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Autore: Ila_Chia_Echelon    03/07/2012    4 recensioni
Raccolta di racconti horror creati da due menti perverse (si consiglia di non utilizzarli allo scopo descritto nel titolo) con parecchi cuori strappati, sangue e per fortuna (o sfortuna) significati non del tutto ovvi e superficiali...a voi l'interpretazione!
Auguriamo a tutti una buonanotte...
Genere: Fantasy, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Vengeance & bones

Stefano si buttò di peso sul letto e iniziò a piangere silenziosamente. Non avrebbe voluto, ma era pur sempre meglio farlo lì, in camera sua, che a scuola davanti a tutti.
L'ennesima, infernale giornata – una delle tante negli ultimi due anni – si era finalmente conclusa, lasciandolo affogare nella sofferenza che prepotentemente lo assaliva ogni volta.
Tredici anni, tredici orribili anni.
No. Si corresse, ricordava un'infanzia gioiosa, una famiglia amorevole, amici sinceri...ma tutto era cambiato.
Alle elementari non importava come si vestisse, cosa facesse nel tempo libero, che genere di musica ascoltasse. Tutto ciò che i compagni tenevano in considerazione nel giudicarlo ruotava intorno al fatto che fosse un bimbo gentile e, soprattutto, sempre pronto a giocare.
Ma si cresce, si cambia, a volte in peggio. Alle scuole medie non interessavano a nessuno il suo comportamento educato, la sua intelligenza; era un ragazzo silenzioso, amava leggere, e per questo una sola, umiliante etichetta gli era stata affibbiata dai compagni: sfigato.
"Sfigato, sei uno sfigato" gli ripetevano in continuazione, i volti distorti da ghigni derisori che gli riempivano la mente nei momenti più bui, non facendo che aumentare la sua voglia di vendicarsi e, allo stesso tempo, di sfogare l'umiliazione nel pianto.
Per questo nelle mattinate più terribili, dopo essere tornato a casa, si chiudeva in camera piangendo; dopodichè cercava di lavare via le lacrime come meglio poteva e si stampava in faccia il suo più luminoso e falso sorriso, a beneficio dei genitori distratti.
Una sola cosa lo spingeva ad andare avanti, un solo, bellissimo sogno che conservava gelosamente dentro di sè, finchè non sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbe avverato dando compimento a una sua speciale vendetta personale.
Sarebbe diventato uno scrittore, ma non uno scrittore qualunque. Sarebbe diventato un GRANDE scrittore, le morbide copertine dei suoi best-sellers avrebbero riempito le vetrine di ogni libreria, avrebbe guadagnato successo, stima e denaro, mentre i bulli che lo deridevano sarebbero rimasti nei loro squallidi uffici a sgobbare su un lavoro che non amavano nè avrebbero mai amato, ne era certo.
Mentre assaporava il dolce gusto della sua vendetta gli parve di sentire un rumore, uno schiocco sonoro proveniente dall'interno dell'armadio, dalla parte opposta della stanza.
Il torpore si era già impossessato delle sue membra e non aveva assolutamente voglia di alzarsi a controllare (probabilmente era semplicemente caduta una gruccia), ma sarebbe comunque dovuto scendere per il pranzo di lì a poco, dunque sospirò profondamente e si mise a sedere sul soffice materasso.
Si strofinò gli occhi arrossati e si alzò, lo sguardo vagamente puntato sull'armadio bianco.
Mentre posava i polpastrelli sull'anta per aprirla percepì un altro suono dietro di essa, e ciò lo spinse a ritrarsi per un attimo. Le grucce avevano deciso di cadere tutte quel giorno? Forse un insetto si era in qualche modo introdotto lì dentro e adesso tentava di uscire.
Scacciò ogni dubbio con una scrollata di spalle, e in quel momento una voce lo riportò alla realtà: «Stefano, è pronto! Vieni giù a mangiare!»
Sua madre lo chiamava e inoltre sentiva un certo languorino. L'armadio avrebbe aspettato.



Il giorno seguente, appena dopo la scuola, lo accolse in camera un altro di quei suoni bizzarri dei quali constatò di essersi completamente dimenticato, soprattutto perchè non si erano più ripetuti.
Ovviamente aveva aperto l'armadio per prendere i vestiti che indossava, ma non aveva notato niente di anomalo.
Stavolta i rumori erano ravvicinati tra loro, rapidi e brevi, quasi insistenti.
Senza alcun indugio Stefano si avvicinò all'armadio e l'aprì.
Ciò che si trovò davanti fu tanto stupefacente da far finire il ragazzo per terra, il quale poi si trascinò repentinamente sulle mani finchè non urtò la sponda del letto e dovette arrestare la sua spaventata corsa.
Ora capiva perfettamente l'origine di quegli schiocchi, così secchi e particolari, così simili al rumore che aveva fatto un osso della sua gamba quando se l'era rotta 7 anni prima.
Cosa ci faceva quella..quella cosa nel suo armadio?
La risposta non avrebbe tardato ad arrivare, si disse, poichè poco dopo una voce, se così la si poteva considerare, iniziò a risuonare nella stanza, provocandogli un brivido lungo la spina dorsale.
Ciò che ne scaturì suonò davvero assurdo, pronunciato da quel sibilo scivoloso e freddo, quasi una cupa cascata di cristalli ghiacciati che grattassero la gola dello strano individuo.
«Ciao...non avere paura, ok? Sono lo scheletro del tuo armadio e..ehm, immagino che tutti ne abbiano uno no?»
«C-che cosa sei?»
«Uno...scheletro?» gli dissero due orbite vuote, fissandolo con un che di scettico.
«L'ho capito! Vattene! Vattene! Sei solo un incubo, adesso chiudo gli occhi e tu sparirai! Ecco...» Stefano abbassò le palpebre, ma quando le riaprì si ritrovò davanti un ossuto sorriso che, per quanto cercasse di apparire amichevole, non faceva altro che sortire l'effetto contrario.
«Oh, cazzo...»
«Va bene, va bene! Adesso mi allontano, calmati. Sono tuo amico, te lo vuoi ficcare in quella stupida testa da essere vivente?!» sbottò lo scheletro, poggiandosi all'anta del guardaroba.
"Ok, Stefano, adesso tu respiri, respiri profondamente e se dio vuole questo coso non ti ucciderà non ti ucciderà non ti ucciderà non.."
«Allora! C'è qualcosa che vorresti chiedermi?»
"Parla, Stefano, parla se non vuoi farti ammazare..."
«Be'...vediamo...perchè vivi nel mio armadio? E cosa sei, nello specifico? Sul serio, sei un fantasma, uno zombie o che so io?» disse con voce tremante, senza muoversi di un millimetro.
«Diciamo che sono, come dire, il frutto delle tue sofferenze...è come se..come se fossi stato consumato da tutto ciò che provavi. Penso di essere qui per consolarti, in un certo senso.»
«Ok, e come pensi di farlo?» chiese il ragazzo, non molto convinto.
«Be', direi...parliamo?» Il mucchio d'ossa si sedette a gambe incrociate accanto a Stefano, aspettando che iniziasse a sfogarsi.
Dopo i primi tentennamenti il ragazzo gli raccontò di come andavano le cose a scuola, di quanto desiderasse una vendetta, di quanto volesse farsi capire dagli altri. Era una situazione totalmente assurda e Stefano si disse che in fondo quello strano personaggio sembrava ascoltarlo veramente, come nemmeno i suoi genitori erano mai riusciti a fare, e in quel momento pensò di essere sul punto di impazzire.
Al momento di andare a dormire credette quasi di percepire la fuggevole illusione di aver trovato un amico, un amico non tradizionale, ovviamente, ma pur sempre una persona disposta a consigliarlo e incoraggiarlo, soprattutto perchè conosceva meglio di lui il suo stesso dolore.
Forse era tutta un'allucinazione, forse stava realmente andando fuori di testa, e mentre lo scheletro si coricava nel suo armadio Stefano capì che, qualsiasi cosa fosse, l'avrebbe scoperto l'indomani.

 

Stavolta, rientrato da scuola, corse dritto verso l'armadio; era un'altra di quelle giornate terribili e aveva decisamente bisogno di qualcuno con cui sfogarsi.
Scostò l'anta e trovò lo scheletro seduto lì dietro, calmo e pacifico ad aspettarlo. Gli disse di sedersi accanto a lui e Stefano accettò. Da piccolo aveva fatto dell'armadio il suo personale rifugio dal mondo e vi si nascondeva spesso e volentieri. Crescendo aveva perso quell'abitudine, ma adesso non gli sembrava una cattiva idea riprenderla.
Riversò nello spazio angusto e buio (aveva richiuso l'anta) tutto il suo odio per un suo compagno, un certo Michele, che era il più agguerrito dei suoi persecutori, e non faceva altro che vomitargli addosso insulti dalla prima all'ultima ora. Lui era troppo timido per difendersi, non ne aveva il coraggio, e così la sua frustrazione non faceva che aumentare, di pari passo con gli insulti.
Lo scheletro, da Stefano soprannominato TJ (non aveva idea di cosa T e J dovessero significare, ma il nome gli suonava bene) gli disse che quel ragazzo si sarebbe davvero meritato una lezione, che tutto si sarebbe sistemato prima o poi, che non doveva preoccuparsi. Stefano non era tanto sicuro che le cose sarebbero cambiate; comunque continuò a parlare con TJ, raccontandogli del suo sogno di scrittore, della sua passione per la lettura.

 

Il giorno dopo tornò a casa totalmente sconvolto, e non per i soliti motivi.
TJ! TJ! Iniziò a gridare appena entrato in casa (i suoi non c'erano).
S
palancò con violenza l'anta bianca e afferrò lo scheletro per il polso ossuto. Il contatto lo fece rabbrividire ma non ci fece molto caso, preso com'era dalla collera.
«Sei stato tu! Sei stato tu vero?»
«Cosa?! Che c'è?»
Le lacrime iniziarono a scorrergli lungo le guance. «Lo sai benissimo, TJ. Dimmi la verità! Perchè l'hai fatto?»
«Pensavo che ne saresti stato felice! Non era questo che desideravi? Non avresti voluto che smettesse di prenderti in giro?!»
Lo sapeva. Inizialmente non ci aveva pensato ma era stata una coincidenza troppo grande, troppo immediata per essere, appunto, una vera coincidenza.
«Tu non capisci! Ti rendi conto di quello che hai fatto?! Io volevo che mi lasciasse in pace, volevo dargli una lezione, ma non volevo fargli del male! Ciò che hai fatto è irreparabile! Pensa a quante persone staranno male, adesso! Pensa a tutti i suoi amici, i suoi famigliari...Non hai fatto altro che peggiorare la situazione!»
Stefano era fuori di sè, sconvolto al pensiero di ciò cui aveva assistito pochi minuti prima.
Era in giardino con la sua classe, facevano lezione di arte in cortile, come spesso capitava nelle giornate più calde e luminose. La professoressa era rientrata nell'edificio scolastico per una telefonata.
Michele aveva improvvisamente abbandonato il disegno a cui stava lavorando e si era diretto in un angolo del cortile. Aveva afferrato la corda che vi era posizionata – le bambine delle elementari (la loro scuola era annessa alle medie) la usavano spesso per saltare all'intervallo – e si era arrampicato sull'albero che svettava al centro del cortile.
Tutti pensavano scherzasse – non era insolito da parte sua organizzare certe scene per attirare l'attenzione su di sè – finchè non aveva annodato la corda al ramo più robusto, aveva fatto un cappio all'altra estremità e se l'era messa al collo, gettandosi poi nel vuoto.
Tutti i ragazzi erano stati mandati a casa in anticipo con i genitori, anche se ormai mancavano pochi minuti al suono dell'ultima campanella, e Stefano era tornato a casa da solo, come sempre, poichè i suoi erano via per lavoro e non aveva nessun altro, all'infuori di loro.
Il viaggio in autobus non gli era mai sembrato così lungo.
Ora il ragazzo singhiozzava rumorosamente, e TJ cercò di consolarlo senza risultati. Come poteva non rendersi conto di ciò che aveva fatto? Stefano non capiva nemmeno come fosse stato in grado di farlo. Non gli importava più di tanto, stava pur sempre parlando con uno scheletro che gli rispondeva e si muoveva, doveva aver usato un qualche tipo di magia, la magia esisteva.
Comunque almeno per il momento non voleva sentire una sola sibilante parola uscire da quell'involucro vuoto, voleva solo dormire e non svegliarsi per molto tempo, se possibile.
Cacciò TJ fuori dalla camera e si chiuse nell'armadio a piangere.

 

La sera dopo avevano fatto pace.
Nemmeno Stefano si capacitava di come fosse successo, ma si era ripetuto che TJ era ingenuo, non capiva del tutto quello che faceva, era come un neonato che doveva essere educato, "questo è giusto, questo non si fa". Aveva cercato di spiegarglielo, era sicuro avesse capito, era buono, era un buon amico, il suo unico amico. Non poteva permettersi di perderlo per una...sciocchezza.
Ed era convinto non si sarebbe mai più ripetuta una cosa del genere.

 

Una sera di qualche giorno dopo Stefano aveva appena finito l'usuale chiacchierata con TJ (qualche volta giocavano persino a carte o ascoltavano qualche canzone) e si stava rimboccando le coperte, ma qualcosa gli impediva di addormentarsi.
Leggermente intontito dal sonno, iniziò a grattarsi freneticamente il polpaccio destro; pensò a una puntura di zanzara, anche se di solito non si facevano vive in quel periodo. Continuava a grattare e scorticare la pelle, il prurito era insopportabile, e non smise finchè non sentì i polpastrelli ricoperti da qualcosa di caldo e terribilmente viscido. Terrorrizzato, scalciò le coperte di lato e accese la luce.
Le sue mani e gran parte del materasso erano ricoperti di sangue, la ferita – perchè ormai di questo si trattava – era un'orribile grumo di sangue, pus e pelle strappata.
Corse in bagno e con grande difficoltà esaminò meglio il taglio.
La cosa strana era che non sentiva alcun dolore; tuttavia era pur sempre la cosa più orribile e rivoltante che avesse mai visto.
Cercò di disinfettarla, la fasciò alla bell'e meglio e tornò in camera, dove cambiò le lenzuola molto approssimativamente (sua madre sarebbe davvero servita, in quel momento), e si rimise a letto.
Faticò ad addormentarsi a causa del pensiero, sempre vivo e pulsante, di quell'orrenda cosa sulla gamba, ma dopo un'oretta cadde nel mondo dei sogni, o meglio, degli incubi.

 

La mattina dopo, al risveglio, il ricordo della sera precendente lo colpì come un proiettile in pieno stomaco e, con paura e speranza mescolate assieme, decise di togliere la fasciatura e controllare se la situazione fosse migliorata.
Non lo era affatto.
Dovette cambiare la garza, ormai inutilizzabile, e con un sospiro pregò che tutto si sistemasse. Era quasi completamente solo, aveva paura, e soprattutto non voleva andare in ospedale. Odiava i medici.
Si accostò al rubinetto del bagno per lavarsi il viso e un urlo soffocato gli uscì dalla gola quando vide il suo riflesso nello specchio sopra di esso.
Un orribile squarcio, simile a quello sulla gamba, gli sfregiava la guancia sinistra dallo zigomo fino al mento. La carne rosea aveva un aspetto malato, marcio, e Stefano non osò nemmeno sfiorarla.
L'unica cosa che fu in grado di fare fu correre più veloce che poteva dal suo migliore amico, nonchè verso il suo unico rifugio, l'unico luogo in cui si sentisse al sicuro.
«TJ! TJ aiutami! Non so cosa siano questi tagli, ho paura, aiutami ti prego aiutami ho paura...» disse Stefano allo scheletro, la voce spezzata dai singhiozzi.
Entrò nell'armadio e l'amico lo sfiorò con le fredde falangi.
«Stai tranquillo. Non senti dolore, sono solo dei tagli innocui. Non ti succederà niente di male...»
Le parole scorrevano come miele nelle orecchie di Stefano, che cominciava a sentirsi meglio.
«...Non pensarci, ci sono qui io ad aiutarti..pensa solo a riposarti, a sognare, a dormire...pensa a dormire.»
Il torpore iniziò ad avvolgere il suo corpo in una confortevole nebbia, tutte le preoccupazioni, le paure sembrarono scivolare lentamente in un qualche tipo di gas anestetico e, un attimo prima di cadere nel buio più buio che avesse mai visto, nel nero più profondo e irraggiungibile che avesse mai conosciuto, a Stefano parve di scorgere la sfavillante oscurità di una fiamma negli occhi dello scheletro, una fiamma guizzante e dolce come la vendetta.

 

Due giorni dopo.

Simona aprì la porta di casa e con un sorriso soddisfatto lanciò borsa e giacca sul divano del salotto, finalmente libera di fare ciò che voleva. I viaggi di lavoro erano sempre stressanti e parevano infiniti, ma non c'era niente come il momento in cui tornava nella sua tana confortevole, respirando già l'aria di relax e svago del weekend in arrivo.
In casa c'era un silenzio non inusuale; Stefano era un ragazzo silenzioso e diligente, sicuramente se l'era cavata benissimo in quei pochi giorni di solitudine, anzi, probabilmente era stato felicissimo di rimanere per un po' senza il controllo dei genitori.
«Stefi? Tutto bene amore? Sono tornata!»
Nessuna risposta. Simona sorrise, chiedendosi quale libro catturasse l'attenzione del figlio in quel modo.
Salì con calma le scale che portavano alla sua camera, esaminandosi nel frattempo le unghie. "Qui urge una bella manicure" si disse.
«Allora? Non vuoi nemmeno salutare la mamma?» parlò ridendo all'aria.
La porta della cameretta era stranamente aperta. Simona entrò ma non vide nessuno.
«Ti nascondi anche adesso? Sai che non mi piace essere presa in giro!» gridò, ma continuava a ridere.
Decise di stare al gioco del figlio: cercò in tutte le camere, nei bagni, scese persino in cucina e in cantina, ma niente. Adesso iniziava a preoccuparsi. Si chiese dove potesse essere andato; doveva per forza essere in casa, non usciva praticamente mai, soprattutto negli ultimi tempi, che passava sempre più spesso rinchiuso in camera.
«Stefano? Stefano vieni fuori adesso! Sono stanca, vuoi un bel castigo?!» urlò, la voce leggermente isterica. Tornò di corsa alle camere e, rientrando in quella del figlio, le parve di percepire uno strano odore. Le fece arricciare il naso e corse ad aprire la finestra.
Si aggirò per la camera cercando di capire da dove provenisse, e un'insana paura si fece strada nella sua mente quando individuò l'armadio come l'origine del fetore.
Aprì l'anta tappandosi il naso e urlò senza quasi sentire la sua voce per quanto era forte.
Svenne con ancora l'immagine impressa sotto le palpebre, l'immagine del corpo orribilmente putrefatto di suo figlio accanto ad un mucchietto di lucide ossa su cui svettava, in tutta la sua cattiveria, un teschio vuoto e paurosamente sorridente.

   
 
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