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Autore: Callie_Stephanides    23/03/2012    7 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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7.
Al tuo fianco

I nostri ultimi giorni – i soli che avemmo per amarci – furono un sogno in cui dolore ed ebbrezza, paura e trionfo, tenerezza e violenza si fusero nel farmaco miracoloso che mi restituì la vita.
Io, che avevo smesso di provare qualunque emozione che non somigliasse all’odio, persi la pelle.
La realtà mi colpiva con i suoi colori straordinari, con i suoi contrasti inaspettati, con la sua lancinante bellezza e l’orrore di notti infinite.
Era quasi Vinus, nel prendere congedo dalla propria umanità, volesse regalarmi l’abito che non avrebbe più vestito.
Dovevo – doveva – salvarmi: io, che l’avevo cacciato solo per scoprire che era la parte migliore di me.
 
Restammo insieme per un paio di settimane, ma l’intensità con cui vissi quei giorni li trasformò in una breve eternità. Contavo ogni bacio, ogni respiro, ogni carezza; per Vinus avrei fermato il tempo nell’unico modo pensabile: sigillando il cuore.

*

A bagno in uno dei crateri d’acqua bollente che costituivano l’ennesima insidia di una terra di ghiaccio e silenzio, fissavo il cielo e mi chiedevo come sarebbe stato tornare a Eleutheria, rivedere i luoghi in cui ero cresciuta, riabbracciare gli affetti che avevo tradito. L’orrore della mia metamorfosi mi appariva tanto più nitido quanto più mi specchiavo in Vinus. Scoprivo che anche la ferocia conosceva gradi successivi d’infamia e che la mia era forse la peggiore: il dracomanno aveva ucciso per vivere; io, invece, avevo cercato sangue per sangue.
Tra noi due, era la Makemagistra di Trier il peggior nemico della sua gente.
 
“A cosa pensi?”
 
A poca distanza dal punto in cui me ne stavo, rovesciata sul dorso come un pesce in agonia, Vinus percorreva il mio corpo con i suoi occhi da demone. Lo raggiunsi, sedendo su una roccia tiepida. Arrossata dal calore, la mia pelle aveva assunto una piacevole tinta rosata.
“A quello che ho perso.”
Ero sincera, ma non più brutale: lui, che di parole ne aveva così poche, era bravo a cogliere le mie, a penetrarmi oltre la difesa di un sarcasmo maldestro e della crudeltà dei conigli.
“Non ti capita mai?”
Strinse la presa sull’elsa. Nudo, sembrava ancora più candido accanto a quell’enorme, tenebrosa spada.
“Mi hanno insegnato che i vigliacchi colpiscono sempre alla schiena.”
“E allora?”
Allungò il braccio e raccolse tra le dita una ciocca dei miei capelli.
Sangue nella neve: ecco cosa ricordavamo, noi due. Eravamo una terribile metafora dei nostri tempi disperati.
“Il destino è vigliacco e dai vigliacchi non puoi difenderti. Devi guardare avanti e parare il colpo.”
“Una logica da dracomanno.”
“Chiamala come vuoi. Io so vivere solo così.”
Potevo dirgli che era anche così che si moriva, ma sarebbe stato inutile. Lo desideravo in modo rabbioso e viscerale proprio per com’era lui, né uomo né bestia. Forse l’eroe che mi era stato destinato. Forse un dio che non avrei mai capito.
“Com’era lei?”
“Lei chi?”
“La donna che ha preso il tuo posto.”
“Perché vuoi saperlo?”
“Perché sono ingorda.”
Vinus rise e la sua risata mi parve bella, non rabbiosa, non ostile, non crudele. Mi accarezzava con la bocca come avevano fatto le sue mani; mi riconosceva per quella che ero: una donna egoista e fortissima.
La sua compagna.
“Haga era come Niktos.”
“Ma siete stati amanti, immagino.”
“Era mia.”
“Non è una risposta.”
Vinus socchiuse le palpebre e mi baciò con dolcezza. “Non è la prima che conta, ma l’ultima, quella che vale.”
Due grosse lacrime mi scivolarono lungo le guance, dense come hydrargirium.
Vinus le raccolse sulle proprie labbra e me le restituì in punta di lingua.
L’amore era miele ed era sale: come avevo potuto dimenticarmene?
“Scusa, sono patetica,” singhiozzai. “È che…”
Vinus mi fece cenno di tacere e si rialzò; la coda ondeggiava inquieta, quasi ad anticipare l’incombere dell’ennesima minaccia.
“Ancora Falesi, vero?” domandai, con un tono che mi stupì per la sua fermezza.
Avevo smesso di avere paura? No, ma avevo scoperto cosa mi spaventava davvero: perdere le persone che amavo. Rispetto a un mostro chiamato ‘solitudine’, anche un Infero era ben poca cosa.
“Della specie peggiore,” rispose Vinus. “Allontanati dall’acqua.”
Obbedii senza obiettare, poiché l’incontro con il Wassblut – la graziosa sirena che era stata a un passo dal divorarmi – mi era bastato a capire che, se volevo sopravvivere, dovevo fidarmi di chi aveva dell’Icengard una memoria di carne e non codici muffiti.

*

In quei giorni di marce forzate e fame e fatica, il principe di Lephtys aveva fatto il possibile per educarmi, dunque per raccontarmi la terra che era stato costretto a conoscere e a dire propria.
Davanti al fuoco, rievocava il tempo che l’aveva forgiato e sfregiato. Facevo l’amore con il suo corpo e ne studiavo ogni cicatrice; per ogni cordolo slabbrato, c’era una storia, un’avventura, un nemico.
Ora sapevo che i Superi erano voraci ma stupidi; che erano un’avanguardia utile agli eserciti, perché percepivano la realtà in modo tanto rozzo da non farsene mai distrarre; che erano sensibili al calore e terrorizzati dalle fiamme.
Avevo imparato che ce n’erano tre classi, e che quelli delle rocce erano gli unici velenosi.
Ora, soprattutto, sapevo perché nessuno si fosse mai spinto tanto a nord da sfiorare la fine del mondo con le dita: il giardino che Dendre aveva offerto agli eleutheridi era un’ingannevole oasi di luce nell’ombra infinita del Male.
 
La faglia dell’Icengard era una feritoia terrazzata che sprofondava nel buio del cuore di Elithia seguendo una rozza spirale. Vinus ne conosceva solo i primi due livelli, perché lì era vissuto, finché non era diventato un cavaliere.

Aveva quattordici anni, quando era fuggito per catturare il primo liocorno: i capelli gli arrivavano alle anche e aveva già ucciso tante volte da non poterle più contare. Koiros lo faceva rinchiudere in un recinto con due o tre Superi del fango, il gradino più basso nella gerarchia dei demoni: gli piaceva vederlo combattere e vincere, o sanguinare e bestemmiare in una lingua ormai morta.
Adorava quegli occhi affamati e l’irresistibile bellezza di un corpo acerbo, che la quotidiana battaglia per la vita scolpiva senza scalfire.
Ipnotizzata dalla ruvida cadenza della sua voce, pensavo che quel ragazzino disperato avrebbe fatto impazzire anche me, che avrei amato la sua forza e il suo accanimento, perché quella era la mia lingua.
 
“Gli Inferi, il livello più alto della gerarchia dei demoni, sono molto attraenti a uno sguardo superficiale.”
Rievocavo la mia recente avventura e annuivo con il cuore in gola.
“E se pensi ai Wassblut, sei fuori strada: rispetto ai Falesi davvero pericolosi, sembrano ranocchi.”
“Sul serio?”
La mia lingua pungeva con il sarcasmo e cercava la rassicurazione di un bacio. Puntellato su un gomito, Vinus si lasciava guardare e continuava a raccontare, a raccontare…
Le notti erano diventate troppo brevi e, i giorni, un battito di ciglia.
Mi accanivo su ogni dettaglio della sua storia, fissandolo con i mille aghi della memoria, perché nessuno la dimenticasse; perché nei giorni del drago, tutti pensassero all’uomo, al ragazzo, al bambino.
Al principe.
“Lethor è il più potente dei Wyverblut, i demoni-viverna.”
“So di lui. Si dice anche che tu…”
“… Che l’ho sguerciato? È vero, ma è stato un colpo di fortuna. Non si aspettava che un cucciolo reagisse, dunque ha abbassato la guardia.”
“Non hai più tentato…”
Per tutta risposta, Vinus mi mostrò il solco di una cicatrice che partiva dalla clavicola e moriva a poca distanza dal capezzolo destro.
“Te l’ha fatta…”
“Gli è bastato un dito: i veri demoni possono aprirti la carne come se fosse creta molle.”
E, davanti al mio sgomento inorridito, aggiunse: “La madre di Koiros era una Spinnerkras. Della loro razza, te l’assicuro, è meglio non sapere niente.”

*

Quel giorno, tuttavia, sul bordo fumante di un lago d’acqua bollente, furono proprio i più pericolosi tra gli Inferi ad attaccarci.  
 
“Dimmi cosa posso fare.”
Vinus si volse appena. “Prima di tutto, evita iniziative che potrebbero danneggiare anche me.”
Sorrisi e mi allungai in direzione del tascapane.
Niktos, al contrario di quel che faceva di solito in simili circostanze, non osava avvicinarsi al padrone.
“È più intelligente di te,” mormorò Vinus, quasi mi avesse letto nel pensiero. “Sa con cosa avremo a che fare e preferisce…”
Strinsi il pugnale tra le dita e mi portai al suo fianco. “Non m’interessa. Questo è il mio posto e intendo restarci.”
 
Al tuo fianco.
Con te.
 
“Tu sei pazza,” disse, ma non c’era acredine nei suoi toni, quanto sorpresa – forse persino sollievo.
 
E poi la vidi.
 
“Lezione numero uno…” ringhiò Vinus, sollevando la spada. “… Non credere ai tuoi occhi.”
 
Il mio sguardo accarezzava forse la più bella donna di Elithia: labbra tumide e pelle di miele, solo Melian avrebbe potuto rivaleggiare con tale meraviglia.
Le folte chiome ricciute le scivolavano lungo le spalle in morbide onde, gli occhi – verdissimi – brillavano di una luce innaturale.
L’illusione, tuttavia, durò finché non ebbe superato il costone roccioso che cingeva la conca in cui ci stavamo bagnando, perché, quando lo fece, non potei trattenere un gemito disgustato.
L’umanità della chimera moriva all’altezza del pube, ove si gonfiava una sacca grigiastra; a sostenerla, otto scheletriche zampette orlate di una folta pelliccia.
Fissavo gli ispidi peduncoli oscillare nel vento, mentre alle spalle di una grottesca avanguardia si profilava una nutrita schiera di affamati simili.
“Niktos è un saggio,” balbettai, ma non arretrai di un passo.
Vinus sorrise, prima di scattare in avanti.
Lo vidi mirare a quel ventre teso e pulsante come un otre, aprirvi un profondo squarcio ed evitare con agilità il disgustoso liquame che ne eruttava.
“È acido!” urlò, forse perché intuiva che avrei tentato di imitarlo.
“Farò attenzione,” replicai, ma rinunciai all’idea di usare una lama corta per affrontare la schiera d’Inferi: nella migliore delle ipotesi, avrei rimediato una brutta ustione; nella peggiore, sarei vissuta abbastanza da assistere alla progressiva corrosione del mio corpo.
No, non ero pazza sino a quel punto.
Raggiunsi Niktos e ne accarezzai furtiva il muso.
“Non possiamo lasciarlo solo, lo sai? Siamo i suoi compagni: la paura è un lusso che non ci è dato.”
Il vigliacco scoprì due volte i denti, prima di lasciarsi montare; frattanto, Vinus era stato accerchiato.
“Muovi il culo, stupida bestia,” sibilai, senza pensare a quanto fossi rozza e mascolina e terragnola; a quanto poco di femminile fosse rimasto in me, eppure a quanto fossi donna, ora che combattevo per il mio uomo.
La bisaccia era ancora piena dei denti velenosi dei Superi; assicurata alla sella da cinghie, pendeva una pesante balestra.
Non c’era una delle armi del dracomanno che fosse alla portata del mio corpo, ma il cervello non si arrendeva.
Assicurai la balestra al capo di Niktos con spessi legacci di cuoio. Il liocorno sbuffò e raspò furibondo il suolo, ma comprese presto che potevo essere mille volte più molesta di una mosca.
Il corno mi forniva un appiglio formidabile; per assicurare una lunga gittata, dovevo tendere al massimo la corda e caricare il piolo della spinta necessaria: le mie braccia non erano abbastanza robuste, ma le gambe sì. Feci passare i finimenti attorno alla noce e la assicurai al mio polpaccio: come l’avessi teso, l’arma avrebbe raggiunto la massima potenza offensiva.
“Avanti. È tempo di combattere.”
Vinus aveva decapitato due Spinnerkras e ne aveva mutilato un terzo in modo grave: agonizzava sul fianco, stillando acido e un sangue nerastro, del tutto simile a olio.
Caricai la balestra e il primo dardo partì: il dente del Supero, leggermente ricurvo, non assecondò del tutto la traiettoria che avevo immaginato, ma si conficcò comunque nell’orbita d’una delle creature.
Il suo grido acuto e disperato si fuse al mio ululato di vittoria e al bramito di Niktos.
“Allora? Sono un impiastro?”
Vinus scosse il capo. Se rise, non mi diede la soddisfazione di saperlo dalla sua bocca.
Disposi una quadrella nella guida della balestra, un altro dente assicurato al vertice acuminato.
“Ora vediamo se non ti dirigi dove devi…”
Niktos sbuffava inquieto, ma si era infine piegato docile alla mia volontà, poiché in quella ferocia senza tremori riconosceva l’impronta del padrone.
Avevo l’odore e la fame di Vinus addosso.
Avevo la prova che il sangue era uno e che mio fratello aveva ragione.
Colpii al capo lo Spinnerkras che strisciava lento alle spalle del mio uomo; ne vidi il cranio esplodere, ma non provai niente: non schifo, non rimorso.
Ero lucida e fredda come mai prima, perché ero scesa nel gran trogolo della guerra e avevo imparato a nuotare. Non mi sarei più accontentata di guardare dall’alto: la vita era il basso che dovevo prendere a morsi.
Vinus mi fissava ora con insistenza e, per la prima volta da che i nostri destini si erano intrecciati, nei suoi occhi colsi stupore autentico: Leya di Trier era una rosa selvatica, non una stoppia bruciata, ma a sentirmi urlare ordini dal dongione, chi l’avrebbe mai capito?
“Alla tua destra,” dissi, mentre incoccavo un nuovo dardo.
Il cordino mi tagliava le dita e il vento che si era levato era tanto gelido da bruciare la pelle nuda, eppure non sentivo niente: non la stanchezza, non la paura.
Se quella era la vita che aveva cresciuto il principe di Lephtys, ci somigliavamo più di quanto Rael avesse anche solo osato immaginare.

*

“È finita.”
Fu la voce di Vinus a riscuotermi, mentre già frugavo nel tascapane alla ricerca di nuovi dardi.
 
“È finita, Leya.”
 
Tese il braccio e mi aiutò a smontare dal liocorno.
La conca in cui c’eravamo bagnati era ora un carnaio; nell’aria, un tanfo acido copriva persino l’odore d’uovo marcio che esalavano le acque sulfuree.
Mano nella mano, eravamo ombre sbiadite sotto un cielo dai colori irreali: una cortina rosso sangue, drappeggiata quasi fosse un manto, si snodava tra rare asole di luce.
“È la via dei draghi,” mormorò Vinus.
Chiusi gli occhi; un fischio del tutto simile al sibilo di una viverna sciabolò l’aria e mi stordì.
Caddi in ginocchio, mentre il principe di Lephtys sollevava il capo e rispondeva: la Bestia l’aveva sentito e si preparava a sfidarlo.

*

Il giorno dell’addio incombeva; vicino come disperavo di saperlo, poiché allora – era una certezza – sarebbe esplosa anche l’ultima guerra che avrebbe bagnato di sangue l’Eumene.
Mentre Vinus ed io ci appressavamo alla piana di Mizar, infatti, i traditori che avrebbero salvato Eleutheria tornavano a Trier.
Fu mio fratello il primo a bussare alle porte della Capitale e a denunciarsi; lo fece declinando il nome dei suoi avi e la storia che l’aveva nutrito.
Lo fece con l’orgoglio dei due mondi che voleva difendere.
 
“Sono Rael, figlio di Freil e figlio di Leonar, padre di Lukas e cittadino di Trier.”
La sua voce risuonò nel silenzio dell’alba, anticipando quella dei compagni che ne avrebbero condivise le sorti.
“Sono Jail, figlio di Norbh, cittadino di Trier.”
“Sono Melian, figlia di Luthien, sposa di Rael, madre di Lukas, cittadina di Trier.”
“Sono Leonar, decano del Collegio, magister di Trier, padre di Leya e di Rael.”
 
E ancora mio fratello: “Siamo tornati per rimetterci al giudizio della Legge, per combattere e per difendere Trier.”
 
Le porte si aprirono. Ad attenderli, tuttavia, c’erano solo Nephyl e un silenzio spettrale.
La Capitale sembrava morta.
 
“La Makemagistra ci ha lasciati. Non avete più nulla da temere,” fu quel che disse loro.
Mio padre strinse i denti e annuì a capo chino. Rael gli accarezzò le spalle, poi cercò gli occhi freddi del Generale. “Ho visto la polvere scendere dal nord: dobbiamo prepararci a combattere sino all’ultimo uomo.”
“Non dureremo tanto da…”
Mio fratello avanzò di un passo. “Liberate i dracomanni e dureremo.”

   
 
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