Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Eloise_Hawkins    05/02/2012    2 recensioni
Una raccolta di ricordi che si snoda tra le pagine di una vita vissuta con tenacia e affetto. Un'accozzaglia di giorni che narra di una crescita delicata, felice, a tratti sofferta, ma tutto sommato serena. Tra risate e coccole, tra lacrime e dolori, si svolge la vita di Chiara, la protagonista di questa storia, che con un sorriso a volte dolce, a volte amaro, racconta la vita che i suoi genitori le hanno regalato, l'affetto che la sua famiglia le ha donato, il sorriso che ha faticosamente costruito. Sempre all'insegna dell'amore, e del forte legame famigliare che Cinzia e Mauro hanno saputo creare.
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo.
A mia madre, perché nei suoi occhi ho imparato la fantasia.
A mia nonna, perché attraverso i suoi racconti ho capito la vita.
Ai miei folletti, Renata e Irene, che mi hanno tenuto per mano fino ad oggi, in questo girotondo chiamato vita
.
Questa storia si è classificata prima al contest "L'alfabeto dei ricordi", indetto da Angy Lulu sul forum di Efp.
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Thanks for the memories'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

T come terrore

 

Quindici anni – La scelta

 

 

Non mi sono mai piaciuti gli ospedali, ma da quel giorno li odiai. Sapevo che sarebbe stato il mio pane quotidiano, e questo rendeva più ardua la mia scelta: sono sempre stata troppo sensibile alla sofferenza altrui, e la consapevolezza che avrei vissuto ogni giorno un dolore che non mi apparteneva mi spaventava. Ma, al tempo stesso, volevo farlo: per alleviare quel male, per vedere di nuovo gli occhi degli altri brillare di vita.

Non avevo mai preso in considerazione una strada diversa da quella della Neurologia: mi sembrava l’unica strada possibile, la più interessante. Quel giorno, però, davanti a me si snodò un sentiero nuovo.

 

Il reparto di Oncologia era quasi vuoto. Mia madre ed io avevamo appena finito di fare una visita, e dato che mia zia quel giorno faceva la chemioterapia, andammo a trovarla. Non ci era permesso entrare nella stanza, ma potevamo rimanere sulla soglia, e chiacchierare con lei. Sulle prime, non riuscii a guardarla: seduta su quella poltrona, con l’ago infilato nel braccio, temevo che mi sarebbe sembrata troppo fragile, e il ricordo di mio nonno mi trafisse il cuore. Lasciai vagare lo sguardo intorno, e vidi una donna, seduta poco distante da mia zia. Era completamente calva, e tanto magra da fare spavento; era pallida, di un pallore malato e spaventoso, e teneva gli occhi chiusi, e la testa appoggiata allo schienale. Ciò che più mi colpì, però, non fu la sua aria malata, ma la sua espressione. Quella donna aveva sul volto il sorriso sereno e rassegnato di chi ha già accettato la morte, e vive in funzione di quell’attesa. Era un’immagine terribile e dolcissima al tempo stesso; mi venne da pensare che lei avesse capito il segreto intimo della vita.

Non riuscii a guardare mia zia, per paura di vedere lo stesso sorriso sul suo volto.

 

Il mondo filava fuori dal finestrino, mentre la macchina camminava rapida sull’asfalto, divorando la distanza tra l’ospedale e casa nostra. E io non facevo altro che pensare a quella donna. Egoisticamente, non pensavo che a lei, e il fatto che mia zia condividesse la stessa sofferenza non mi tangeva più di tanto. Mi riscossi da quei pensieri solamente quando avvertii la macchina rallentare, e vidi mia madre accostarsi al lato della strada e sciogliersi in lacrime.

Era la seconda volta che vedevo piangere mia madre. La prima ero una bambina, e non sapevo bene cosa fare, come muovermi per consolarla. Lei era mia madre, era lei a dovermi consolare, e quell’improvviso cambio di prospettiva e ruoli mi aveva spiazzato. Ma ora ero una donna – una bambina, ero ancora una bambina, ma mi sentivo grande, di sicuro molto più forte di quella donna fragile che rallentava e piangeva, mentre ancora la macchina frenava con dolcezza, come per accompagnare la sofferenza che aveva avvolto il suo cuore e l’aveva spremuto fino a fargli uscire quelle gocce di dolore.

«Mamma» dissi. Non capivo cosa fosse successo. Le poggiai una mano sulla schiena, ma lei non riuscì a parlare. Tra i singhiozzi, tentò una spiegazione.

«Ma lei era lì. Mi faceva impressione. Con quell’ago, e quel sorriso tranquillo» borbottava quelle parole tra le lacrime, e allora io l’abbracciai forte, e lei pianse a lungo sulla mia spalla. Quando accennò al sorriso, mi oscurai appena, e la strinsi un po’ di più, impaurita.

Mi sentii forte, e debole al tempo stesso, perché io, invece, non riuscivo a provare pena per quelle persone, non riuscivo a piangere. Mi tornò in mente il sorriso di quella signora che avevo visto dentro la stanza di quell’ospedale. Guardai di nuovo mia madre, e il suo viso rigato di lacrime. Fu in quel momento che decisi cosa fare della mia vita.

Volevo fare medicina perché mio padre mi aveva contagiato una passione smodata per il corpo umano, e il desiderio di avere qualcosa in comune con lui mi aveva spinto a seguire quel sogno; seguendo le sue orme e diventando neurologa, lui sarebbe finalmente stato fiero di me. Ma adesso, tenendo tra le braccia quella fragile bambola di porcellana che era mia madre, scossa dai singhiozzi e da un dolore più profondo talmente intenso che mi sembrava di percepirlo, decisi che la scelta della medicina in sé e per sé gli sarebbe dovuta bastare, perché non avrei seguito completamente le sue orme; sarei stata un medico, ma non un neurologo.

Perché mi resi conto, in quel momento, di quanto dolore provochi il cancro. Di quanta sofferenza quel silenzioso male, subdolo e strisciante essere senza forma né nome, incida lentamente la carne del malato; e di quanto, invece, logori il cuore di chi sta loro accanto. Mi resi conto di aver scoperto qual era la mia paura: il cancro. Che significava, poi, che avevo paura del dolore, e della morte. Del dolore che avrei potuto provocare alle persone che mi amano, e della morte che mi avrebbe trascinata tra le sue braccia troppo presto, senza il mio volere. E non era nemmeno paura, era terrore: un timore folle, inesplicabile, solo parzialmente giustificato.

E allora decisi che da grande avrei fatto l’oncologa, così da estirpare quel male osceno dal mondo.

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Eloise_Hawkins