-Sfumature-
«Non si è fatta
niente?»
Adesso i ruoli
sembravano essersi invertiti. Adesso era lui a strascicare le parole da
dietro
una maschera di finta calma, i muscoli contratti da una tensione
nervosa, la
voce a stento controllata e un bagliore freddo negli occhi. Grigio
ferro nel
grigio liquido di lei, incerta e insicura dopo le sue prime parole.
Adesso era
lei a temere una reazione di lui.
«Tu credi
seriamente non si sia fatta niente?» ripeté
duramente «Che lei si sia buttata»
adesso riusciva a dirlo, a sputarglielo in faccia con tutto quanto gli
passava
per la testa «che non si sia fatta niente e allora la storia
per lei si può
definire chiusa? Pazienza non è andata allora chiudiamo qui
il capitolo e
apriamone uno nuovo?»
La fece
sobbalzare per via della foga con cui terminò la frase,
alzando improvvisamente
la voce – incurante delle conseguenze – e battendo
un piede a terra.
«Cosa credi?
Che adesso lei sia felice e contenta? Chi ti dice che non passi le ore,
i
giorni della sua vita a pensare e ripensare a quanto a fatto, magari
rammaricandosi e chiedendosi perché le cose siano andate a
quel modo?»
«Se vuole
veramente-» tentò di parlare senza successo
perché lui non le diede l’occasione
di concludere.
«Cosa ne sai
se passa i giorni a sorridere e dirsi che tutto va bene, che ha
commesso una
sciocchezza, che non la ripeterà più, che
può dire a chi le sta intorno e si
preoccupa che ora possono stare tranquilli?»
addolcì il tono chinandosi
leggermente in avanti e inchiodando lo sguardo nel suo «E chi
ti dice che la
notte, quando chiude gli occhi e non ha più nulla a
distrarla, ogni singolo
dettaglio di quel giorno non le torna in mente prepotente, incapace di
fermare
il flusso di ricordi e smettere di provare dolore?»
Lei trattenne
il respiro, altrettanto incapace di liberarsi dagli occhi di lui.
«Perché fa
male, vero? Deve fare un dannatissimo male, che ne sia pentita o
meno» non
sapeva come mai ne era tanto certo, di quello che stava dicendo, ma
sentiva che
era così. Che doveva essere a quel modo «quindi
non dire più che le va tutto
bene. Non farlo».
Strinse i
pugni respirando lentamente, cercando di fare ordine nei pensieri,
urgenti e
pressanti, che si affollavano nella sua mente, sulla soglia della sua
bocca,
desiderosi di uscire e dare sfogo ad ogni emozione trattenuta.
«Non dire che
non hai più nessuna voglia di vivere, non farlo»
ripeté «perché essere vivi è
qualcosa che non tutti hanno. Essere in salute e poter dire che
sì, posso
uscire di casa e andare dove voglio. Poter camminare o andare in
bicicletta.
Vedere, anche. Riguardare la vita che si è vissuta fino a
quel momento e non
provare dolore, rimorso paura e ferite che probabilmente non si
rimargineranno mai».
La vide
continuare a fissarlo incredula e immobile e la rabbia tornò
prepotente,
soffocando qualunque sentimento di empatia potesse aver avuto.
«Chiedendomi
delle motivazioni per continuare a vivere, mi stavi chiedendo di
salvarti o di
confermarti la tua decisione?» sibilò battendo
nuovamente una mano sul banco e
facendola sussultare, le mani strette tra loro
«Cos’è? Ti aspettavi un discorso
tipo di Gettysburgh a riprova che sì, è la
decisione giusta scavalcare quella
finestra e gettarsi di sotto?»
«Di certo non
mi aspetto che ne derivi la nascita di una nuova America»
cercò di rispondere,
alterata, intromettendosi per quel che riusciva nel fiume di parole
d’accusa e
dolore che il ragazzo le stava riversando addosso. Coltelli, pugnali
che
oltrepassavano la sua fermezza e i suoi pensieri, conficcandosi in
profondità,
fino in fondo, sempre più giù.
«Certo che
no!» continuò facendo un altro passo verso di lei,
sempre meno preoccupato
delle conseguenze, sempre più irritato e nervoso
«Non ti dirò mai che non
saresti morta invano, perché non è
così! Cosa credi di ottenere facendolo?
Credi forse che le persone vivranno con te la tua morte, spinte a
ricordarsi
del tuo gesto e di quello che eri?».
Gli occhi di
lei si dilatarono, come avesse colpito nel segno.
Quelli di lui
si assottigliarono, iniziando a bruciargli.
«Potrei
dartene mille di motivi, ma sarebbero i miei, non i tuoi»
fece un respiro,
forse esagerato, nel tentativo di controllare le emozioni, che facevano
pressione e scottavano tra le palpebre «potrei dirti che
morire non farà
cambiare nulla, che il mondo continuerà come ha sempre
fatto, portando persone
come te e me a desiderare di porre fine a tutto. Che da morti non si
può fare
più niente, perché è solo da vivi che
si ha la possibilità di fare qualcosa.
Perché è solo dicendolo – come sembra
che tu abbia fatto con me – che qualcuno
potrà chiederti ti fermarti. Perché è
solo quando fai qualcosa che ti verrà
detto che c’è qualcuno che ha bisogno di te, che
starà male se gliene farai,
che ti vuole bene» ancora una pausa, più lunga e
meno efficace a trattenere la
tempesta che si stava combattendo al suo interno, mentre le frasi si
susseguivano rapide senza apparente logica «perché
se si ha ancora la forza di
reagire, anche solo per difendere le proprie idee, allora si
può continuare
anche a vivere» pronunciò le ultime incrinandole,
sentendo il fiato spezzarsi.
E alla fine fu
costretto a dargli uno sfogo, a tutta quella frustrazione, a tutta
quella
rabbia e quella tristezza accumulata e poi gettata fuori in una volta
sola,
tramite parole che mai avrebbe pensato di pronunciare. Infischiandosene
del
fatto che era un maschio, che se altri fossero venuti a saperlo lo
avrebbero
preso in giro a vita e che, dannazione, lui non aveva assolutamente
nessun
motivo per piangere come una femminuccia.
Diede una via
di fuga alle lacrime di improvviso dolore che gli rigarono lievemente
le
guance, con un pianto silenzioso – privo della furia che
aveva animato i suoi
gesti e le sue parole – donando un significato a quanto detto
più profondo di
quanto avrebbe mai immaginato.
Nessun altro
rumore dalle sue labbra, nessun singhiozzo dallo sterno; solo quegli
occhi che
adesso sembravano mercurio – grigio liquido e mobile
– testimoni della
delusione e del sollievo.
Perché
ammettere tutto quello lo faceva sentire male, ma dirlo lo rendeva,
parola dopo
parola, più leggero di quanto non si fosse mai sentito.
Perché erano state
tante le volte in cui aveva pensato che la sua vita andava avanti solo
perché
non poteva essere fermata, che quanto gli accadeva succedeva e basta,
come un
copione costante che continuava regolare ad occupare
l’esistenza di ciascuno.
Perché non sapeva quantificare le volte in cui si era
chiesto coma mai potesse
esserci di interessante in quello che faceva – lo studio,
l’università, gli
amici, la famiglia – da fargli nascere la voglia di
svegliarsi e affrontare la
giornata con gioia o aspettativa.
Perché anche
lui aveva pensato che il mondo non era altro che grigio, grigio e
grigio noia,
delusione, indifferenza e insofferenza. Grigio tristezza.
«Tu vuoi che
io ti fermi» continuò abbassando il tono,
rallentano il gesticolare e
addolcendo l’espressione irata in una più morbida
ma ugualmente dolorosa, per
lei, perché a volte la pietà non è
altro che un’arma «per questo motivo mi hai
chiesto due motivazioni. Non perché ero una presenza
imprevista né perché non
riesci a trovarne di tue. Tu non vuoi morire, e questo è
tutto. Senza troppi
fronzoli o giri di parole, senza finzioni».
C’era
consapevolezza mista a rabbia, disappunto e pietà, tra le
righe. C’era il
desiderio di porre fine a tutto, anche se ancora non sapeva in cosa
consistesse
quel tutto. Se alla discussione, al dolore, alla vita o
qualcos’altro di cui
lei non era a conoscenza. Al momento sapeva solo che quelle parole,
ogni
sillaba a cui dava vita, le si conficcavano in profondità,
tremando e
scivolando poco più giù ad ogni aggiunta.
«Quando muori
è finita. Non c’è più niente
da dire o da fare» il tono di voce gli si era
abbassato inconsciamente tanto da assomigliare ad un sussurro troppo
basso e
fuggente per essere portato lontano anche dalla lieve brezza che
scorreva
pacifica tra loro, costringendo Andrea a chinarsi lievemente in avanti
– verso
il pavimento, verso l’interno – per ascoltare
quanto le stava dicendo «non
importa se credi o meno possa esserci qualcosa dopo, tutto finisce lo
stesso».
Non aprì gli
occhi, non si mosse più, trattenne il respiro mentre la voce
finiva di uscire
gelida e lenta dalle labbra.
Ci fu un lungo
silenzio e il buio le si strinse addosso fino a diventare
insopportabile e
costringerla a socchiudere le palpebre. Poi lui tornò a
muoversi, il suono del
frusciare dei vestiti che anticipò quello di un respiro
rilasciato senza
fretta.
«Smettila di
tenere tutto per te, altrimenti alla fine scoppierai e allora
sì che non ci
sarà più alcun ragazzo imprevisto a
fermarti».
Sentendosi
svuotato, senza accennare ad asciugare le lacrime che avevano solcato
traditrici il suo volto, la vide mordersi il labbro inferiore con
delicatezza,
come non fosse sicura di quello che stava facendo, per poi rafforzare
la presa
sul davanzale, tanto forte da far sbiancare le nocche. La vide chinare
il capo
sul petto e tremare leggermente. Poi le girò le spalle e
attraversò il
corridoio su cui a lungo si era discusso, dirigendosi in bagno.
Non c’era
altro che poteva fare. Non poteva afferrarla e tirarla a sé,
schiaffeggiarla e
farle capire quanto quel suo comportamento fosse in grado di ferire,
sé stessa
ancora prima di chi le stava attorno. Non poteva semplicemente portarla
via
perché doveva essere lei ad allontanarsi e fare la scelta
giusta, se mai una
scelta si possa considerare assolutamente corretta.
Andrea, non
vedendo altro nel suo campo visivo se non il bianco candido del vestito
indossato quasi senza nemmeno guardalo, quella mattina,
tornò a mordersi il
labbro, più volte e con maggiore forza, premendo con
decisione e tremore
assieme, tagliandolo in un angolo, già secco per via della
calura. Fu solo
quando avvertì la netta sensazione di sentire in bocca un
insolito sapore
metallico, misto alla saliva, che rilassò impercettibilmente
la mascella,
focalizzando l’attenzione su quello che stava facendo.
C’erano due
sottili macchie rosse sulla gonna candida. Sangue. Immobilizzata nella
posizione in cui si era raccolta man mano che quel ragazzo –
quello sconosciuto
che non aveva previsto di incontrare mai e che ora, per quanto ne
sapeva,
poteva anche essersene andato veramente, lasciandola sola a mettere
fine a
tutto – studiava incredula quegli scarlatti fiori,
improvvisamente spuntati nel
bianco immacolato del suo essere. Tornò a chiudere gli occhi
solo quando si
accorse che la vista le si faceva meno chiara, come fossero stati
improvvisamente ricoperti da una patina che le impediva di vedere
nitidamente i
contorni del rosso sul bianco.
Rosso su
bianco, come aveva vagamente immaginato sarebbe diventato il suo
vestito dopo
l’impatto. Con un respiro strozzato si chiese come mai ora il
pensiero potesse
farla rabbrividire tanto, quando, fino a poco prima, non era in grado
di
suscitargli alcuna emozione. Muovendo le dita sentì il marmo
liscio sotto i
polpastrelli ed immaginò di spingersi
all’indietro, sollevando le gambe – ne
sentì il peso come fossero realmente in movimento
– e poggiare i piedi al di là
della finestra, sul tettuccio. Respirò con leggerezza nel
sentire le tegole
ruvide e irregolari sfiorarle i piedi, trasmettendole il calore del
mezzogiorno
attraverso le suole leggere dei sandali, come se in realtà
non li avesse
addosso.
Muovendo
lentamente la testa, a seguire il movimento familiare di quando
guardava fuori
da quella stessa finestra – tempo prima, quando ancora non
era altro che uno
squarcio di cielo tra le mura grigie della biblioteca – vide
il condominio
dirimpetto, i due pini scuri che ostruivano la visuale della strada, il
giardino poco curato della villetta accanto e lo scorcio di cielo
– piovoso,
soleggiato o coperto da una spessa coltre di cinereo manto –
che le facevano
compagnia, silenziosi nel loro continuo immutare.
Poi guardò
verso il basso, percependo il suolo – grigio scuro, asfalto
– che si
allontanava impercettibilmente ad ogni sua occhiata.
Sentì come un
capogiro e il respiro aumentare d’intensità nello
sporgersi maggiormente. Nello
sbilanciarsi in avanti verso il vuoto.
Spalancò di
scatto gli occhi, il cuore in gola e il respiro affannato, con la paura
di
essere veramente sull’orlo del precipizio e di stare per
perdere l’equilibrio,
cadere di sotto e mettere fine a tutto. Alla sua vita, ai suoi sogni
– che
magari non sapeva ancora di avere – alle sue speranze, a
tutto quanto aveva.
Smarrita, impiegò non pochi secondi nel rendersi conto di
essere ancora seduta
sul davanzale, le mani serrate con forza al tessuto della gonna. Con
una calma
che non sentiva più propria tornò a guardare il
suo vestito notando le due
macchie di sangue sfumate ai bordi, accompagnate da altre macchie dal
colore
indefinito. Grigio chiaro, forse?
Grigio chiaro,
come quello delle piastrelle che dal cancello portavano al portone
d’ingresso
del condominio in cui viveva, che erano state testimoni di numerose
liti e
lanci di oggetti dalla finestra del secondo piano da sua madre a suo
padre.
Grigio sporco come il bagno della stazione in cui si era chiusa per
sottrarsi
allo sguardo accusatore del suo ex ragazzo, che dopo averla scaricata
con una
patetica scusa non aveva gradito che lei si fosse messa a ridere per
poi
nascondersi a piangere.
Grigio sfumato
di bianco, come i capelli dei suoi nonni, come li ricordava nella loro
ultima
vacanza insieme al mare, bagnati dall’acqua e schiariti dal
sole. Grigio
metallo, come quello dello scivolo su cui si rifugiava la sera, quando
non
aveva voglia di tornare a casa e assistere all’ennesimo
litigio o al silenzio
pesante che aleggiava tra le mura, anche in camera sua.
Grigio e
basta, come il mondo era diventato nell’attimo in cui lui
l’aveva lasciata
sola, su un davanzale a rendersi conto di quanto in realtà
il mondo fosse
colorato senza che lei se ne fosse mai accorta.
Quante
tonalità di grigio potevano esistere ancora?
Quante ancora
le avrebbero fatto tornare alla memoria la sua vita, i suoi dispiaceri,
le sue
arrabbiature, i suoi affetti, i suoi successi?
Un’altra
macchia sfumata fiorì sulla gonna, anticipata da un leggero
peso che veniva a
mancare al viso per farsi sentire sulle gambe. Una leggera goccia che
faceva
tuttavia un’enorme differenza da una sua qualunque gemella,
come di pioggia ad
esempio.
Poteva
trattarsi di lacrime?
Stava perdendo il controllo?
Con la
paura di quello che avrebbe potuto fare, ora che era
completamente sola, tornò ad abbassare lo sguardo sul
proprio grembo, coprendo
il viso con i capelli che le erano scivolati via da dietro le orecchie,
attendendo che il senso di solitudine e abbandono passasse. Aveva il
terrore
che sarebbe caduta se solo avesse fatto una mossa in quello stato.
Si
sentiva sola. Aveva bisogno di qualcuno.
Gli
occhi tornarono a bruciarle e spinse la testa
all’indietro, nel tentativo di calmarsi. Sentiva il respiro
farsi meno
regolare, il cuore battere dolorosamente nel petto e il viso
corrucciarsi nel
tentativo di tornare a distendersi, a mostrare anche solo un pallido
sorriso a
riprova che tutto stava andando bene, che non era rimasta solo lei ad
affrontare tutta quella paura improvvisa.
«Hai l’espressione di una bambina che sta per
piangere ma
non lo fa… come dovesse dimostrare di non averne alcun
bisogno».
Si
raddrizzò di colpo rischiando seriamente di
sbilanciarsi, aprendo gli occhi per vedere chi le avesse parlato.
Riconosceva
quella voce. Con un misto di confusione e un’inattesa gioia
fece scorrere lo
sguardo su quelle scarpe di tela che un tempo dovevano essere state
bianche ma
che ora sembravano un agglomerato di grigi diversi. Grigio polvere,
grigio
terra, grigio gomma. I pantaloncini neri alle ginocchia, larghi e lisi
ai
bordi, l’elastico seminascosto da una maglietta chiara.
Labbra
piene e morse nel mezzo, naso lievemente all’insù,
occhi larghi seminascosti da occhiali dalla montatura sottile, capelli
lisci e
scuri, lasciati crescere qualche mese di troppo e disciplinati
sbadatamente con
mollette da ragazzina.
Era
lì, davanti a lei, più
vicino di quanto non lo fosse mai stato. Con un lieve sorriso, gli
occhi rossi
e un bicchiere d’acqua in mano.
«Non prendermi in giro» sussurrò
tra un respiro e l’altro, tornando a chiudere le palpebre.
Ora che sapeva che era
lì e che sentiva il suo calore tanto vicino, non aveva
bisogno di vedere per
sapere di non essere più sola «qui il bambino
frignone, tra i due, sei tu.
Sbaglio o quelle di prima erano lacrime?»
Quelle
sfumature grigie che le
avevano mostrato una dimensione che pensava perduta per sempre. Quel
particolare colore bagnato che aveva visto tanto spesso allo specchio,
dopo
quella furiosa litigata con la sua migliore amica ai tempi delle
elementari,
quel rossore a circondarle, come quando era morta la nonna e lei non
era stata
in grado di fare altro se non guardare la bara ricoperta di fiori
bianchi,
chiudendo fuori tutto il resto del mondo, le condoglianze e i falsi
dispiaceri
di chi le era stata intorno.
«Tieni» le disse porgendole il
bicchiere che prese con mano lievemente tremante senza portarselo alle
labbra e
appoggiandolo sul marmo accanto a sé. Poi lui le tese quella
stessa mano, senza
dire nulla, senza guardarla negli occhi, preferendo fissarsi il palmo,
assorto
in una preghiera. Che lei la prendesse.
Fissandosi la propria, di mano,
la alzò lentamente e ricoprì la distanza con
quella di lui in un tempo che le
sembrò infinito. Poi, quando le dita sottili sfiorarono
quelle lunghe e meno
delicate, vennero afferrate con decisione e tirate, costringendo il
corpo a
seguirle senza più incontrare resistenza.
Perché voleva andarsene,
allontanarsi da quel davanzale. Perché, in fondo, sapeva si
sarebbe sentita
sicura solo se lui l’avesse guidata, come l’aveva
trascinata di forza a capire
il suo errore.
Si
strinse a lui con forza,
circondandogli la vita e afferrando la maglia tra le dita, affondando
il volto
nel petto solido e lasciandosi andare. Rilassando le spalle e provando
a far
scorrere via la paura, l’ansia e il timore residui.
Sciogliendosi liberamente
in lacrime. Lui le circondò le spalle con un braccio e
infilò l’altra mano tra
i capelli di lei, costringendola contro di sé, come avesse
paura delle
conseguenze se le avesse permesso anche solo di allontanarsi,
sospirando di
sollievo.
«Perché sei
tornato indietro? Credevo te ne fossi andato!»
«Se devo
essere sincero non ne sono sicuro» esitò come a
interrogarsi seriamente sul
perché di quella sua decisione improvvisa «forse
perché ho nutrito una minima
speranza di averti salvato. Che tra tutte le sciocchezze e gli insulti
che ti
ho riversato addosso, avessi veramente detto qualcosa che avrebbe
potuto farti
cambiare idea».
Tra le lacrime
sempre più copiose, non si sa come, non si sa il
perché, lei rise. Un breve
scoppio tra i singhiozzi, molto più simile ad un colpo di
tosse ma accompagnato
dal sottile curvarsi delle labbra e lo schiudersi di palpebre, dritte
in quelle
attente di lui attraverso le lenti sottili.
«Cosa?» le
mormorò insicuro, non osando alzare la voce per spezzare
quell’attimo di
tranquilla intimità creatasi tra i respiri affannati e le
lacrime, ora
silenziose, che ancora bagnavano le guance di lei e la maglia leggera
di lui,
lasciando chiazze azzurro scuro.
La vide
tentare di articolare delle parole, riuscendo solamente ad emetter
forti
sospiri misti a singhiozzi, poi la vide portare una mano a rimuovere
delicatamente quelle strisce liquide dal viso.
«No-non so
nemmeno come ti chiami» singhiozzò ancora,
scuotendo le spalle contro le sue
braccia, che la circondavano nuovamente protettive, chiudendola in un
bozzolo
di silenzio e sicurezza, non intaccato dai forti respiri che ancora
emetteva
nel tentativo di calmarsi.
Lui si lasciò
scappare una mezza risata, stringendola maggiormente a sé,
chinando il capo e
appoggiando il volto contro la sua testa.
«Se è per
questo, io non sono nemmeno certo che il tuo nome sia veramente
Andrea» ribatté
lui, sussurrando tra i capelli di lei, il fiato a propria volta
spezzato. Le
emozioni scatenate dal loro incontro che si affollavano l’una
sull’altra libere
finalmente di prevalere sul terrore che lo aveva colto fino a quando
lei era
rimasta seduta in bilico tra l’interno e l’esterno.
Adesso si sentiva le gambe
tremare e le braccia pesanti. Adesso che era tutto finito.
«Mi chiamo
Grazia. Grazia Doni» ammise stringendo inconsciamente
– ma forse non troppo –
la maglia di lui sulla schiena nel tentativo di non permettergli di
spingerla
via come pensava avrebbe fatto. Con quello tutti i veli erano caduti,
ogni
menzogna nella discussione, ogni lato di sé che non avrebbe
mai pensato di
rivelare – a lui o ad altri.
Lo sentì
sorridere tra le ciocche ormai arruffate dalla mano che le teneva la
testa.
«Piacere,
Grazia» la scostò da sé, senza lasciare
che l’abbraccio si sciogliesse, per
tornare a guardarla in volto e asciugarle le poche lacrime superstiti
con un
dito, sorridendole «il mio nome è Andrea»
«Andrea?» gli
occhi le si spalancarono increduli, gemelli della reazione avuta da lui
poco
prima – o forse giorni o ore – quando lei aveva
scelto quel nome come falso,
luccicanti come argento per via delle lacrime «Ma sul
serio?»
«Andrea
Nobili» confermò ridendo e lasciando che lei si
perdesse nuovamente nel suo
sguardo prima che riappoggiasse la fronte sul petto di lui, liberando a
propria
volta un riso breve e sospirato, a riprova di quanto la vita potesse
essere
assurda, imprevedibile e piena di coincidenze. Come il loro incontro.
Poi
gli diede
un leggero pugno allo stomaco, non sufficientemente forte da fargli
sentire
dolore ma abbastanza improvviso da farlo istintivamente chinare in
avanti.
«Ehi!»
«Questo è per
avermi gridato contro» bofonchiò a mo’
di spiegazione, finendo di asciugarsi le
lacrime e aspettando che lui smettesse di borbottare improperi a bassa
voce e
si raddrizzasse nuovamente, un sorriso meno lieve a illuminargli il
volto. Poi
si alzò repentina sulle punte, aggrappandosi alla maglia
ancora umida, per
sfiorargli le labbra con le proprie. Lui spalancò gli occhi.
«Doveva essere
una specie di grazie?» si arrischiò a chiedere
cercando di non fraintendere il
gesto. Se c’era una cosa che aveva capito di Grazia, era che
poteva dimostrarsi
estremamente volubile. Una lunatica, un po’ come lui. Sorrise
ancora. Un po’
tanto, forse.
«Inammissibile!»
una nuova voce – nuova solo all’ordine del giorno
tra loro due – s’intromise
facendoli voltare di scatto. La bibliotecaria, quella simpatica che
controllava
il livello di nicotina assunto giornalmente da Andrea, sembrava
marciare nella
loro direzione, battendo con stizza i tacchi sul pavimento.
«Se volete
fare i piccioncini trovatevi una stanza!» sibilò
inviperita, fulminandoli con
lo sguardo e indicando seccamente le scale da cui era salita
«E ora fuori di
qui!»
Andrea – come
sapeva di poterlo chiamare – ammiccò una volta
alla donna prima di portare il
suo sguardo in quello di lei, aggrottando le sopracciglia e atteggiando
il viso
in una smorfia che lei interpretò come fintamente
dispiaciuta.
Espressione in
cui lei riconobbe sollievo – perché tutto era
finito in quello che sembrava
veramente il migliore dei modi – preoccupazione –
perché se quella donna fosse
arrivava solo poco prima, allora la vicenda si sarebbe potuta anche
concludere
diversamente – divertimento – perché, in
fondo, l’ingresso imprevisto non aveva
rovinato un bel niente – e malizia. Perché non
erano altro che puntolini variopinti
in un’intera valle di grigio opaco, spento nella fioca luce
della sera.
Andrea tornò a
chinarsi in avanti, facendo aderire le loro fronti e intrecciando le
proprie
dita con quelle di lei, inumidendosi le labbra.
«Adesso ho la
bocca che sa di sangue» guardò di lato
studiatamente indifferente, cercando
fino alla fine di trattenere le risa. Si picchiettò il
labbro inferiore con un
dito e smise di fingere, socchiudendo le palpebre e sussultando anche
con le
spalle ad esternare tutto il divertimento che l’aveva colto.
Ridendo come non
credeva avrebbe mai fatto, all’inizio di quella giornata.
Scoppiò a
ridere anche lei, perché in fondo non c’era
nient’altro a circondarli. E i
fantasmi di quanto era successo sarebbero potuti essere affrontati
più avanti
e, perché no, anche insieme.
Grigio, solo
grigio.
Come tutte le
sfumature nei loro occhi quando si era riaccesa la speranza.
***
Alle volte basta solo piangere
(respirare, chiudere gli occhi, sperare)
Perché il mondo ci sembri un posto
migliore.
End?
Questa storia è
dedicata a Laura, che nella sua fragilità è stata
in grado di continuare a
vivere.
Grazie per averlo
fatto.
AliasNLH