleggiava placidamente sulla superficie liscia del mare. E lì, laddove la chiglia della barca baciava l’acqua, appariva e scompariva una pinna. Poi due. E infine, tante che non si potevano contarle.

Erano delfini; delfini a perdita d’occhio, fin dove lo sguardo poteva coglierne. Nuotavano, attirati dal suono senza rumore con cui la barca a vela navigava; giocavano con la punta di quella nave, e i suoi occupanti ridevano estasiati. All’inizio, rimanemmo a guardarli, incantati dalla loro bellezza, seguendo silenziosamente e da lontano quella piccola nave che non faceva rumore perché nuotava con la sola forza dell’esile vento che soffiava quel giorno.

Ma poi furono loro, a vedere noi. Due delfini nuotarono fino al nostro motoscafo, e si sistemarono sotto la punta: seguivano, giocosi, il moto della nostra barca, correndo veloci come le onde durante una tempesta, la pancia rivolta verso il cielo e gli occhi curiosi che spiavano i volti di tre bimbe entusiaste.

Mauro non attese che pochi minuti: galvanizzato dall’estasi del momento, fermò la barca, infilò pinne e maschera e si tuffò lì dove l’acqua è più blu. Cinzia lo seguì poco dopo, ed entrambi i genitori lasciarono le loro figlie in balia di quel placido mare, che quel giorno aveva deciso di fare loro quel dono inatteso.

 

Io avevo paura. Ora che la barca era ferma, mi rendevo conto di quanto fossimo distanti dalla costa. Se guardavo verso il basso, vedevo solo blu: blu zaffiro, screziato di venature più chiare o più scure, a seconda dei giochi con cui i raggi colpivano il distante fondale. C’era il nulla, sotto di noi, e vedere i miei genitori preda di quella follia riempì il mio cuore di paura. Poteva esserci qualsiasi sotto, là sotto: loro non avrebbero visto arrivare nemmeno uno squalo, presi com’erano dai delfini, che con curiosità si avvicinavano, pur rimanendo guardinghi, a quei due pazzi con pinna e maschere. Di tanto in tanto, papà si immergeva, e io temevo che non riuscisse a ritrovare la superficie, confuso com’era da tutto quel blu.

Quel mare che avevo tanto amato, e con cui mi ero ritrovata più volte in simbiosi, cominciò a farmi paura. Per la prima volta, mi resi conto di quanto fosse potente, e spietato; e io ne ebbi paura.

«Ragazze, venite, è bellissimo. Si sentono i loro fischi, sott’acqua» gridò la mamma, a qualche metro dalla barca.

«Si avvicinano» aggiunse il papà, molto più distante.

Intorno a noi vedevo qualche pinna comparire, di tanto in tanto: quando i delfini risalivano in superficie per prendere aria, sentivo la forza con cui soffiavano fuori l’acqua dagli sfiatatoi, e quel suono mi cullava insieme al lievissimo ondeggiare del mare. Mi rassicurò, e quando vidi un cucciolo di delfino esibirsi in una giravolta fuori dall’acqua, rimasi talmente incantata da quello spettacolo da riempirmi gli occhi di quell’immagine. E da svuotare il cuore di paura.

Come se avesse dato inizio a un’esibizione, dopo che quel cucciolo ebbe fatto il suo salto acrobatico, i suoi compagni lo seguirono, imitando e migliorando le sue capriole. L’aria si riempì di schizzi, e io fui tanto sorpresa da quell’estasi, che imitai i miei genitori: senza più pensare a quanto profonda e sconosciuta fosse l’acqua, a quali pericoli si nascondessero nel ventre dell’oceano e a quali rischi mi esponevo, mi tuffai.

Cinzia non mentiva quando diceva che sott’acqua si sentivano i loro suoni: parlavano, i delfini, e chissà cosa si stavano dicendo.

“Guarda, quegli strani cosi non hanno le pinne, ma degli strani arti oblunghi; e non riescono a respirare, sott’acqua: hanno bisogno di risalire continuamente in superficie”.

Nel momento in cui l’acqua mi avvolse, come una fresca coperta umida, la mia paura scomparve. Guardavo sotto di me, e quel buio era un cielo accogliente in cui potevo volare, senza più timori. I pericoli erano solo nuvole lontane, e se anche ci fossero stati, ero certa che quegli splendidi animali che, lentamente, e pur mantenendo le distanze, si avvicinavano a me guardandomi con curiosità, mi avrebbero protetta.

I suoni dei loro sonar riempivano il silenzio liquido e ovattato del mare, interrotto solo dai tuffi con cui, dopo aver volato come uccelli temerari, si reimmettevano nel loro ambiente naturale. La grazia con cui si muovevano era tale da poter estasiare anche il più scettico degli uomini; e la dolcezza con cui le madri proteggevano i cuccioli, prevenendone l’eccessiva curiosità e ponendosi davanti a loro per evitare che si avvicinassero troppo, era tanto tenera da strapparmi sorrisi impazienti.

Avevo voglia di toccarli, ma sapevo che non me l’avrebbero permesso: si erano dimostrati amichevoli, ma non stupidi. Si avvicinavano, ma mantenendo qualche metro tra me e loro: la giusta distanza per permettere a loro di osservarmi, e a me di non toccarli. Erano furbi, quei delfini.

Mi trovai a ringraziare silenziosamente la bellezza dell’oceano, quel mostro dalla forza devastante e dalla bellezza misteriosa. La paura provata inizialmente nei suoi confronti era scomparsa quando mi ero resa conto che quel timore era un freno alle esperienze.

In fondo, l’oceano è un po’ come la vita. Quando lo guardi, sembra sempre lo stesso, ma se hai il coraggio di immergerti ti rendi conto che le infinite e invisibili correnti che lo smuovono, lo cambiano di continuo.

 

Avevo la testa sott’acqua, quando successe. Ero impegnata a guardare un cucciolo che lottava contro la madre per potersi avvicinare a me, quando sentii, a pochissimi centimetri da me, un fortissimo “splash”. Quando mi voltai alla mia destra, vidi il capobranco affondare lentamente, e con eleganza, il muso rivolto verso il fondo e gli occhi socchiusi: sembrava bearsi di quel momento. Era così vicino a me che se avessi allungato una mano ne avrei potuto solleticare la pancia; ma in quel momento ero talmente spaventata e sorpresa, che non ebbi modo di sfiorarlo. Quei pochi centimetri che ci dividevano, mi fecero rendere conto di quanto fossero enormi, i delfini: più tardi avrei saputo che quell’adulto pesava almeno due tonnellate. Aveva la punta della pinna bianca, forse per qualche lotta interna al branco, dovuta alla supremazia. Era il capobranco, e mi aveva appena prescelto come ostacolo da saltare.

Quando alzai lo sguardo per guardare mia madre, sorridente, lei aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata: sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Era spaventata, perché se quel delfino avesse sbagliato la mira mi avrebbe schiacciato con le sue due tonnellate di peso; mi avrebbe trascinato sott’acqua, e, stordita, non avrei avuto modo di risalire.

Ma Pinna Bianca aveva il senso delle distanze, era buono, ed evidentemente sapeva come trattare le bambine curiose. Quando la forza d’inerzia dovuta al salto si fu dissipata, con un colpo di pinna si voltò verso di me e mi guardò. Poi emise uno stridio acuto, come un segnale di richiamo. E tutto il suo branco si dileguò sott’acqua.

 

Li incontrammo altre volte, i delfini. Non risparmiammo mai risate e sorrisi, entusiasmi e bagni. Loro saltavano, e giocavano, e ci fissavano con quella curiosità un po’ ingenua di chi ha voglia di conoscere creature mai viste. Furono anni d’oro, perché ancora i pescatori non erano diventati tanto avidi e numerosi, e i motoscafi erano ancora rari, in quel mare.

Il peggio arrivò a distanza di qualche anno. Mentre facevamo una delle solite gite in barca, ci imbattemmo in uno strano oggetto galleggiante. Avvicinandoci lentamente, capimmo con orrore cosa fosse, e io a stento trattenni le lacrime.

Era un cucciolo di delfino. Ed era morto. Gli avevano tagliato le pinne, e poi lo avevano ributtato in mare, legato a una pietra. Il piccolo animale, complice il peso per lui eccessivo, non era riuscito a risalire in superficie per respirare, ed era affogato. Una volta morto, il suo cadavere era risalito a galla, e noi avevamo avuto la sfortuna di incontrarlo.

Da quel momento in poi, incontrammo solo un’altra volta i delfini. Fu per augurarmi buona fortuna prima del test d’ingresso in medicina.

 

   
 
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