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Autore: ferao    04/10/2012    2 recensioni
Si zittì, accorgendosi che Fera la stava scrutando in modo strano. - Med, - disse questa, lentamente, - spiegami una cosa.
- Dimmi.
- Percy ti è sempre stato antipatico. Sempre. A scuola non capivi come potessimo essere amici; quando ci siamo messi assieme, invece di dirti felice non hai fatto altro che prendermi in giro e chiedermi come fosse possibile una cosa del genere; e adesso che sono io a detestarlo con tutte le mie forze, per motivi legittimi e comprensibili, tu lo difendi a spada tratta. Si può sapere che diavolo sta succedendo?

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NB: presenza di self-insertion e other-insertion moleste. Aprire con cautela. Maggiori spiegazioni nelle note iniziali. Se volete pigliarmi per pazza, fatelo pure, che avete ragione.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: George Weasley, Nuovo personaggio, Percy Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
- Questa storia fa parte della serie 'Laphroaig - Delirium'
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(Dolenti) note iniziali:
la storia fa parte dell’infinita serie di ff nate dalle sfide tra me e MedusaNoir. Questa, in particolare, va assolutamente letta DOPO Atterrerò sulle tue spine (che vi darà il quadro generale in cui è inserita la questione), E graffierò ogni tua cellula (in quanto gli eventi qui descritti sono collocati tre settimane dopo questa storia) e Dipingerò di rosso la sabbia (per capire la storia di Med e Fera).
Se le conoscete già, potete procedere alla lettura. Altrimenti è consigliabile farvi un giro.
 
Per chi ancora non lo sapesse, questo ciclo di storie (i cui titoli sono semplicemente frasi della canzone Laphroaig dei Follow The Mad, quindi non sperate di trovarci un senso) nasce da alcune sfide che io e MedusaNoir ci siamo lanciate a vicenda. Purtroppo, queste sfide riguardavano sempre un personaggio che entrambe odiamo (anzi, che Medusa AMA), ossia Percy Weasley.
Questa cosa ci ha un po’ preso la mano, e adesso abbiamo creato un vero e proprio universo parallelo in cui ogni tanto facciamo capolino e tiriamo fuori qualche storia a buffo. Così, per divertimento.
 
Spero che la ff non vi dispiaccia troppo, e in ogni caso ricordate che è stata scritta per puro svago e divertimento mio e di Medusa e che la pubblico solo perché a lei è piaciuta. Rammentatelo, mentre cercate i pomodori più grossi da lanciarmi.
 
Buona lettura,
Fera
 
 
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mentre i Pennuti suoneranno da un cielo ametista
 
 
 
 
Susan odiava essere in ritardo. Ci teneva ad arrivare sempre puntuale, se non addirittura in anticipo rispetto ai tempi stabiliti. Odiava essere in ritardo, per un semplice motivo: sin da quando era piccola, sua madre le aveva insegnato che chi arriva tardi a un appuntamento è un cafone.
Sei una cafona, Susan? No. E allora non fare mai tardi, per nessun motivo.
Certo, la vita di Susan sarebbe stata molto più semplice se tutti, attorno a lei, fossero stati egualmente amanti della puntualità; in particolare, alla ragazza sarebbe piaciuto moltissimo che almeno la sua compagna di stanza fosse in grado di alzarsi alle sei in punto ed essere pronta per le sette, in modo di arrivare al San Mungo entro le sette e un quarto – in largo anticipo sull’inizio del loro turno. Purtroppo, così non era né sarebbe stato mai.
Per questo quel mattino – come molti altri mattini – emise un verso di stizza e si accinse a svegliare la sua coinquilina a tutti i costi, anche a calci se necessario.
- Sono le sei e un quarto! - proclamò, spalancando le imposte. La scarsa luce del sole di ottobre entrò con prepotenza nella stanza, andando a colpire il letto dove giaceva una figura raggomitolata su se stessa.
- Muoviti, dovevi essere in piedi secoli fa - proseguì Susan, petulante. - Ho già fatto la doccia, usa pure il bagno ma non metterci troppo, che tra poco si sveglierà Yvonne. E sto facendo il tè, quindi muoviti se non vuoi berlo freddo.
Da quello che sembrava un ammasso di lenzuola uscirono fuori una mano e una voce. - Il tè la mattina mi fa schifo.
- Beh, allora provvedi da sola alla tua colazione, signorina. Io ho già perso troppo tempo dietro a te.
Detto questo, Susan uscì dalla stanza, preda della sua consueta frenesia.
Passarono all’incirca trenta secondi, prima che Fera si decidesse a sbucar fuori dal groviglio di coperte in cui si era avvolta durante una notte agitata.
Diamine. Era la prima volta che dormiva da tre settimane a quella parte, e quell’oca di Susan si permetteva anche di fare la spiritosa. Che andassero al diavolo, lei e le sue manie.
Sbuffò con ferocia e si costrinse a mettersi seduta sul letto, appoggiando i piedi sul pavimento freddo per cercare di svegliarsi. Ciondolò fino al bagno, e solo la doccia ebbe la meglio sulla sua stanchezza.
Stanca. Si sentiva sempre stanca, quel mese. Stanca, tesa e nervosissima. E ne avrei anche il diritto, insomma. O no?
Forse no, non ne aveva il diritto; in fondo, aveva sempre detto a se stessa e agli altri di essere un tipo forte, di non lasciarsi andare facilmente alla tristezza. Quando veniva qualcuno da lei in cerca di conforto, Fera lo spronava a resistere, a tirarsi su, a non cedere allo sconforto: adesso doveva solo riuscire ad applicare quei consigli a se stessa.
Sì, come no. Non darò mai più consigli a nessuno, questo è certo. Bah.
Finita la doccia si assicurò di non aver lasciato un lago in bagno, si asciugò in fretta e corse a vestirsi in camera. Lì Susan l’aspettava già vestita di tutto punto insieme a Yvonne, la loro coinquilina.
- Finalmente. Toh, manda giù questo e poi andiamo - disse Susan, mettendole in mano una fetta di torta e una tazza di tè. A Fera si strinse lo stomaco.
- Non ho fame, Sue - brontolò, infilandosi di corsa la veste che usava per il tirocinio.
- Non ho fame, non ho fame - le fece eco Susan. - Non hai mai fame. Vivi di aria, forse? Mangia e taci, che altrimenti mi diventi uno scheletro ambulante.
Fera avrebbe voluto ribattere che le ci sarebbero voluti anni per dimagrire così tanto, ma si trattenne. Bevve tutto d’un fiato il tè, ormai tiepido, e avvolse la torta in un fazzoletto con la promessa di mangiarla più tardi.
- Più tardi. Certo. Te la mangerai mentre siamo in viaggio, punto e basta. Ti controllo - ribadì Susan prima di uscire di casa, seguita da un’affranta ed esasperata Fera.
 
Quella storia andava avanti da parecchi giorni, ormai. Per l’esattezza, dalla sera in cui Fera era tornata, a un passo dalla crisi di nervi, nel piccolo appartamento che aveva diviso con due ragazze prima di trasferirsi da Percy.
Non era chiaro perché ma, da quando Fera aveva fatto ritorno, Susan – con cui non aveva mai avuto un particolare rapporto di amicizia, se non quello che si può creare tra due persone costrette a dividere la stanza – sembrava essersi assunta l’incarico di controllare la sua salute, obbligandola a mangiare più del necessario e a uscire di casa anche quando non ne aveva la minima voglia. Tutto ciò nell’ottica dell’“hai passato una brutta esperienza, devi riprenderti”.
Ma riprendersi da che? Da cosa? Fera non capiva. Lei stava bene. Sì, i primi giorni dopo la rottura erano stati difficili e tristi, e ancora adesso a ripensarci provava una gran rabbia che la faceva fremere in tutto il corpo; ma sarebbe passato, doveva passare.
Masticò la fetta di torta senza alcuna fretta, soffermandosi su ogni singolo boccone. Sperava, in questo modo, di spazientire Susan, ma questa seguitava ad osservarla mentre camminavano verso l’entrata del San Mungo, e a punzecchiarla se cercava di mettere da parte il fastidioso alimento.
Fu con sollievo che Fera la salutò al pianterreno e attese che fosse entrata nel suo reparto, Incidenti da manufatti. Fece sparire in un secchio quel che era rimasto della sua colazione e si diresse verso il terzo piano, pronta ad affrontare un’altra giornata di tirocinio.
Magari stavolta sarebbe tornata a casa così stanca da addormentarsi di colpo, senza avere il tempo di ascoltare le lamentele di Susan e le chiacchiere di Yvonne… senza pensare a niente. Sì, era possibile.
E se così non fosse stato… beh, doveva solo prepararsi a un’altra notte inquieta.
 
Fu durante la pausa pranzo che incontrò Med per la prima volta dopo tre settimane. Vagava come un’anima in pena per la sala mensa riservata ai tirocinanti, incerta sul posto dove sedersi. Fera sorrise tra sé: finalmente un volto davvero amico.
Facendo due calcoli, doveva aver appena iniziato il secondo anno di tirocinio. Fera non si stupì di trovarla là: Med aveva sempre avuto un talento per le pozioni e gli incantesimi più elementari di Guarigione, di sicuro si sarebbe trovata benissimo al San Mungo.
Alzò un braccio per farsi notare, e quando Med si voltò verso di lei la salutò agitando la mano. Rimase però delusa: la sua amica non rispose al saluto, ma abbassò lo sguardo e si dileguò in mezzo a un gruppo di tirocinanti di terzo anno.
Ah. Fantastico.
Fera sospirò, scosse la testa e iniziò a infilzare la sua insalata senza mangiarla, l’umore più basso che mai.
 
Aveva conosciuto Med a scuola, all’inizio del settimo anno. Med era al sesto, Serpeverde, ma erano andate d’accordo sin dal primo momento; avevano anche avuto una breve relazione, finita prestissimo, che però non aveva lasciato strascichi di rancore. Erano rimaste molto amiche, e neppure la storia tra Fera e Percy – cui il mondo intero pareva essere diventato contrario, da un certo momento in poi – aveva scalfito quel rapporto.
Quando Fera aveva terminato Hogwarts, lei e Med si erano tenute in contatto: si scambiavano racconti e pareri, la prima non faceva che parlare della novità di vivere con persone estranee e lavorare in un ambiente così magico e diverso da Hogwarts, e la seconda scriveva sempre e solo di un certo ragazzo con lunghi capelli rossi e parecchi anni più di lei che aveva conosciuto in una maniera così assurda da sembrare uscita da un film Babbano. “È quello giusto” erano le parole ricorrenti delle lettere di Med. “È quello giusto.”
Povera, povera Med. Non era quello giusto, non lo era mai stato; la sua storia con lui era terminata il giorno stesso della rottura tra Percy e Fera – strano e crudele scherzo del destino. Fera se l’era ritrovata a casa il mattino dopo, gli occhi asciutti ma il cuore infranto e, soprattutto, un immenso bisogno di conforto. Chissà quanto doveva aver pianto la sera prima, quella poveretta? Almeno quanto lei, di questo Fera era certa.
Povera, povera Med.
Fera sospirò di nuovo e lasciò perdere il pranzo; non aveva fame, non più da quando aveva ripensato a ciò che era successo tre settimane prima. E anche se poteva capire che Med non volesse qualcuno attorno – il momento difficile, il bisogno di affrontare la realtà, la paura di confrontarsi con la sofferenza altrui… – , quel mancato saluto faceva male.
Parecchio male.
 
Ovviamente, di lì a poco sarebbe andata peggio.
 
- Ciao.
Presa alla sprovvista, Fera sobbalzò. Era ormai sera, e l’ingresso del San Mungo era affollato di visitatori pronti a tornare a casa e Guaritori il cui turno era terminato, ma la ragazza avrebbe riconosciuto quella voce tra un milione.
- Ciao - rispose, voltandosi e regalando un sorriso a Med. Questa le era arrivata alle spalle di soppiatto, e ora stava ricambiando il sorriso con una smorfia stiracchiata. Fera notò che aveva l’aria stanca, o forse non sopportava di indossare l’orrida veste color ocra dei tirocinanti.
Come la capiva.
Quando l’apertura dell’ospedale divenne visibile attraverso il muro di persone, le due ragazze si fecero largo tra la folla e uscirono all’aria aperta. - Come stai? - domandò Fera, una volta che fu possibile parlare senza inciampare in qualcuno. - Prima, a pranzo, ho provato a salutarti, ma credo che tu non mi abbia vista…
- Sto bene - tagliò corto Med. E poi: - Vorrei parlarti.
Strana, molto strana quella scarsa loquacità. E anche quello sguardo spento e nervoso era strano – sguardo che, tra l’altro, Med evitava accuratamente di incrociare con quello di Fera.
Possibile che anche lei stesse ancora così male?
Certo che sì. Anzi, peggio. Lei ha perso qualcuno che l’amava davvero, o almeno che glielo dimostrava.
- D’accordo. Caffè Babbano?
- Quello che ti pare.
 
Se fossero entrate in quel bar con addosso le vesti da tirocinanti, di sicuro avrebbero attirato tutti gli sguardi su di loro; fortunatamente Fera era ancora abbastanza brava in Trasfigurazione da ricordare un modo rapido e sicuro di mutare gli abiti.
- A volte mi diverto a farlo quando sono fuori casa. È un incantesimo comodo, se ad esempio inizia a far freddo o a piovere - raccontò a Med, cercando di intavolare una conversazione. Erano sedute davanti a due tazze di tè, ma questo non sembrava mettere la ragazza più giovane a suo agio: teneva il capo chino e gli occhi fissi sull’infuso, persa in pensieri tutti suoi.
Al che, Fera intuì che forse era meglio stare in silenzio. Probabilmente Med era dispiaciuta per il modo in cui l’aveva evitata a pranzo e voleva farsi perdonare tenendole compagnia; meglio lei di Susan, in ogni caso – Susan, dannazione, la aspettava per cena, se fosse tornata tardi come minimo l’avrebbe affatturata…
- Hai più sentito Percy? Da… quella sera, intendo.
La domanda di Med la sorprese: non tanto perché finalmente aveva deciso di parlare, quanto per l’argomento toccato. Percy.
Quando mai Med si era interessata a Percy, o a lei e Percy? Fera sapeva che tra i due non correva una gran simpatia, sin dai tempi della scuola. Perché, adesso, Med tirava fuori quella questione?
- Io… no, ovviamente no. Non lo vedo e non lo sento, grazie a Merlino.
Med annuì, il capo ancora chino. Poi disse una cosa che stupì Fera ancora di più.
- Non mi hai mai raccontato come vi siete lasciati.
Fera tacque, assorbendo la domanda. - Non me lo hai mai chiesto - rispose. - E poi avevi già i tuoi problemi a cui pensare, non volevo buttarti addosso anche i miei…
- Ma questo non è giusto. Io ti ho detto tutto di Bill e me, e ti ho… - deglutì. - Vorrei che me lo raccontassi. Se ti va.
Detto ciò, Med alzò il capo, ma adesso era lo sguardo di Fera ad essersi perso nel vuoto.
“Non volevo buttarti addosso anche i miei”. Sciocchezze. Fera non aveva raccontato come si erano svolte le cose tra lei e Percy perché non ne aveva voluto parlare, non per rispetto a Med. Era stata una cosa così umiliante, così fastidiosa che aveva pensato solo a dimenticarla, a buttarsela alle spalle – senza riuscirci, naturalmente, perché è così che funziona.
Meno pensi a una cosa, più questa verrà a tormentarti.
Strinse i denti, inspirò a fondo e iniziò a parlare.
 
Era stato tutto molto… strano. Sin dall’inizio. Fera non avrebbe mai creduto di poter iniziare una storia con Percy – Percy, maledizione, il suo amico e una delle persone più irritanti che conoscesse. Eppure era successo. Non sapeva se era giusto o se sarebbe andata bene, ma non le importava, perché si fidava di lui e sapeva che Percy non prendeva mai decisioni avventate che avrebbero potuto danneggiare se stesso o gli altri.
Se Percy credeva in quella storia, poteva farlo anche Fera. Perché si fidava di lui.
Si fidava così tanto di lui da non aver avuto alcun dubbio quando si era presentato alla casa sua e di Susan con la valigia in mano e gli occhi gonfi, raccontando di essere stato allontanato dai suoi genitori per… divergenze di vedute.
- Non mi ha mai detto di essersene andato di sua volontà - disse Fera, la voce bassa. - Non me lo ha mai detto. Mi ha raccontato un mucchio di frottole, del fatto che i suoi fossero invidiosi, che non lo volessero più vedere… E io, da idiota che sono, gli ho creduto. Perché non dovevo? Mi fidavo di lui.
Strinse i denti e deglutì. Sentiva lo sguardo di Med su di sé, ma non alzò il capo. - Tutti davano per scontato che io sapessi la verità, che avessi spontaneamente accettato di stare accanto a un simile personaggio… invece non sapevo nulla. Chissà che pensavate di me.
- E come… come mai hai cambiato parere?
Fera fece un verso col naso. - Grazie a George - rispose, amara.
George. Già. Se non fosse stato per lui, probabilmente Fera sarebbe rimasta con Percy, in quel buco d’appartamento assegnatogli dal Ministero. Adesso che ci pensava, forse ciò che più le mancava era proprio quella casa: non era granché e per due era davvero inadeguata, ma aveva contribuito ad arredarla, ci aveva messo del suo – cosa che non aveva potuto fare nell’asettico appartamento di Susan –, insomma, ci si era affezionata visceralmente. Il dolore più grande non era stato lasciare Percy, ma la casa.
E proprio in quella casa era piombato George, all’improvviso, senza una valida motivazione né uno scopo preciso. Fera lo ricordava come un ragazzino giocoso ed estroverso, specializzato – insieme al gemello – nell’arte di combinare guai. Non avevano legato molto, a scuola, un po’ per la differenza d’età, un po’ perché il fatto che Fera fosse amica di Percy la rendeva a prescindere qualcuno da cui tenersi alla larga.
Quando gli aveva aperto la porta, quella sera di circa tre settimane prima, sulle prime Fera l’aveva scambiato per Fred. Come al solito.
- No, sono l’altro. Posso?
Sorpresa e anche un po’ seccata, la ragazza gli aveva fatto cenno d’entrare. - Percy non c’è - disse subito, una nota di freddezza nella voce. - Sta lavorando, tornerà tra poco.
- Tranquilla, me la squaglierò prima che arrivi - aveva risposto lui. - Beh, tutto qua? - disse poi, guardandosi attorno. - Pensavo meglio… se doveva andarsene di casa, tanto valeva farlo per un posto migliore di questo sgabuzzino.
Fera aveva serrato i denti. - Scusami se casa mia ti infastidisce. Puoi sempre andartene, se vuoi.
George non le aveva badato; aveva girellato attorno alla piccola stanza, per poi tornare a rivolgersi a lei. - Scusa se sono entrato, ma sono sempre stato curioso di vedere per cosa ci avesse lasciato; mi fa piacere constatare che non è un granché, proprio come immaginavo.
- Quello che ha, che abbiamo, ce lo siamo guadagnato.
- Ma certo. - George aveva sorriso sprezzante. - Come non capirlo. Chi non tradirebbe la propria famiglia per una cosa del genere?
Fera aveva incrociato le braccia e trattenuto un moto di rabbia. Così, era questo che andavano dicendo su Percy? Che era colpa sua? Lei ricordava benissimo il suo malessere, il modo in cui si era sentito rifiutato dalla sua stessa famiglia; lei c’era, quando Percy non sapeva dove andare perché non si sentiva ben accetto in casa sua. Lei aveva condiviso la sua tristezza, la sua rabbia per quell’allontanamento che no, le aveva detto, non desiderava affatto, ma gli era stato imposto per i peggiori motivi del mondo.
E ora George andava dicendo che era Percy, il traditore.
- Ascolta, - aveva detto Fera, cercando di mantenere la calma, - se sei venuto qui solo per insultare la mia casa o il mio ragazzo, puoi anche sparire all’istante. Se hai bisogno di qualcosa, invece, chiedimelo subito, perché non sono sicura che tra un minuto sarò ancora così accomodante.
Con un altro sorriso derisorio, George aveva alzato le mani. - Coda di paglia, eh? - l’aveva schernita. - E dire che a scuola non sembravi così…
- Così come?
- Così capace di appoggiare uno come Percy.
 
Fera smise per un momento di raccontare, giusto il tempo di bere qualche sorso di tè. Incredibile come il suo cervello avesse mantenuto intatti i ricordi di quel giorno: rammentava ogni gesto, ogni parola, ogni frase che lei e George si erano scambiati, con una precisione quasi spaventosa.
- Siamo andati avanti così per un po’ - proseguì, - finché George non ha capito che c’era qualcosa che non andava. È intelligente, quel ragazzo, sicuramente molto più intelligente di me; io continuavo a credere che avesse torto, mentre lui si è subito reso conto di qual era la situazione.
La situazione. Già. Fera provò un brivido, nel ricordare i momenti successivi. Quando George aveva capito che lei non sapeva nulla di come si erano svolte realmente le cose tra Percy e gli altri Weasley, dapprima si era stupito; poi aveva riso di lei, incapace di credere una cosa simile – ci vivi assieme e non sai che persona sia davvero? Infine, per la prima volta completamente serio, aveva provveduto a renderla edotta sulla verità.
Le aveva raccontato, nello spazio di pochi minuti, di come Percy aveva insultato suo padre dandogli del pezzente e del fallito; di come aveva ignorato sua madre e se n’era andato sbattendole la porta in faccia. Sapeva del maglione natalizio che aveva rimandato indietro? No, Fera non lo sapeva, era in Irlanda dai suoi genitori a Natale… beh, era successo anche quello. Non una lettera, non un saluto. Se n’era andato sputando addosso ai suoi genitori e ai suoi fratelli, e tutto perché voleva un posto di lavoro che lo mettesse al di sopra di tutti gli altri.
Sulle prime, Fera aveva stentato a crederci. Non riusciva a far coincidere quell’immagine di Percy con quella che lei conosceva dai tempi della scuola. Sì, era vero, Percy era sempre stato fissato col lavoro – fin troppo – e guai se si osava criticare il Ministro della Magia, ma… no, non poteva essere.
Eppure, la serietà e la tristezza che trasparivano da George non lasciavano adito a dubbi. E poi, perché avrebbe dovuto mentirle?
- Non mi ha convinta del tutto, ovviamente, ma… mi ha turbata - mormorò. - Mi ha messo un sacco di dubbi in testa. Quando Percy era venuto da me non mi ero posta alcuna domanda, non gli avevo quasi chiesto spiegazioni: è stato lui a darmi la sua versione dei fatti, e io gli ho creduto senza nemmeno pensare di verificare. - Tirò su col naso. - Se George aveva ragione, significava che ero rimasta accanto a un traditore, a un bugiardo, mentre lo consideravo la persona migliore del mondo.
Bevve in fretta un sorso di tè, evitando ancora di guardare Med. - Pochi minuti dopo che George se n’era andato, è tornato Percy. La cosa più logica sarebbe stata chiedergli subito spiegazioni, ma non ce l’ho fatta. Il pensiero che forse mi aveva mentito per tutto quel tempo mi impediva persino di guardarlo in faccia, era come se… mi sentivo quasi in colpa, capisci? Mi sentivo stupida, ingenua, e in colpa.
Tacque, improvvisamente esausta. La tazza di tè tra le sue mani era quasi fredda, quella di Med intatta.
- E poi, cos’è successo? - chiese Med.
Fera attese un momento prima di rispondere. - È successo che lui si è accorto quasi subito che non stavo bene. Di solito non è così sagace, ma quella volta sì. Mi ha chiesto cos’avevo e ha insistito perché glielo dicessi, così l’ho fatto.
- Gli hai raccontato ciò che ti aveva detto George.
- Sì. E gli ho chiesto di dirmi la verità. Lui me l’ha detta.
L’ennesima pausa di silenzio. Fera deglutì e ricacciò indietro le lacrime, mentre Med non le staccava gli occhi di dosso.
- Ha anche detto - riprese poi la più grande, - che gli dispiaceva di avermi mentito e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per farsi perdonare; gli ho risposto che doveva tornare dalla sua famiglia e scusarsi. Ha rifiutato. Al che me ne sono andata. Tutto qui.
Avvicinò la tazza alle labbra, ma la abbassò subito. Sarebbe stato inutile bere: la sua gola era talmente arsa che quel tè non le sarebbe bastato. Immaginava che rivangare quel discorso potesse essere penoso, ma non pensava così tanto; in più,quella era la prima volta che raccontava a qualcuno come si erano svolte davvero le cose.
A Susan e Yvonne aveva detto solo di aver litigato con Percy, senza specificare i motivi che avevano portato alla rottura; loro non avrebbero capito, ma Med sì. Med poteva, doveva capire perché era sua amica, perché aveva amato il fratello di Percy, perché anche lei era stata tradita da qualcuno che, in maniera forse diversa ma niente affatto meno dolorosa, si era finto diverso da ciò che era. Doveva capire.
- Mi dispiace. - La voce di Med era intrisa di tristezza, quando finalmente la ragazza parlò. - Mi dispiace tanto. Non… non sapevo tutto questo, di George, di… non sapevo.
Fera scacciò le lacrime e alzò le spalle. - Fa niente - replicò, sbrigativa. - È stato meglio così. Prima o poi l’avrei scoperto lo stesso, quindi tanto valeva che accadesse in maniera decisiva. Sono grata a George, in un certo senso: non avrei mai aperto gli occhi senza di lui.
- Io… credevo davvero che tu sapessi la verità su Percy - continuò Med. - Davvero. Se solo avessi saputo… Ti avrei scritto, te l’avrei detto, ma… Pensavo che non ti importasse. E invece l’hai lasciato proprio per quello. Mi dispiace così tanto.
Attese una risposta da Fera, ma questa continuava a fissare la sua tazza mezza vuota come faceva ormai da parecchio. - Quindi, - riprese allora Med, incerta, - tu non… non tornerai a stare con lui? Sei sicura?
 
Tutto si sarebbe aspettata, tranne quella domanda. Fera sorrise amara e guardò Med negli occhi.
- Tornare con lui? Dovrei essere davvero stupida per fare una cosa del genere.
- Nemmeno se Percy fosse pentito? Pentito sul serio? Insomma, tu…
- Se fosse pentito avrebbe fatto ciò che gli ho chiesto. Sarebbe tornato dai suoi, avrebbe chiesto scusa e si sarebbe dimesso dal suo posto. Non l’ha fatto; il che significa che tiene più al suo maledetto lavoro che a me o alla sua famiglia. Tanto mi basta.
- Però, devi ammettere che la sua non è una posizione facile. Voglio dire, non può… - Med fece un gesto con la mano. - … prendere e andarsene così dal Ministero, capisci? E non può riappacificarsi con la sua famiglia se prima non risolve le questioni lavorative: i Weasley non lo capirebbero.
Si zittì, accorgendosi che Fera la stava scrutando in modo strano. - Med, - disse questa, lentamente, - spiegami una cosa.
- Dimmi.
- Percy ti è sempre stato antipatico. Sempre. A scuola non capivi come potessimo essere amici; quando ci siamo messi assieme, invece di dirti felice non hai fatto altro che prendermi in giro e chiedermi come fosse possibile una cosa del genere; e adesso che sono io a detestarlo con tutte le mie forze, per motivi legittimi e comprensibili, tu lo difendi a spada tratta. Si può sapere che diavolo sta succedendo?
Aveva pronunciato quella frase in tono vagamente scherzoso, cercando di non far trapelare l’irritazione che l’aveva presa nel sentire parlare così del suo ex-amico ed ex-ragazzo; non immaginava però che Med sarebbe rimasta così colpita da quella domanda. Fera la vide arrossire e cercare invano di sottrarsi al suo sguardo.
- Io… dico così per dire, sai… non… niente.
- Niente? - Fera rise piano. - A te sembra niente, ma è un avvenimento. Chi l’avrebbe mai detto che proprio tu avresti preso le sue parti? E perché, poi? Non capisco, spiegami.
Stavolta non si era curata di nascondere il fastidio, nonostante questo turbasse Med.
Già. Perché era così agitata? E perché quel cambiamento? Nulla avrebbe reso Fera più felice di non sentir parlare mai più di Percy Weasley, quel maledetto bugiardo… e ora doveva sopportarne l’apologia da parte dell’ultima persona da cui si sarebbe aspettata un discorso del genere.
- Avanti, dimmi come mai, adesso, questa novità. Sono curiosa.
- Io…
Med deglutì e si agitò sulla sedia; infine si arrese. - Sì, hai ragione - mormorò avvampando. - Avrei dovuto dirtelo subito, io… mi dispiace.
- Ti dispiace di cosa?
L’ora era tarda, si avvicinava la chiusura del bar. Med prese fiato e guardò Fera negli occhi. - Quando… quando Bill mi ha lasciata, sono venuta da te.
- Sì, lo so. La mattina dopo.
- No. Sono venuta a cercarti la sera stessa. Pensavo di trovarti a casa tua e di Percy, ma tu eri già andata via, e…
- E hai incontrato Percy - terminò Fera sbuffando. - Capisco. Ti ha convinta lui a cercarmi, vero?
- No, lui… noi… - Med deglutì. - Sono rimasta lì, quella sera. Mi sentivo sola… ci sentivamo soli, terribilmente soli, e poi… è successo.
Una folata d’aria fredda entrò dalla porta, che un gruppo di clienti aveva aperto per uscire. - È successo… cosa?
- Siamo… siamo stati insieme, quella sera. E anche altre volte. Non so perché sia accaduto, ma è così. Pensavo… non lo so, ero così confusa, e quando sono venuta da te mi vergognavo così tanto che non ho avuto il coraggio di dirtelo.
Prese a tormentarsi le mani, a disagio. - Da quella sera ci siamo visti altre volte. Lui… Fera, è così infelice senza di te, credo che se gli dessi un’altra possibilità lui non la sprecherebbe. Gli manchi da morire.
Detto questo, Med inspirò a fondo e si rilassò. Sembrava sollevata, come se si fosse tolta un grosso peso dal cuore. Forse non le importava nemmeno della reazione di Fera, della sua eventuale rabbia o delusione. Doveva dirle quelle cose, doveva farle capire che non poteva buttare via tutti quegli anni di amicizia e di affetto in quella maniera. Doveva dirle quanto Percy sentisse la sua mancanza, perché se qualcuno avesse detto a lei le stesse cose riguardo a Bill sarebbe corsa da lui senza esitare, senza ricordare nessuno dei minuti di sofferenza che aveva vissuto per causa sua.
Nessuno avrebbe mai detto a Med che Bill era infelice senza di lei, ma se c’era qualche speranza per Percy e Fera, non doveva andare sprecata.
 
Tuttavia, Fera non comprese nulla di tutto ciò. Non capì che Med le stava regalando l’opportunità che avrebbe desiderato avere per sé, non capì che in qualche modo – forse sbagliato – voleva solo farle un dono.
- Sai, - disse solo, - la prima cosa che ho fatto, quando sono tornata da Susan e Yvonne, è stata lavarmi.
- C-come, scusa?
- Dopo che ho lasciato Percy continuavo a sentirmi il suo odore addosso, sulla pelle, sui capelli - proseguì Fera senza scomporsi. - Non lo sopportavo. Mi sono lavata, e poi ho lavato tutti i miei abiti.
Alzò un momento lo sguardo verso la porta del bar, poi lo riabbassò. - Il giorno dopo, quando sei venuta da me, l’ho sentito di nuovo. Pensavo fosse una mia suggestione, che fosse colpa della nostalgia, e ho cercato di non badarci. Invece non era una mia impressione. Eri tu.
Guardò Med per una lunga manciata di secondi, prima di aggiungere: - Se ci ha messo così poco a rimpiazzarmi con qualcun altro, direi che non avrà problemi per il resto della vita. Grazie comunque dell’interessamento.
Poi si alzò, lasciò qualche moneta Babbana sul tavolo e se ne andò.
 
Non le importava. Sul serio. Una parte di lei arrivava anche a comprendere Med, il suo bisogno di contatto fisico; non gliene avrebbe mai fatta una colpa – bisognava essere davvero senza cuore per prendersela con lei.
E no, non le importava nemmeno di Percy. L’aveva lasciato, poteva far ciò che voleva. Non la riguardava più.
No. Non le importava.
L’unica cosa che la infastidiva – pensò, mentre si incamminava lenta verso la casa di Susan e la cena che non avrebbe mangiato – era quel dolore sordo che sentiva nello stomaco e veniva dritto dal cuore, un dolore che l’avvertiva che, nonostante tutti i suoi sforzi, non era ancora passata.
 
Ma sarebbe passata. Doveva passare.
 



   
 
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