Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Argorit    09/03/2012    4 recensioni
Meliandra, la principessa del regno di Ader, viene mandata da suo padre a compiere una missione essenziale per la sopravvivenza del popolo. Ad accompagnarla, Farin, un giovane mercenario, potente, spietato e dall'oscuro passato.
Insieme, dovranno salvare il loro mondo dalla minaccia di un essere millenario, una creatura fatta di odio e da esso alimentata.
Ma ce la faranno?
**********************************************************************
[Cit]
-Andrà mai via?- chiese Meliandra, fissandosi le mani ancora grondanti d'acqua gelida.
Farin la guardò a lungo, con attenzione. Sapeva cosa avrebbe dovuto risponderle, ma se l'avesse fatto, di quella ragazza non sarebbe rimasto che un guscio vuoto, un mero simulacro di quella che sarebbe potuta essere una magnifica regina.
Quindi, suo malgrado, si chinò su di lei, la avvolse con proprio mantello e le sussurrò -No, non lo farà. Solo gli stolti credono che il tempo lenisca ogni ferita-
-Ma allora cosa devo fare? Come posso convivere con questo? Io non sono forte come te, io non posso andare semplicemente avanti, dimenticando quello che è successo!-
Il ragazzo le rivolse il sorriso più gentile che poteva. -Allora combatti ancora, perchè il dolore che provi ora non sia vano-
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

                                                                        Il demone del Nord
                                                                                                                   Regno di Ader. Confine Nord Orientale. Anno 1859


Zakary sospirò, stringendosi meglio nel pesante mantello foderato di pelliccia d’orso che aveva indosso, nella speranza di allontanare il freddo gelido dei venti di Settentrione. Un lampo illuminò il cielo plumbeo, seguito da un tuono che annunciava l’imminente arrivo di una tempesta.
La guardia imprecò. Già essere stato stanziato al Passo dei Lupi, una delle zone periferiche più aspre e impervie del regno, era di per sé una sventura, ma essere addirittura assegnato ai turni di notte per due settimane consecutive era un’autentica sciagura. Certo, non sarebbe successo se non si fosse fatto scoprire a letto con la figlia del capitano Montgomery, però la bella Esper era stata tutt’altro che costretta a giacere con lui, quindi non capiva come mai dovesse essere punito.
Un lupo ululò, facendo correre un brivido gelido lungo la spina dorsale del giovane soldato. Quelle maledette bestiacce erano la cosa peggiore del lavorare lì: non si poteva mettere il naso fuori dal ponte levatoio senza rischiare di essere spolpati fino all’osso.
Sbadigliò rumorosamente, il sonno arretrato cominciava a farsi sentire. Si guardò intorno, circospetto, poi, certo di essere solo, si appoggiò alla lancia. Avrebbe fatto un riposino, prima di riprendere la ronda, e nessuno se ne sarebbe mai accorto. In fondo erano quasi cinquecento anni che il Passo non subiva attacchi, di sicuro non avrebbero tentato un’invasione proprio quella notte.
«Si batte la fiacca soldato?» latrò una voce alle sue spalle. Colto di sorpresa, Zakary si mise sull’attenti, urlando: «Nossignore» Solo allora, quando i battiti del suo cuore si furono calmati, si rese conto dell’identità del nuovo arrivato «Miles, sei un pezzo di…»
«Sai Nick, amico mio» lo interruppe l’altro scuotendo la testa con aria di rimprovero, la spada mollemente appoggiata di traverso sullo spallaccio dell’armatura di cuoio, «se proprio vuoi poltrire, dovresti per lo meno evitare di farti scoprire.» Afferrò una fiasca che portava legata alla cintura e se la portò alle labbra, ingoiandone una lunga sorsata.
Stavolta fu Zakary a sorridere «Sei tu quello che dovrebbe stare attento a non farsi scoprire. Se il capitano ti sorprende con quella, ti appenderà per i talloni ad un gancio da macellaio.»
Miles non sembrò dar peso alle parole dell’amico, anzi, le trovò divertenti, e sembrò sentirsi in dovere di rispondere a tono «Sta zitto e fatti una bevuta. Se ti addormentassi con questo freddo rischieresti di non svegliarti più» disse gettandogli la fiasca.
Chinando il capo in segno di ringraziamento, la guardia prese il beccuccio di legno tra i denti e inclinò il contenitore per far uscire il liquore.
Un tonfo sordo lo interruppe. Miles sbiancò e barcollò in avanti, boccheggiando. Un fiotto di sangue scuro gli fuoriuscì dalla bocca.
La seconda freccia gli perforò le scapole, sbucando dal petto, e la violenza dell’impatto spinse a terra il soldato ormai cadavere.
Stupefatto dall’improvvisa piega degli eventi, Zakary rimase immobile, pietrificato, finché un terzo dardo non gli perforò l’armatura, spezzandogli la spalla e scatenando nel suo corpo una scarica di dolore incandescente che gli schiarì la mente. Finalmente conscio della situazione la guardia si mise al riparo e tentò di estrarre la freccia, ma i barbigli della punta s’impigliarono nella carne, aumentando la sua sofferenza. Urlò come mai aveva pensato di poter fare, e dopo un po’ fu costretto a fermarsi: non aveva quasi più fiato nei polmoni, e rischiava di svenire da un momento all’altro.
Tentò di prendere il corno per suonare l’allarme e avvisare del pericolo le truppe più a valle, ma scoprì di non potersi muovere. Il dardo doveva essere intriso di qualche veleno ad azione rapida.
Un rampino superò l’orlo della muraglia, agganciandosi alla balaustra di pietra del corridoio di camminamento. Pochi minuti dopo una figura ammantata di nero la scavalcò, atterrando dolcemente davanti al corpo morente di Zakary.
L’invasore diede una rapida occhiata alle sue condizioni, poi, accertatosi che non rappresentava una minaccia, si chinò su Miles e, caricatoselo sulle spalle, lo gettò nel fossato sottostante.
«Ho bagnato le punte delle mie frecce nel veleno della Serpe dei pini. Ti resta poco da vivere e non esiste antidoto. Perdonami» sussurrò alla giovane guardia. Nonostante il velo mortifero che gli stava offuscando la vista, Zakary percepì chiaramente del sincero rammarico nella sua voce chiaramente femminile. Chiunque fosse, quella donna non agiva di sua propria volontà.
Non fu particolarmente consolante come ultimo pensiero, ma fu quello che lo accompagno nel baratro oscuro della morte.
L’assassina si liberò del suo corpo e s’incamminò. Aveva passato giorni ad osservare i turni delle guardie, i loro orari, le loro abitudini: tra un cambio e l’altro intercorrevano sempre sei ore, e i soldati stavano bene attenti a non tardare di neanche un minuto. Inoltre, dato che sorvegliavano una zona diversa ciascuno, era difficile che si incrociassero. Dalle informazioni che aveva raccolto nelle città di frontiera aveva dedotto che l’ufficiale incaricato di supervisionare quella zona era particolarmente rigido e non tollerava la minima ingerenza nelle sue disposizioni. I soldati che aveva appena ucciso infrangevano le regole, ma questo giocava a suo favore, perché le aveva permesso di sbarazzarsi di due vedette in un colpo solo. Ora non le restava che eliminare le altre.
Percorrendo la muraglia, uccise chiunque si trovasse sul suo cammino, centrandoli alla testa o al cuore con i dardi avvelenati. Quando li terminò, erano rimaste in vita solo tre guardie.
Scivolò alle spalle della prima, sgozzandola come un agnello sacrificale. La seconda fu distratta da un mattone staccatosi dalla balaustra, e non seppe mai a chi apparteneva la lama che gli trapassò la nuca. La terza fu invece più fortunata, ma, anche se si girò in tempo per scorgere l’ombra nera dell’assassina che si avventava su di lui, non lo fu abbastanza per schivare la piccola ascia da lancio che lei gli lanciò e che gli spaccò il cranio a metà.
Anche a distanza di anni, l’odore del sangue e della materia cerebrale le diede la nausea. Se il re non avesse minacciato di uccidere la sua famiglia non avrebbe mai ripreso in mano un pugnale. Sperava che quel capitolo della sua vita fosse finito quando aveva incontrato suo marito, ma a quanto pareva si sbagliava.
Ansimando per la fatica, l’assassina ricontò mentalmente i soldati uccisi: erano ventinove, esattamente il numero di vedette che l’avamposto era solito utilizzare.
Agganciò il rampino e si calò nel campo base nemico, facendo ben attenzione a non far rumore. Attraversò l’intero accampamento in totale silenzio, tesa come la corda di un arco pronto a scoccare, sforzando i propri sensi al massimo per non lasciarsi sfuggire alcun suono, e si diresse verso il portone principale, alto circa tre volte più di lei e spesso oltre un braccio; non sarebbe mai riuscita ad aprirlo da sola, tuttavia il suo aguzzino aveva pensato anche a quello.
Titubante, infilò una mano nella tasca interna del mantello e prese una fialetta di vetro delicato, ricolma di un liquido verde metallico. Prese le distanze e ve la gettò contro, suo malgrado leggermente curiosa di sapere che effetto avrebbe avuto.
Quando entrò in contatto con la sostanza, il legno si tinse di un nero putrido e malato, marcendo a gran velocità, e le robuste barre di ferro che lo rinforzavano si sciolsero con un sommesso sfrigolio, colando in rivoli argentei che si raccolsero in una pozza sul suolo duro.
Dallo squarcio appena aperto, entrò un uomo dall’aria inquietante. Alto ed eccessivamente magro, era completamente calvo e nudo, ad eccezione di un corto gonnellino di stoffa rossa. La pelle era di un insano colorito giallastro, e così sottile da aderire perfettamente alle ossa sottostanti, facendolo somigliare vagamente ad uno scheletro. Tutto il suo corpo era ricoperto di complessi tatuaggi, simboli magici e lettere arcane, che s’intrecciavano in un messaggio che solo pochi eletti erano in grado di comprendere.
I suoi occhi erano ciechi, bruciati dai ferri roventi in un tempo remoto, eppure si muoveva con sicurezza, come se potesse realmente vedere ciò che aveva davanti.
L’assassina lo trovava ributtante: da quando lo conosceva non aveva mai aperto bocca, se non per riferirle gli ordini del suo signore o per salmodiare frasi senza senso in una lingua morta.
«Sbrigati. Non c’è molto tempo prima che sorga l’alba.»
La donna annuì e tornò a concentrarsi sul suo compito, seguita subito dopo dall’uomo che, nonostante camminasse con calma serafica, riusciva in qualche modo a starle dietro con facilità.
«Dove si trova la tomba?» chiese lei, sguainando due corte spade dalle lame gocciolanti di veleno. La risposta le giunse in un sussurro roco e raschiante «Più avanti. Sotto le radici di una quercia, al centro esatto del campo.»
Proseguirono nella direzione indicata dall’uomo di gran fretta, senza concedersi un attimo di riposo, mentre nel cuore della donna la consapevolezza di ciò che si apprestava a fare le straziava l’animo.
Per una fortuita casualità non incontrarono nessuno, così lei poté evitare di mietere altre vittime. Maledì il destino, che aveva fatto sì che gli emissari di re Alner bussassero alla porta di casa sua e ripensò a suo fratello, barbaramente trucidato per non aver voluto eseguire lo stesso compito che lei era stata costretta a portare a termine.
Quando arrivarono alla loro meta, scoprirono che l’albero era scomparso, probabilmente abbattuto per ricavarne legna da ardere, ma il ceppo era rimasto, troppo robusto e dalle radici troppo in profondità per essere rimosso.
«Procedi» le ordinò l’uomo, inginocchiandosi verso Ovest e iniziando a pregare.
Col cuore in gola, la donna si spogliò, esponendo il corpo sodo e giovanile alle sferzate della gelida brezza notturna. A piedi nudi, salì sui resti del tronco e si portò al centro. Lì alzò un sottile pugnale di argento brunito e disse ciò che le era stato imposto di dire: «Con la mia voce ti risveglio dal tuo sonno.» L’arma sfavillò di una cupa luce verde e azzurra. «Con la mia carne placherò la tua fame, con il mio sangue spengerò la tua sete» e calò la lama con decisione, trafiggendosi il ventre. Il sangue defluì dalla ferita a velocità allarmante, bagnando il ceppo, che parve assorbire il liquido denso e scuro.
Tossì, stordita dalla ferita e dal dolore, tuttavia non poteva fermarsi; aveva quasi terminato il rituale, e lo sguardo dell’uomo, prima vacuo ora febbricitante di gioia selvaggia, sembrava urlarle di sbrigarsi.
Le sfuggì un sorriso triste. Stava per morire, e la sua morte avrebbe liberato un orrore sopito da secoli, ma almeno suo marito e sua figlia sarebbero stati salvi.
Con un ultimo, disperato colpo si affondò nuovamente l’argento incantato nella carne, e stavolta si trafisse il cuore, uccidendosi.
Il pugnale brillò più forte che mai, e sul legno comparve una crepa sottile, che si allargò rapidamente, diramandosi come una ragnatela per tutta la superficie del ceppo, accompagnata da un coro di schiocchi e gemiti.
Molti soldati furono destati da quei rumori molesti, ma, quando accorsero, videro solo un uomo nudo inginocchiato a poca distanza dal cadavere di una donna.
Confusi, gli si avvicinarono per interrogarlo. In quel preciso istante, però, ciò che restava della quercia millenaria esplose in migliaia di schegge affilate e qualcosa afferrò il corpo.
I soldati osservarono la scena paralizzati dal terrore. L’essere che avevano di fronte era la cosa più spaventosa su cui avessero mia posato gli occhi, uno scheletro privo di pelle, coperto solo di muscoli laceri e putrescenti, ossa scoperte e organi marci, tenuti insieme da chissà quale oscuro potere.
La creatura ruggì, con la mano artigliata divelse il pugnale dalla donna, gettandolo via, e la lacerò dallo sterno all’inguine. Senza sforzo la sollevò sopra il capo, bevendo e bagnandosi del sangue che ne piovve.
Il mostro rise, gustandosi quel sapore dolce e metallico sulla lingua, e le strappò cuore e fegato, divorandoli con avidità. Poi si avventò sugli intestini, sui polmoni, sulla milza e sulle ovaie, fino a ridurla ad un involucro vuoto. Non ancora sazio, mangiò anche i muscoli e spezzò le ossa per succhiare il midollo.
Terminato il pasto volse i suoi occhi – due cavità nere come la pece incastonate in un teschio zannuto – sull’uomo genuflesso, scrutando con curiosità il messaggio inciso sul suo corpo. Sorrise; il suo padrone era tornato sul trono che gli spettava e chiamava a raccolta i suoi servi.
Superò il messo con un balzo disumano. Aveva ancora fame. Mille anni di digiuno si facevano sentire, e lì intorno era pieno di prede allettanti, il leggero odore di paura che emanavano lo tentava come il più dolce dei profumi.
Man mano che il mostro si avvicinava, i soldati parvero riscuotersi da loro allibito torpore. Resisi contro del pericolo che correvano sguainarono le armi e si prepararono a combattere per la propria vita, ma era già tardi. L’essere si avventò su di loro con la furia di una tempesta, facendone scempio.
Le loro grida attirarono i rinforzi, tuttavia il loro intervento non variò minimamente la situazione. La creatura era incredibilmente forte e veloce, e spazzò via chiunque provasse ad intralciare il suo cammino. Più uccideva e mangiava, più il suo aspetto mutava, si rigenerava, finché, quando anche l’ultima guardia divenne un informe ammasso di carne macellata, al centro del campo tinto di rosso non c’era più un mostro insanguinato, bensì un uomo d’indicibile bellezza, alto e sottile, coi muscoli compatti e guizzanti e la pelle candida come la luna.
Sempre col capo chino, l’uomo tatuato gli si avvicinò, gettandosi ai suoi piedi «Lord Oren, è un onore per me incontrarvi, finalmente. Se mi consentite l’ardire, dovremmo sbrigarci: il re ci attende, e a breve il grosso delle truppe verrà qui per scoprire cos’è successo all’avamposto. I nostri soldati si occuperanno di invadere questo misero regno.»
Oren annuì, senza però degnarsi di rispondere a quell’insignificante mortale. Non era più affamato, ma non aveva recuperato abbastanza potere da combattere un intero esercito da solo. Stiracchiandosi, cominciò a camminare con calma verso Ansha, dove si sarebbe ricongiunto con il suo padrone.
Tenendogli dietro, l’uomo tatuato si premette due dita sulla tempia sinistra. Parte dei simboli si staccò, addensandosi in una bolla nera sospesa a mezz’aria. «Recati dal re» le ordinò, «e avvertilo che ho compiuto la mia missione.» Tremolando leggermente, la sfera rimpicciolì e saettò verso il cielo, in direzione di Zavren.

                                                                                                                   Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859. Tre ore dopo

Il principe Alner – o almeno l’entità che lo possedeva – era mollemente seduto su un’elegante poltrona intarsiata nella sala dei banchetti, davanti ad una tavolata riccamente imbandita, intento a gustarsi una corposa porzione di maiale arrosto e patate. Suo malgrado, il cibo era una cosa che gli era mancata molto nei secoli della sua prigionia, sebbene nella sua forma di spirito non avesse mai sentito il bisogno di nutrirsi.
Al suo fianco, incatenati, sporchi, laceri e feriti, c’erano un uomo e una bambina di circa dodici anni, il marito e la figlia dell’assassina pentita che aveva avuto la fortuna di rintracciare pochi giorni prima. Convincerla era stata una vera noia. Certo, avrebbe potuto costringere chiunque ad eseguire il rituale del risveglio di Oren, ma un’anima oscura ritornata alla luce era l’ideale per far funzionare al meglio quel tipo di incantesimi.
L’uomo lo scrutava con odio manifesto, mentre la bambina piangeva disperatamente ma in silenzio, troppo spaventata dalle punizioni in cui sarebbe potuta incorrere se l’avesse fatto a voce alta.
Il sigillo di comunicazione che aveva impresso sulla pelle del suo servitore lo raggiunse mentre sorbiva con gusto un sorso di vino pregiato, uno dei tanti piaceri che aveva reimparato a concedersi ora che aveva di nuovo un corpo fisico.
La bolla nera esplose, e il materiale di cui era composta rimase sospeso nel nulla, gravitando intorno al re fino a quando quest’ultimo non gli avvicinò un fazzoletto di lino candido. A quel punto la sostanza si depositò sul tessuto, disponendosi in ordinate file di rune. “Missione compiuta maestà. Lord Oren è libero” diceva il messaggio.
Un sorriso crudele gli curvò le labbra: il suo miglior servitore era finalmente tornato a calcare il mondo dei vivi, pronto ad obbedire ai suoi comandi. Lento, compiaciuto, si voltò verso i suoi due graditi ospiti «Sono lieto di informarvi che vostra moglie, mastro Jir, ha portato a termine il suo compito con successo» disse, godendosi l’espressione devastata dell’uomo. Aveva sperato che in qualche modo la sua amata si salvasse, l’essere lo sapeva, e rendersi conto che non l’avrebbe più rivista l’aveva sconvolto. L’odio che provava verso l’artefice di quella tragedia era grande, e il re lo assimilò, alimentandosi di esso. L’urlo angosciato della bambina e il suo dolore furono un contorno eccellente, che ritemprò il suo cuore marcio, deliziandolo ed eccitandolo al contempo.
Con un movimento così rapido da sembrare un vago sfavillio di seta scura, il sovrano afferrò l’uomo per il petto, affondando le dita nella sua carne con agevolezza. La spada gli si materializzò nella mano libera, scorrendo fuori dal suo stesso corpo come un rivolo di melma.
«Ora lei non mi occorre più mastro Jir» ghignò prima di decapitarlo con un unico fendente.
Recisa, la testa cadde sulle gambe della piccola, imbrattandole di sangue il viso e il vestito liso. Un pensiero malsano gli invase la mente mentre osservava la giovinetta strisciare sul pavimento di marmo, dibattendosi come un’ossessa per allontanarsi da lui e dai resti del padre: l’avrebbe uccisa lentamente, assaporando ogni minuto, ma prima si sarebbe divertito un po’ con lei.

                                                                                                                  Regno di Ader. Rublia. Anno 1859. Due giorni dopo

Nicolas, sovrano del regno di Ader, si passo distrattamente una mano tra i lunghi capelli grigi, strizzando gli occhi per schiarirsi la vista, affaticata dagli ultimi giorni di veglia continua. Il rapporto che gli era giunto dal Nord era a dir poco terrificante: duecentonovantasette soldati orrendamente mutilati, e un intero contingente dell’esercito di Ansha alle porte del Passo dei Lupi, pronto a penetrare nel punto più sicuro ed impenetrabile del suo regno. Le sue truppe erano riuscite a respingerli per puro miracolo, ma avevano subito gravi perdite e perso quasi metà degli arcieri, fondamentali per difendere il valico. Il generale a cui era affidato quel settore aveva ovviamente inviato dei rinforzi, tuttavia a spaventare il re non era tanto la concreta possibilità di una guerra, quanto l’idea che Alner si sentisse così sicuro di sé da attaccarlo dove era più forte.
Un uomo convinto di poter vincere uno scontro con una strategia del genere o era pazzo o aveva un asso nella manica, e in entrambi i casi rappresentava un pericolo mortale.
Intinse la piuma d’aquila nel calamaio e scolò l’inchiostro in eccesso sul bordo di vetro della boccetta, dopo di che prese una pergamena pulita e redasse una serie di ordini per assicurare ai suoi uomini salmerie abbondanti e un adeguato contingente di maghi e guaritori. Sigillò la lettera con qualche goccia di ceralacca, imprimendovi il proprio sigillo con una leggera pressione dell’anello reale che gli cingeva l’indice, e chiamò un messo, cui disse di consegnarla all’accademia militare di Rublia, dove aveva sede anche la più rinomata scuola di magia del regno.
Stremato e col polso dolorante per tutti i documenti che aveva dovuto firmare in quei giorni, si appoggiò allo schienale della poltrona, sperando di riuscire a concedersi qualche minuto di riposo prezioso, ma non aveva neppure chiuso gli occhi che un sommesso bussare lo costrinse a rimettere in moto la mente.
«Avanti» grugni stancamente, pregando gli Dei che non fosse un altro dispaccio militare.
Per una volta, le sue richieste vennero ascoltate, perché ad entrare, a capo chino e con un’espressione di sincero rammarico sul volto anziano, fu Lisa, la vecchia balia che da anni badava a sua moglie, avendo cura che non si facesse del male e soddisfacendo i suoi bisogni. Era in quel castello da quasi cinquant’anni, e aveva aiutato un gran numero di nobildonne e cortigiane a mettere al mondo e ad allevare i loro bambini. Inoltre era una buona amica di suo padre e aveva assistito alla sua nascita, anche se all’epoca era solo un’apprendista.
«Che succede Lisa?»
«Vostra moglie si rifiuta di mangiare sire. Credo che le manchi la principessa. So che siete molto impegnato, ma potreste tentare di convincerla? Io non so più come fare.»
Il sovrano si lasciò sfuggire un sospiro, massaggiandosi le tempie «Vedrò cosa posso fare. Tu intanto puoi ritirarti nelle tue stanze.» Grata, la balia lo salutò con un rispettoso inchino e abbandonò la sala, mentre Nicolas, ignorando le proteste delle sue ossa anchilosate, si diresse verso la camera da letto della moglie.
Ad essere del tutto sinceri, avrebbe preferito non incontrarla. Sia chiaro, amava la donna che aveva sposato, ma, da quando la malattia l’aveva prosciugata dei ricordi di tanti anni passati assieme, lei sembrava temerlo, e lui non osava darle torto di questo.
Quando si erano incontrati la prima volta, il giorno del loro matrimonio, lei aveva quindici anni, molto pochi se comparati ai suoi trentaquattro. Era stata un’unione improvvisa, dettata da gravi necessità politiche, cui nessuno dei due aveva potuto sottrarsi. Quella stessa notte l’aveva privata della verginità, per sugellare la loro unione come imponevano le leggi e la tradizione. Si era sentito una bestia a possedere una fanciulla nel fiore degli anni, poco più di una bambina, e aveva cercato fino all’ultimo minuto di sottrarsi a quell’obbligo, ma suo padre – un uomo tanto giusto quanto severo e inflessibile – non aveva voluto sentir ragioni, e, nonostante la giovane età della ragazza, aveva preteso che il figlio ottemperasse ai suoi doveri.
Anche se sua moglie non gliel’aveva mai fatto pesare in alcun modo, Nicolas aveva intuito quanto difficile fosse stato per lei accettare di giacere con un uomo che poteva quasi essere suo padre.
Due anni più tardi era nata Meliandra, la loro amata figlia.
Quelli erano stati senza alcun dubbio gli anni migliori della sua vita: suo padre aveva abdicato in suo favore, la piccola cresceva sana e forte e sua moglie aveva scoperto in lui un compagno fidato e un marito fedele e paziente, per quanto autoritario come imponeva il ruolo che rivestiva. Poi però era giunta la malattia, e tutto era finito.
Sospirando, girò la maniglia della porta ed entrò. Il colore rosa pallido delle pareti urtò i suoi occhi stanchi, ma passò oltre. Lisa doveva evidentemente aver pulito di recente, perché l’ultima volta che era stato lì, circa due settimane prima, l’unica cosa in ordine era il soffitto.
La donna era seduta a gambe incrociate sul pavimento, i corti capelli rossi tutti arruffati, intenta a muovere dei pupazzetti di pezza secondo un copione noto a lei e a lei soltanto. Non appena lo vide, però, impallidì, mise via i giocattoli e si schiacciò contro la parete, tremando visibilmente.
Nicolas le si avvicinò lentamente, attento a non fare movimenti bruschi, e cominciò a carezzarle il capo con tutta la dolcezza che le sue mani callose da guerriero gli consentirono, finché non si calmò abbastanza da permettergli di sollevarla dal pavimento e condurla fino alla poltrona.
«Kelastria, piccola mia» le chiese gentilmente, «perché ti rifiuti di mangiare?» La donna mise il broncio, portandosi le ginocchia al petto «Mi manca Mel» mugugnò contrariata lei, tenendo gli occhi bassi per non dover incrociare quelli del sovrano.
«Capisco» commentò pacatamente l’uomo, raccogliendo le bambole e riconsegnandoli alla moglie. «Allora ti rivelerò un segreto: manca molto anche a me.»
La regina-bambina alzò la testa di scatto, un brillio eccitato nelle splendide iridi blu cupo, così simili a quelle della figlia «Davvero? Allora perché l’hai fatta andare via?»
L’uomo sospirò, riprendendo a carezzare i capelli della moglie «L’hai detto tu stessa: Coloro che recano il marchio lotteranno per la salvezza, uniti combatteranno, divisi cadranno.»
Kelastria sembrò confusa da quelle parole di cui non capiva il senso «Io non ho mai detto una cosa così difficile» protestò.
«L’hai fatto, solo che non te lo ricordi. Hai detto tante cose che non ricordi.»
«Non capisco.»
«Non serve che tu lo faccia. Ora devo andare, però voglio che tu mi prometta di mangiare. Non vuoi che Meliandra torni e ti trovi tutta pelle e ossa, vero?»
Lei parve pensarci su per un po’, ma alla fine acconsentì, rivolgendo al re un sorriso che non vedeva da tempo su quel viso tanto amato.
«Allora mangerai, giusto?» La regina annuì, contenta senza alcuna ragione d’esserlo, come solo una bambina potrebbe fare.
Sorridendo a sua volta, il re le sfiorò la guancia con le dita e uscì, ritornando a passo spedito nella sala delle udienze. All’interno, seduto dall’altro lato della scrivania, trovò Nahir, il suo fido consigliere, circondato da lettere e con un’aria estremamente annoiata. Quando vide il sovrano, fece per alzarsi, ma Nicolas lo fermò, sedendosi a sua volta.
«Ti imploro amico mio, dammi una buona notizia» esalò, trattenendo uno sbadiglio. Il vecchio fu ben lieto di accontentarlo, mise da parte un rotolo di pergamena fittamente scritto e si schiarì la voce «E’ proprio per questo che sono qui. Le nostre spie ci informano che vostra figlia è riuscita ad appropriarsi del manoscritto. La Ballata del dragone è in mano sua ormai.»
Nicolas tirò mentalmente un sospiro di sollievo. Pur non dandolo a vedere, l’ansia per la sorte della fanciulla l’aveva divorato come e più del destino del regno «Bene, ne sono lieto. Le profezie di mia moglie non preannunciavano nulla di buono.» Solo allora, leggermente rinfrancato dalla notizia, sembrò degnare della doverosa attenzione la corposa pila di missive. Inarcò un folto sopracciglio «E quelle cosa sono?»
«Lettere da parte di nobili allarmati. Nulla di cui la vostra regia persona si debba preoccupare.»
«Spero che questa situazione si risolva in fretta Nahir.»
«Anch’io sire, anch’io.»







E rieccomi qui con un nuovo capitolo. Introduttivo stavolta. Bene, avete fatto la conoscenza con Oren (uno degli scassapalle peggiori della storia) e con Nicolas, il padre di Mel. D’ora in poi (e questo alya16 e Tayra già lo sapevano) la storia si biforcherà in due, talvolta tre archi narrativi differenti, in modo da darvi un quadro più ampio della situazione  e per introdurvi personaggi che prima o poi si riveleranno preziosi.
Detto ciò, ci tengo a ringraziare (di nuovo) tutti quei santi che seguono, leggono o recensiscono la mia storia, in particolar modo le due citate prima:
alya16, che con i suoi commenti da criticona non può che migliorarmi (Torna a farlo a proposito, che quasi mi mancano i problemi che riesci a scovare) e alla mia carissima Kohai Tayra, che mi minaccia più o meno settimanalmente perché io aggiorni.
Detto ciò, vi saluto.

Sayonaraaaaa!

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Argorit