U come Ulisse
Tredici anni
– Un impatto con la vita
Respirava
debolmente. Il suo petto si alzava e si abbassava dolcemente, al ritmo dei suoi
sospiri. Aveva la bocca socchiusa, e le palpebre adagiate sui globi oculari.
Steso in quel letto, mi sembrava incredibilmente piccolo e fragile. La sua
pelle era così sottile che potevo vedere il disegno di vene e capillari al di
sotto di quella carne così debole.
Non
avevo mai avuto un rapporto forte come quello di Renata, con mio nonno, ma
vederlo lì, in quelle condizioni, mi svuotò di ogni sensazione.
Mia
nonna vegliava su di lui come una Penelope che aspetta il ritorno del suo
Ulisse: i suoi occhi, mentre lo guardava, erano pieni di un amore mai represso,
e di un dolore talmente evidente che mi si spezzò il cuore a fissarla. Lei,
però, a differenza di Penelope, sapeva che lui non sarebbe tornato; lo sapeva
da molto prima, quando il Parkinson l’aveva portato in un’altra dimensione a
noi estranea, e ne aveva la conferma ora, mentre lo guardava andar via,
lentamente.
Mia
madre teneva la mano di suo padre, carezzandone il dorso col pollice, e io mi
sentii improvvisamente una spia che scrutava un’intima scena famigliare con cui
non aveva nulla a che fare. Voltai le spalle a quel quadretto così triste e
dolce al tempo stesso, e percorsi il lungo corridoio di casa di mia nonna in
silenzio, con la testa china e gli occhi lucidi, consapevole che presto sarebbe
arrivata la fine, e che mi sarei dovuta abituare all’idea di vivere senza di
lui. L’idea mi spaventava e intristiva al tempo stesso, eppure non riuscivo
ancora a sentire il dolore invadere ogni cellula del mio essere.
Quando
sentii dietro di me i passi di mia madre mi voltai. Lei lo sentiva, il dolore,
lo si vedeva dalle lacrime che le scivolavano lungo le guance. Mi guardò negli
occhi per un breve istante, poi, in silenzio, mi scortò fino alla porta di
casa.
Prima
di aprire, scoppiò.
«A
cosa stai pensando?» La sua voce tremava, ed era talmente incontrollata che,
senza rendersene conto, urlò. Mi afferrò per le spalle, e mi strattonò forte, e
io mi sentii una marionetta in balia di un bimbo capriccioso e poco gentile. Avrei
avuto paura di lei, se in quel momento non mi fosse sembrata tanto fragile da
potersi spezzare al primo soffio di vento. Mi sentii cera, tra le sue mani di
fuoco, e mi sciolsi in lacrime come lei. Mentre lei piangeva, singhiozzando
forte, io la abbracciai.
Il
momento in cui vedi piangere uno dei tuoi genitori, è il momento in cui per la
prima volta ti affacci alla vita e abbandoni le braccia sicure dell’infanzia per
venire lanciato nell’universo più complicato e sconosciuto dell’adolescenza.
Vedere piangere un genitore significa spezzare un legame.
Mia
madre è sempre stata la donna forte dai nervi d’acciaio. Quel giorno, quando la
vidi piangere, si spezzò qualcosa dentro di me. Vidi la fragile donna che si
nascondeva dietro la forza di madre, la ragazzina sensibile che lei aveva
sempre cercato di tenere nascosta perché una madre deve consolare, non essere
consolata. Quel giorno, non riuscii a dire né fare niente. La vidi, e rimasi lì
a guardarla versare lacrime di dolore, senza che potessi fare niente per
fermarle. Guardavo la sua disfatta, la vedevo crollare davanti a me, e non
riuscivo a pensare alla sua sofferenza: non era più mia madre, e questo mi
faceva uno strano effetto. Smisi di considerarla sotto la prospettiva di
genitore, e cominciai a vederla come la donna che era, fragile e insicura, con
i suoi dolori e le sue sconfitte. Mi ero appena scontrata con la vita,
conoscendo la morte; e per la prima volta mi resi conto che lei non era
intoccabile; che non mi avrebbe potuto protegger per sempre, se lei per prima
non sapeva proteggere se stessa.
Quello
fu il momento in cui diventai una donna.