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Autore: Finnick_    06/10/2012    2 recensioni
Panem: i Giochi non esistono più. Capitol City è stata sconfitta.
E' la verità? Oppure l'attuale governo mantiene ancora fredde apparenze che facilitano la rinascita di una nuova generazione?
Mellark-Everdeen, Odair-Cresta. I ragazzi di una generazione che sfiderà la nuova Capitol 13.
Che gli Hunger Games risorgano, tributi.
Ambientazione: dopo "Il canto della rivolta".
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Katniss Everdeen, Nuovo personaggio, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Il legno si frantuma, quando il mio scarpone affonda in quello che un tempo era il pavimento della panetteria. Pezzi di vetro sono ancora sparsi sopra la polvere e la cenere, in minuscole schegge. Cerco di respirare e muovo un altro passo. Il fastidioso scricchiolio delle macerie sotto i miei piedi mi riempie le orecchie.
 Mi guardo intorno, con aria assente.
Là c’era il bancone, che mio padre aveva fatto allargare dopo il matrimonio con mia madre e aveva invaso più di metà dell’ingresso della panetteria, che prima era tristemente vuoto. C’era il pane che ogni mattina, all’alba, veniva sfornato caldo, appoggiato sul legno chiaro che mia madre aveva procurato apposta per rimettere in sesto la panetteria. Era di tutti i tipi, il pane. Intrecciato, arruffato, salato e dolce. C’erano le schiacciatine, quelle croccanti, quelle morbide e i panini. Mia madre, prima di mandare a scuola me e mio fratello, ci riempiva sempre un sacchetto con un panino e un biscotto. Quello, però, dovevamo mangiarlo appena arrivati a scuola, ci avrebbe aiutato a mettere in moto il cervello, diceva. Quando tornavamo da scuola entravamo in negozio con foga, felici di raccontare quello che avevamo scoperto di nuovo sul mondo. E che mondo straordinario che era, quello.  
Marcio lentamente sulle macerie dei miei ricordi e guardo in su. Il tetto non c’è più, adesso il sole splende sopra la mia testa. Inciampo in qualcosa di duro e quando abbasso lo sguardo rimango a fissare l’oggetto che sembra scrutarmi tra i resti.
Un quadro fa capolino tra i pezzi di legno e il carbone. Esito a prenderlo in mano, potrei sbriciolarlo al solo contatto. Eppure, quando tendo la mano verso la tela, scopro che è ricoperto da uno spesso strato di vetro. Suppongo sia antisfondamento. Ha resistito all’esplosione. Lo prendo cautamente tra le mani e quando sono sicura che non si sbriciolerà lo ripulisco come posso con una manica della maglia.
Con un dolore improvviso che mi colpisce il petto vedo gli occhi di mia madre che mi guardano. Sorride. Sì, qui sorride ed ha un bellissimo sorriso. Quegli occhi azzurri passano attraverso lo strato di vetro e arrivano direttamente a colpire la mia sensibilità recentemente andata in pezzi, grazie alla lotta contro Capitol 13.
Sospiro, e quando lo faccio si alza dal vetro uno strato di polvere che non avevo visto. Impiega un secondo ad entrarmi nel naso e mi metto a tossire.
Decido di uscire da questo posto.
Stringo al petto il quadro rovinato, ma salvo e mi avvio verso quella che un tempo era la porta sul retro della panetteria. Da lì si cominciano a vedere i primi alberi che, tra una recinzione e l’altra, sfociano nel bosco. Delle pareti del negozio non è rimasto praticamente niente, solo qualche base delle mura portanti che mi aiutano ad orientarmi in questo deserto grigio.
Mi sento chiamare. E’ Chays, riconosco la voce e adesso ho paura che veda il quadro che ho trovato.
Lui ha reagito in modo diverso alla morte di mia madre e di Jymith. Diciamo che è diventato iperattivo.
Si è messo con mio padre a ricostruire la nostra vecchia casa, non del tutto distrutta e l’ex casa di Jymith. I suoi genitori sono ancora vivi e sono sull’orlo del tracollo di nervi. Non si vedono mai, stanno sempre nella vecchia casa in ristrutturazione. Per qualche settimana ho dato ad entrambi dei vigliacchi, perché non avevano nemmeno il coraggio di mettere il naso fuori dalla porta, poi ho capito che era meglio se stavo zitta.
Io non ho avuto il coraggio di venire a visitare la parte di Distretto rasa al suolo fino ad ora. Ed è passato un mese e mezzo. Casa nostra è quasi del tutto completata, manca solo da rifinire il tetto.
Papà dice che verrà ancora meglio di come Capitol City ce l’aveva costruita. E gli credo perché sia lui che mio fratello ci stanno mettendo davvero tanto impegno.
-Rue, vieni a vedere. Abbiamo finito la casa di Jymith- Chays si avvicina e mi parla dolcemente. L’ha sempre fatto da quando l’incubo è finito. Da quando ho recuperato la memoria in ospedale. Raramente mi rimprovera o si lamenta con me, come faceva un tempo.
Io stringo più forte il quadro al petto e rimango a fissare il bosco. Non ho voglia di vedere come è stata rimessa a nuovo la casa di Jymith. Non voglio tornare a sprofondare nel dolore della sua perdita, oltre a quello già intenso della morte di mia madre.
Chays deve averlo capito, perché mi appoggia una mano sulla spalla e mi costringe a girarmi verso di lui.
-cos’hai lì?- chiede. La sua voce è cambiata. Non voglio indagare su quali, delle innumerevoli cose subite da Capitol 13, gliel’abbia fatta cambiare, ma non è più la stessa. Sembra che sia diventato un adolescente in tutto e per tutto da un mese e mezzo.
Io lentamente gli porgo la confezione di vetro che contiene il quadro e Chays la prende con un soffio al cuore che lo fa sussultare.
-l’ho trovato in panetteria. Nemmeno voi c’eravate mai tornati vero?- dico, mentre Chays osserva senza fiatare il volto di mia madre dipinto tra mille rose bianche.
-no- dice infine –questo viene con noi- conclude, mettendosi l’involucro di vetro sotto il braccio.
-adesso vieni- mi da un lieve strattone e io decido di non replicare più. Aggiriamo l’ex palazzo di Giustizia, passiamo davanti alla casa del sindaco, del tutto intatta e camminiamo sui gingilli arrugginiti e macchiati che venivano venduti al mercato. Infondo alla strada una casa bianca dal grande balcone frontale spicca in lucentezza. Tra le poche mura intatte sono quelle ricostruite meglio.
Non sono molti gli abitanti del 12 sopravvissuti al bombardamento di mesi fa, ma hanno deciso di rimanere e di portare anche amici e conoscenti dagli altri Distretti. Inoltre abbiamo anche una grande quantità di rifugiati da Capitol 13. Mentre ci avviciniamo alla casa di Jymith incontriamo il verduraio e una donna bionda, che non avevo mai visto prima.
Dev’essere una delle nuove arrivate. Poi qualcuno la chiama per nome.
Madge. Oh, Madge. L’ho già sentita nominare.
Ma certo, l’amica di mia madre ai tempi d’oro, prima dei settantaquattresimi Hunger Games. E’ ancora viva. Tutti pensavano che fosse morta, persino i miei genitori, e invece si era solo trasferita in un altro Distretto.
Prima di sparire dentro una casetta in ristrutturazione mi guarda. Anzi, mi fissa.
Mentre le passo accanto sussurra –Grazie, Katniss-
Non ho il tempo di ragionarci su, perché mio padre fa capolino dalla porta sul balcone degli Windersee e ci fa segno di entrare. Quando siamo vicini alla porta, mi blocco.
-io resto fuori- dico, fissando la maniglia della porta.
-andiamo..- prova mio fratello.
-no. Chays, non insistere. Mi dispiace, ma non ce la faccio- lui mi guarda scoraggiato e io mi sento in obbligo di continuare: -tu e papà avete fatto un ottimo lavoro, questa casa è stupenda. Saluta i coniugi Windersee da parte mia e dì loro che..-
-che ti dispiace per Jymith?- mi interrompe Chays, in tono quasi accusatorio. È la prima volta che lo fa, da quando ha scoperto che non le ho potuto salvare la vita. Mi allontano di qualche passo dalla porta e da lui.
-non dirgli niente, lascia perdere- gli dico guardandolo negli occhi. No, non nascondo che quelle parole mi hanno fatto male. Non nascondo più niente, ormai. Aggiro la casa e mi lascio cadere su una panchina di legno sul retro. Istintivamente cerco il quadro, tastandomi il petto, ma improvvisamente ricordo di averlo lasciato nelle mani di mio fratello.
Mentre le mie dita calano sulla maglietta, incontro le linee morbide, ma decise della mia spilla.
Come la tocco il mio nome risuona ovunque: la Stella Verde. Pianto i piedi in terra per non perdere conoscenza, saltare fuori di nervi o mettermi ad urlare. Così mi mordo le labbra per evitare qualsiasi esclamazione.
Ma sono sconvolta. Mi sto accorgendo pian piano che questo posto, il mio Distretto, la mia casa, non ci sono più. Io non posso più vivere qui senza sentire le voci del morti che mi parlano nelle orecchie e mi sussurrano le frasi che mi hanno detto quando erano ancora in vita. Non posso guardare i boschi e vedere mia madre che, gioiosa, ancora giovane, va a caccia con Gale. Non posso camminare sulle macerie del negozio per cui mio padre ha speso anima e corpo, senza sentire un vuoto dentro, così grande, da rischiare di caderci completamente e non riemergere più.
Non posso continuare a vedere la casa di Jymith perfettamente rifatta, vicino alla mia, sapendo che lei non si affaccerà più dalle finestre o che non correrà più in giardino per vedere Chays che si allena con la spada.
Io non posso più vivere qui.
Questa non è più la mia casa. E’ la casa di molti, è la casa di quelli che il coraggio di continuare a viverci l’hanno trovato. Io non sono coraggiosa, non adesso. E mi dispiace tanto, perché dovrei esserlo per Chays e Finnick.
Già, Finnick. E’ a casa sua adesso. Si prende cura di sua madre, proprio come ha sempre fatto e ha ricostruito una nuova casa. In una lettera mi ha raccontato che è riuscito a costruirla in riva al mare, così il rumore delle onde che si infrangono contro le rocce ed a riva tranquillizza Annie.
Ogni tanto ci vediamo e sto bene quando sono con lui. Ma l’incantesimo dura poco e Finnick è costretto a prendere il suo hovercraft e a tornarsene a casa. E io rimango a fissare il cielo, sperando che torni indietro pregandomi di andarmene con lui.
Una volta l’ha fatto, ma è stato solo dopo qualche giorno il nostro ritorno al 12 e io non me la sentivo nemmeno di infilarmi un paio di scarpe senza mio padre accanto, figuriamoci se me ne sarei andata.
Eccolo che arriva, adesso. Sento i suoi passi.
Oh, li riconoscerei tra milioni. Così sicuri, così paterni, così familiari. Si siede accanto a me, senza dire niente e mi porge il quadro. Io lo prendo e lo rigiro tra le mani un paio di volte.
-è molto bello- dico.
-era il quadro preferito di tua madre. È stata lei a confezionarlo nel vetro, per paura che si sciupasse con tutto il fumo della panetteria-
Mi mette un braccio intorno alle spalle e io cedo. Gli crollo in petto piangendo come una bambina.
-ho paura papà!- esclamo ad alta voce. Non mi importa se tutto il Distretto mi sente.
Lui mi culla fra le sue braccia, mentre il mio corpo vibra tra i singhiozzi. Fortissimi singhiozzi che non riesco a sopportare. Stringo le mani intorno alla sua maglia e lo sento vicino.
-lo so- dice e sento che la sua voce è rotta.
-anch’io ne ho tanta- continua, ma non mi incita dicendomi che ho comunque lui e mio fratello, non mi dice nient’altro. Solo che anche lui ha paura. Ed è meglio di quanto pensassi. Continuo a piangere, ma adesso so che lui mi capisce e comincio a sentirmi meglio.
-eri una bambina. Tua madre è orgogliosa di te-
-grazie- rispondo.
-per cosa?- chiede mentre continua a stringermi fra le braccia.
-per aver detto “è” e non “era”-
Lui mi scuote un po’, indica il quadro e mi dice.
-tienilo tu-
Non capisco cosa vuol dire.
-In che senso, papà? Lo mettiamo in casa, no?-
-tu, lo metterai in casa. La tua casa, con Finnick-
  
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