T
come terrore
Quindici anni –
La scelta
Non
mi sono mai piaciuti gli ospedali, ma da quel giorno li odiai. Sapevo che
sarebbe stato il mio pane quotidiano, e questo rendeva più ardua la mia scelta:
sono sempre stata troppo sensibile alla sofferenza altrui, e la consapevolezza
che avrei vissuto ogni giorno un dolore che non mi apparteneva mi spaventava.
Ma, al tempo stesso, volevo farlo:
per alleviare quel male, per vedere di nuovo gli occhi degli altri brillare di
vita.
Non
avevo mai preso in considerazione una strada diversa da quella della Neurologia:
mi sembrava l’unica strada possibile, la più interessante. Quel giorno, però,
davanti a me si snodò un sentiero nuovo.
Il
reparto di Oncologia era quasi vuoto. Mia madre ed io avevamo appena finito di
fare una visita, e dato che mia zia quel giorno faceva la chemioterapia,
andammo a trovarla. Non ci era permesso entrare nella stanza, ma potevamo
rimanere sulla soglia, e chiacchierare con lei. Sulle prime, non riuscii a
guardarla: seduta su quella poltrona, con l’ago infilato nel braccio, temevo che
mi sarebbe sembrata troppo fragile, e il ricordo di mio nonno mi trafisse il
cuore. Lasciai vagare lo sguardo intorno, e vidi una donna, seduta poco
distante da mia zia. Era completamente calva, e tanto magra da fare spavento;
era pallida, di un pallore malato e spaventoso, e teneva gli occhi chiusi, e la
testa appoggiata allo schienale. Ciò che più mi colpì, però, non fu la sua aria
malata, ma la sua espressione. Quella donna aveva sul volto il sorriso sereno e
rassegnato di chi ha già accettato la morte, e vive in funzione di
quell’attesa. Era un’immagine terribile e dolcissima al tempo stesso; mi venne
da pensare che lei avesse capito il segreto intimo della vita.
Non
riuscii a guardare mia zia, per paura di vedere lo stesso sorriso sul suo
volto.
Il
mondo filava fuori dal finestrino, mentre la macchina camminava rapida
sull’asfalto, divorando la distanza tra l’ospedale e casa nostra. E io non
facevo altro che pensare a quella donna. Egoisticamente, non pensavo che a lei,
e il fatto che mia zia condividesse la stessa sofferenza non mi tangeva più di
tanto. Mi riscossi da quei pensieri solamente quando avvertii la macchina
rallentare, e vidi mia madre accostarsi al lato della strada e sciogliersi in
lacrime.
Era
la seconda volta che vedevo piangere mia madre. La prima ero una bambina, e non
sapevo bene cosa fare, come muovermi per consolarla. Lei era mia madre, era lei
a dovermi consolare, e quell’improvviso cambio di prospettiva e ruoli mi aveva
spiazzato. Ma ora ero una donna – una bambina, ero ancora una bambina, ma mi
sentivo grande, di sicuro molto più forte di quella donna fragile che rallentava
e piangeva, mentre ancora la macchina frenava con dolcezza, come per
accompagnare la sofferenza che aveva avvolto il suo cuore e l’aveva spremuto
fino a fargli uscire quelle gocce di dolore.
«Mamma»
dissi. Non capivo cosa fosse successo. Le poggiai una mano sulla schiena, ma
lei non riuscì a parlare. Tra i singhiozzi, tentò una spiegazione.
«Ma
lei era lì. Mi faceva impressione. Con quell’ago, e quel sorriso tranquillo»
borbottava quelle parole tra le lacrime, e allora io l’abbracciai forte, e lei
pianse a lungo sulla mia spalla. Quando accennò al sorriso, mi oscurai appena,
e la strinsi un po’ di più, impaurita.
Mi
sentii forte, e debole al tempo stesso, perché io, invece, non riuscivo a
provare pena per quelle persone, non riuscivo a piangere. Mi tornò in mente il
sorriso di quella signora che avevo visto dentro la stanza di quell’ospedale.
Guardai di nuovo mia madre, e il suo viso rigato di lacrime. Fu in quel momento
che decisi cosa fare della mia vita.
Volevo
fare medicina perché mio padre mi aveva contagiato una passione smodata per il
corpo umano, e il desiderio di avere qualcosa in comune con lui mi aveva spinto
a seguire quel sogno; seguendo le sue orme e diventando neurologa, lui sarebbe
finalmente stato fiero di me. Ma adesso, tenendo tra le braccia quella fragile
bambola di porcellana che era mia madre, scossa dai singhiozzi e da un dolore
più profondo talmente intenso che mi sembrava di percepirlo, decisi che la
scelta della medicina in sé e per sé gli sarebbe dovuta bastare, perché non
avrei seguito completamente le sue orme; sarei stata un medico, ma non un
neurologo.
Perché
mi resi conto, in quel momento, di quanto dolore provochi il cancro. Di quanta
sofferenza quel silenzioso male, subdolo e strisciante essere senza forma né
nome, incida lentamente la carne del malato; e di quanto, invece, logori il
cuore di chi sta loro accanto. Mi resi conto di aver scoperto qual era la mia
paura: il cancro. Che significava, poi, che avevo paura del dolore, e della
morte. Del dolore che avrei potuto provocare alle persone che mi amano, e della
morte che mi avrebbe trascinata tra le sue braccia troppo presto, senza il mio
volere. E non era nemmeno paura, era terrore: un timore folle, inesplicabile,
solo parzialmente giustificato.
E
allora decisi che da grande avrei fatto l’oncologa, così da estirpare quel male
osceno dal mondo.