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Autore: aliasNLH    15/01/2013    0 recensioni
«Cosa ne sai se passa i giorni a sorridere e dirsi che tutto va bene, che ha commesso una sciocchezza, che non la ripeterà più, che può dire a chi le sta intorno e si preoccupa che ora possono stare tranquilli?» addolcì il tono chinandosi leggermente in avanti e inchiodando lo sguardo nel suo «E chi ti dice che la notte, quando chiude gli occhi e non ha più nulla a distrarla, ogni singolo dettaglio di quel giorno non le torna in mente prepotente, incapace di fermare il flusso di ricordi e smettere di provare dolore?»
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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-Sfumature-
 
 
 
 
 
«Non si è fatta niente?»
 
    Adesso i ruoli sembravano essersi invertiti. Adesso era lui a strascicare le parole da dietro una maschera di finta calma, i muscoli contratti da una tensione nervosa, la voce a stento controllata e un bagliore freddo negli occhi. Grigio ferro nel grigio liquido di lei, incerta e insicura dopo le sue prime parole. Adesso era lei a temere una reazione di lui.
    «Tu credi seriamente non si sia fatta niente?» ripeté duramente «Che lei si sia buttata» adesso riusciva a dirlo, a sputarglielo in faccia con tutto quanto gli passava per la testa «che non si sia fatta niente e allora la storia per lei si può definire chiusa? Pazienza non è andata allora chiudiamo qui il capitolo e apriamone uno nuovo?»
    La fece sobbalzare per via della foga con cui terminò la frase, alzando improvvisamente la voce – incurante delle conseguenze – e battendo un piede a terra.
    «Cosa credi? Che adesso lei sia felice e contenta? Chi ti dice che non passi le ore, i giorni della sua vita a pensare e ripensare a quanto a fatto, magari rammaricandosi e chiedendosi perché le cose siano andate a quel modo?»
    «Se vuole veramente-» tentò di parlare senza successo perché lui non le diede l’occasione di concludere.
    «Cosa ne sai se passa i giorni a sorridere e dirsi che tutto va bene, che ha commesso una sciocchezza, che non la ripeterà più, che può dire a chi le sta intorno e si preoccupa che ora possono stare tranquilli?» addolcì il tono chinandosi leggermente in avanti e inchiodando lo sguardo nel suo «E chi ti dice che la notte, quando chiude gli occhi e non ha più nulla a distrarla, ogni singolo dettaglio di quel giorno non le torna in mente prepotente, incapace di fermare il flusso di ricordi e smettere di provare dolore?»
    Lei trattenne il respiro, altrettanto incapace di liberarsi dagli occhi di lui.
    «Perché fa male, vero? Deve fare un dannatissimo male, che ne sia pentita o meno» non sapeva come mai ne era tanto certo, di quello che stava dicendo, ma sentiva che era così. Che doveva essere a quel modo «quindi non dire più che le va tutto bene. Non farlo».
    Strinse i pugni respirando lentamente, cercando di fare ordine nei pensieri, urgenti e pressanti, che si affollavano nella sua mente, sulla soglia della sua bocca, desiderosi di uscire e dare sfogo ad ogni emozione trattenuta.
    «Non dire che non hai più nessuna voglia di vivere, non farlo» ripeté «perché essere vivi è qualcosa che non tutti hanno. Essere in salute e poter dire che sì, posso uscire di casa e andare dove voglio. Poter camminare o andare in bicicletta. Vedere, anche. Riguardare la vita che si è vissuta fino a quel momento e non provare dolore, rimorso paura e ferite che probabilmente non si rimargineranno mai».
    La vide continuare a fissarlo incredula e immobile e la rabbia tornò prepotente, soffocando qualunque sentimento di empatia potesse aver avuto.
    «Chiedendomi delle motivazioni per continuare a vivere, mi stavi chiedendo di salvarti o di confermarti la tua decisione?» sibilò battendo nuovamente una mano sul banco e facendola sussultare, le mani strette tra loro «Cos’è? Ti aspettavi un discorso tipo di Gettysburgh a riprova che sì, è la decisione giusta scavalcare quella finestra e gettarsi di sotto?»
    «Di certo non mi aspetto che ne derivi la nascita di una nuova America» cercò di rispondere, alterata, intromettendosi per quel che riusciva nel fiume di parole d’accusa e dolore che il ragazzo le stava riversando addosso. Coltelli, pugnali che oltrepassavano la sua fermezza e i suoi pensieri, conficcandosi in profondità, fino in fondo, sempre più giù.
    «Certo che no!» continuò facendo un altro passo verso di lei, sempre meno preoccupato delle conseguenze, sempre più irritato e nervoso «Non ti dirò mai che non saresti morta invano, perché non è così! Cosa credi di ottenere facendolo? Credi forse che le persone vivranno con te la tua morte, spinte a ricordarsi del tuo gesto e di quello che eri?».
    Gli occhi di lei si dilatarono, come avesse colpito nel segno.
    Quelli di lui si assottigliarono, iniziando a bruciargli.
    «Potrei dartene mille di motivi, ma sarebbero i miei, non i tuoi» fece un respiro, forse esagerato, nel tentativo di controllare le emozioni, che facevano pressione e scottavano tra le palpebre «potrei dirti che morire non farà cambiare nulla, che il mondo continuerà come ha sempre fatto, portando persone come te e me a desiderare di porre fine a tutto. Che da morti non si può fare più niente, perché è solo da vivi che si ha la possibilità di fare qualcosa. Perché è solo dicendolo – come sembra che tu abbia fatto con me – che qualcuno potrà chiederti ti fermarti. Perché è solo quando fai qualcosa che ti verrà detto che c’è qualcuno che ha bisogno di te, che starà male se gliene farai, che ti vuole bene» ancora una pausa, più lunga e meno efficace a trattenere la tempesta che si stava combattendo al suo interno, mentre le frasi si susseguivano rapide senza apparente logica «perché se si ha ancora la forza di reagire, anche solo per difendere le proprie idee, allora si può continuare anche a vivere» pronunciò le ultime incrinandole, sentendo il fiato spezzarsi.
    E alla fine fu costretto a dargli uno sfogo, a tutta quella frustrazione, a tutta quella rabbia e quella tristezza accumulata e poi gettata fuori in una volta sola, tramite parole che mai avrebbe pensato di pronunciare. Infischiandosene del fatto che era un maschio, che se altri fossero venuti a saperlo lo avrebbero preso in giro a vita e che, dannazione, lui non aveva assolutamente nessun motivo per piangere come una femminuccia.
    Diede una via di fuga alle lacrime di improvviso dolore che gli rigarono lievemente le guance, con un pianto silenzioso – privo della furia che aveva animato i suoi gesti e le sue parole – donando un significato a quanto detto più profondo di quanto avrebbe mai immaginato.
    Nessun altro rumore dalle sue labbra, nessun singhiozzo dallo sterno; solo quegli occhi che adesso sembravano mercurio – grigio liquido e mobile – testimoni della delusione e del sollievo.
    Perché ammettere tutto quello lo faceva sentire male, ma dirlo lo rendeva, parola dopo parola, più leggero di quanto non si fosse mai sentito. Perché erano state tante le volte in cui aveva pensato che la sua vita andava avanti solo perché non poteva essere fermata, che quanto gli accadeva succedeva e basta, come un copione costante che continuava regolare ad occupare l’esistenza di ciascuno. Perché non sapeva quantificare le volte in cui si era chiesto coma mai potesse esserci di interessante in quello che faceva – lo studio, l’università, gli amici, la famiglia – da fargli nascere la voglia di svegliarsi e affrontare la giornata con gioia o aspettativa.
    Perché anche lui aveva pensato che il mondo non era altro che grigio, grigio e grigio noia, delusione, indifferenza e insofferenza. Grigio tristezza.
    «Tu vuoi che io ti fermi» continuò abbassando il tono, rallentano il gesticolare e addolcendo l’espressione irata in una più morbida ma ugualmente dolorosa, per lei, perché a volte la pietà non è altro che un’arma «per questo motivo mi hai chiesto due motivazioni. Non perché ero una presenza imprevista né perché non riesci a trovarne di tue. Tu non vuoi morire, e questo è tutto. Senza troppi fronzoli o giri di parole, senza finzioni».
    C’era consapevolezza mista a rabbia, disappunto e pietà, tra le righe. C’era il desiderio di porre fine a tutto, anche se ancora non sapeva in cosa consistesse quel tutto. Se alla discussione, al dolore, alla vita o qualcos’altro di cui lei non era a conoscenza. Al momento sapeva solo che quelle parole, ogni sillaba a cui dava vita, le si conficcavano in profondità, tremando e scivolando poco più giù ad ogni aggiunta.
    «Quando muori è finita. Non c’è più niente da dire o da fare» il tono di voce gli si era abbassato inconsciamente tanto da assomigliare ad un sussurro troppo basso e fuggente per essere portato lontano anche dalla lieve brezza che scorreva pacifica tra loro, costringendo Andrea a chinarsi lievemente in avanti – verso il pavimento, verso l’interno – per ascoltare quanto le stava dicendo «non importa se credi o meno possa esserci qualcosa dopo, tutto finisce lo stesso».
    Non aprì gli occhi, non si mosse più, trattenne il respiro mentre la voce finiva di uscire gelida e lenta dalle labbra.
    Ci fu un lungo silenzio e il buio le si strinse addosso fino a diventare insopportabile e costringerla a socchiudere le palpebre. Poi lui tornò a muoversi, il suono del frusciare dei vestiti che anticipò quello di un respiro rilasciato senza fretta.
    «Smettila di tenere tutto per te, altrimenti alla fine scoppierai e allora sì che non ci sarà più alcun ragazzo imprevisto a fermarti».
    Sentendosi svuotato, senza accennare ad asciugare le lacrime che avevano solcato traditrici il suo volto, la vide mordersi il labbro inferiore con delicatezza, come non fosse sicura di quello che stava facendo, per poi rafforzare la presa sul davanzale, tanto forte da far sbiancare le nocche. La vide chinare il capo sul petto e tremare leggermente. Poi le girò le spalle e attraversò il corridoio su cui a lungo si era discusso, dirigendosi in bagno.
    Non c’era altro che poteva fare. Non poteva afferrarla e tirarla a sé, schiaffeggiarla e farle capire quanto quel suo comportamento fosse in grado di ferire, sé stessa ancora prima di chi le stava attorno. Non poteva semplicemente portarla via perché doveva essere lei ad allontanarsi e fare la scelta giusta, se mai una scelta si possa considerare assolutamente corretta.
    Andrea, non vedendo altro nel suo campo visivo se non il bianco candido del vestito indossato quasi senza nemmeno guardalo, quella mattina, tornò a mordersi il labbro, più volte e con maggiore forza, premendo con decisione e tremore assieme, tagliandolo in un angolo, già secco per via della calura. Fu solo quando avvertì la netta sensazione di sentire in bocca un insolito sapore metallico, misto alla saliva, che rilassò impercettibilmente la mascella, focalizzando l’attenzione su quello che stava facendo.
    C’erano due sottili macchie rosse sulla gonna candida. Sangue. Immobilizzata nella posizione in cui si era raccolta man mano che quel ragazzo – quello sconosciuto che non aveva previsto di incontrare mai e che ora, per quanto ne sapeva, poteva anche essersene andato veramente, lasciandola sola a mettere fine a tutto – studiava incredula quegli scarlatti fiori, improvvisamente spuntati nel bianco immacolato del suo essere. Tornò a chiudere gli occhi solo quando si accorse che la vista le si faceva meno chiara, come fossero stati improvvisamente ricoperti da una patina che le impediva di vedere nitidamente i contorni del rosso sul bianco.
    Rosso su bianco, come aveva vagamente immaginato sarebbe diventato il suo vestito dopo l’impatto. Con un respiro strozzato si chiese come mai ora il pensiero potesse farla rabbrividire tanto, quando, fino a poco prima, non era in grado di suscitargli alcuna emozione. Muovendo le dita sentì il marmo liscio sotto i polpastrelli ed immaginò di spingersi all’indietro, sollevando le gambe – ne sentì il peso come fossero realmente in movimento – e poggiare i piedi al di là della finestra, sul tettuccio. Respirò con leggerezza nel sentire le tegole ruvide e irregolari sfiorarle i piedi, trasmettendole il calore del mezzogiorno attraverso le suole leggere dei sandali, come se in realtà non li avesse addosso.
    Muovendo lentamente la testa, a seguire il movimento familiare di quando guardava fuori da quella stessa finestra – tempo prima, quando ancora non era altro che uno squarcio di cielo tra le mura grigie della biblioteca – vide il condominio dirimpetto, i due pini scuri che ostruivano la visuale della strada, il giardino poco curato della villetta accanto e lo scorcio di cielo – piovoso, soleggiato o coperto da una spessa coltre di cinereo manto – che le facevano compagnia, silenziosi nel loro continuo immutare.
    Poi guardò verso il basso, percependo il suolo – grigio scuro, asfalto – che si allontanava impercettibilmente ad ogni sua occhiata.
    Sentì come un capogiro e il respiro aumentare d’intensità nello sporgersi maggiormente. Nello sbilanciarsi in avanti verso il vuoto.
    Spalancò di scatto gli occhi, il cuore in gola e il respiro affannato, con la paura di essere veramente sull’orlo del precipizio e di stare per perdere l’equilibrio, cadere di sotto e mettere fine a tutto. Alla sua vita, ai suoi sogni – che magari non sapeva ancora di avere – alle sue speranze, a tutto quanto aveva. Smarrita, impiegò non pochi secondi nel rendersi conto di essere ancora seduta sul davanzale, le mani serrate con forza al tessuto della gonna. Con una calma che non sentiva più propria tornò a guardare il suo vestito notando le due macchie di sangue sfumate ai bordi, accompagnate da altre macchie dal colore indefinito.     Grigio chiaro, forse?
    Grigio chiaro, come quello delle piastrelle che dal cancello portavano al portone d’ingresso del condominio in cui viveva, che erano state testimoni di numerose liti e lanci di oggetti dalla finestra del secondo piano da sua madre a suo padre. Grigio sporco come il bagno della stazione in cui si era chiusa per sottrarsi allo sguardo accusatore del suo ex ragazzo, che dopo averla scaricata con una patetica scusa non aveva gradito che lei si fosse messa a ridere per poi nascondersi a piangere.
    Grigio sfumato di bianco, come i capelli dei suoi nonni, come li ricordava nella loro ultima vacanza insieme al mare, bagnati dall’acqua e schiariti dal sole. Grigio metallo, come quello dello scivolo su cui si rifugiava la sera, quando non aveva voglia di tornare a casa e assistere all’ennesimo litigio o al silenzio pesante che aleggiava tra le mura, anche in camera sua.
    Grigio e basta, come il mondo era diventato nell’attimo in cui lui l’aveva lasciata sola, su un davanzale a rendersi conto di quanto in realtà il mondo fosse colorato senza che lei se ne fosse mai accorta.
    Quante tonalità di grigio potevano esistere ancora?
    Quante ancora le avrebbero fatto tornare alla memoria la sua vita, i suoi dispiaceri, le sue arrabbiature, i suoi affetti, i suoi successi?
    Un’altra macchia sfumata fiorì sulla gonna, anticipata da un leggero peso che veniva a mancare al viso per farsi sentire sulle gambe. Una leggera goccia che faceva tuttavia un’enorme differenza da una sua qualunque gemella, come di pioggia ad esempio.
    Poteva trattarsi di lacrime? Stava perdendo il controllo?
    Con la paura di quello che avrebbe potuto fare, ora che era completamente sola, tornò ad abbassare lo sguardo sul proprio grembo, coprendo il viso con i capelli che le erano scivolati via da dietro le orecchie, attendendo che il senso di solitudine e abbandono passasse. Aveva il terrore che sarebbe caduta se solo avesse fatto una mossa in quello stato.
    Si sentiva sola. Aveva bisogno di qualcuno.
    Gli occhi tornarono a bruciarle e spinse la testa all’indietro, nel tentativo di calmarsi. Sentiva il respiro farsi meno regolare, il cuore battere dolorosamente nel petto e il viso corrucciarsi nel tentativo di tornare a distendersi, a mostrare anche solo un pallido sorriso a riprova che tutto stava andando bene, che non era rimasta solo lei ad affrontare tutta quella paura improvvisa.
    «Hai l’espressione di una bambina che sta per piangere ma non lo fa… come dovesse dimostrare di non averne alcun bisogno».
    Si raddrizzò di colpo rischiando seriamente di sbilanciarsi, aprendo gli occhi per vedere chi le avesse parlato. Riconosceva quella voce. Con un misto di confusione e un’inattesa gioia fece scorrere lo sguardo su quelle scarpe di tela che un tempo dovevano essere state bianche ma che ora sembravano un agglomerato di grigi diversi. Grigio polvere, grigio terra, grigio gomma. I pantaloncini neri alle ginocchia, larghi e lisi ai bordi, l’elastico seminascosto da una maglietta chiara.
    Labbra piene e morse nel mezzo, naso lievemente all’insù, occhi larghi seminascosti da occhiali dalla montatura sottile, capelli lisci e scuri, lasciati crescere qualche mese di troppo e disciplinati sbadatamente con mollette da ragazzina.
    Era lì, davanti a lei, più vicino di quanto non lo fosse mai stato. Con un lieve sorriso, gli occhi rossi e un bicchiere d’acqua in mano.
    «Non prendermi in giro» sussurrò tra un respiro e l’altro, tornando a chiudere le palpebre. Ora che sapeva che era lì e che sentiva il suo calore tanto vicino, non aveva bisogno di vedere per sapere di non essere più sola «qui il bambino frignone, tra i due, sei tu. Sbaglio o quelle di prima erano lacrime?»
    Quelle sfumature grigie che le avevano mostrato una dimensione che pensava perduta per sempre. Quel particolare colore bagnato che aveva visto tanto spesso allo specchio, dopo quella furiosa litigata con la sua migliore amica ai tempi delle elementari, quel rossore a circondarle, come quando era morta la nonna e lei non era stata in grado di fare altro se non guardare la bara ricoperta di fiori bianchi, chiudendo fuori tutto il resto del mondo, le condoglianze e i falsi dispiaceri di chi le era stata intorno.
    «Tieni» le disse porgendole il bicchiere che prese con mano lievemente tremante senza portarselo alle labbra e appoggiandolo sul marmo accanto a sé. Poi lui le tese quella stessa mano, senza dire nulla, senza guardarla negli occhi, preferendo fissarsi il palmo, assorto in una preghiera. Che lei la prendesse.
    Fissandosi la propria, di mano, la alzò lentamente e ricoprì la distanza con quella di lui in un tempo che le sembrò infinito. Poi, quando le dita sottili sfiorarono quelle lunghe e meno delicate, vennero afferrate con decisione e tirate, costringendo il corpo a seguirle senza più incontrare resistenza.
    Perché voleva andarsene, allontanarsi da quel davanzale. Perché, in fondo, sapeva si sarebbe sentita sicura solo se lui l’avesse guidata, come l’aveva trascinata di forza a capire il suo errore.
    Si strinse a lui con forza, circondandogli la vita e afferrando la maglia tra le dita, affondando il volto nel petto solido e lasciandosi andare. Rilassando le spalle e provando a far scorrere via la paura, l’ansia e il timore residui. Sciogliendosi liberamente in lacrime. Lui le circondò le spalle con un braccio e infilò l’altra mano tra i capelli di lei, costringendola contro di sé, come avesse paura delle conseguenze se le avesse permesso anche solo di allontanarsi, sospirando di sollievo.
    «Perché sei tornato indietro? Credevo te ne fossi andato!»
    «Se devo essere sincero non ne sono sicuro» esitò come a interrogarsi seriamente sul perché di quella sua decisione improvvisa «forse perché ho nutrito una minima speranza di averti salvato. Che tra tutte le sciocchezze e gli insulti che ti ho riversato addosso, avessi veramente detto qualcosa che avrebbe potuto farti cambiare idea».
    Tra le lacrime sempre più copiose, non si sa come, non si sa il perché, lei rise. Un breve scoppio tra i singhiozzi, molto più simile ad un colpo di tosse ma accompagnato dal sottile curvarsi delle labbra e lo schiudersi di palpebre, dritte in quelle attente di lui attraverso le lenti sottili.
    «Cosa?» le mormorò insicuro, non osando alzare la voce per spezzare quell’attimo di tranquilla intimità creatasi tra i respiri affannati e le lacrime, ora silenziose, che ancora bagnavano le guance di lei e la maglia leggera di lui, lasciando chiazze azzurro scuro.
    La vide tentare di articolare delle parole, riuscendo solamente ad emetter forti sospiri misti a singhiozzi, poi la vide portare una mano a rimuovere delicatamente quelle strisce liquide dal viso.
    «No-non so nemmeno come ti chiami» singhiozzò ancora, scuotendo le spalle contro le sue braccia, che la circondavano nuovamente protettive, chiudendola in un bozzolo di silenzio e sicurezza, non intaccato dai forti respiri che ancora emetteva nel tentativo di calmarsi.
    Lui si lasciò scappare una mezza risata, stringendola maggiormente a sé, chinando il capo e appoggiando il volto contro la sua testa.
    «Se è per questo, io non sono nemmeno certo che il tuo nome sia veramente Andrea» ribatté lui, sussurrando tra i capelli di lei, il fiato a propria volta spezzato.     Le emozioni scatenate dal loro incontro che si affollavano l’una sull’altra libere finalmente di prevalere sul terrore che lo aveva colto fino a quando lei era rimasta seduta in bilico tra l’interno e l’esterno. Adesso si sentiva le gambe tremare e le braccia pesanti. Adesso che era tutto finito.
    «Mi chiamo Grazia. Grazia Doni» ammise stringendo inconsciamente – ma forse non troppo – la maglia di lui sulla schiena nel tentativo di non permettergli di spingerla via come pensava avrebbe fatto. Con quello tutti i veli erano caduti, ogni menzogna nella discussione, ogni lato di sé che non avrebbe mai pensato di rivelare – a lui o ad altri.
    Lo sentì sorridere tra le ciocche ormai arruffate dalla mano che le teneva la testa.
    «Piacere, Grazia» la scostò da sé, senza lasciare che l’abbraccio si sciogliesse, per tornare a guardarla in volto e asciugarle le poche lacrime superstiti con un dito, sorridendole «il mio nome è Andrea»
    «Andrea?» gli occhi le si spalancarono increduli, gemelli della reazione avuta da lui poco prima – o forse giorni o ore – quando lei aveva scelto quel nome come falso, luccicanti come argento per via delle lacrime «Ma sul serio?»
    «Andrea Nobili» confermò ridendo e lasciando che lei si perdesse nuovamente nel suo sguardo prima che riappoggiasse la fronte sul petto di lui, liberando a propria volta un riso breve e sospirato, a riprova di quanto la vita potesse essere assurda, imprevedibile e piena di coincidenze. Come il loro incontro.
Poi gli diede un leggero pugno allo stomaco, non sufficientemente forte da fargli sentire dolore ma abbastanza improvviso da farlo istintivamente chinare in avanti.
    «Ehi!»
    «Questo è per avermi gridato contro» bofonchiò a mo’ di spiegazione, finendo di asciugarsi le lacrime e aspettando che lui smettesse di borbottare improperi a bassa voce e si raddrizzasse nuovamente, un sorriso meno lieve a illuminargli il volto. Poi si alzò repentina sulle punte, aggrappandosi alla maglia ancora umida, per sfiorargli le labbra con le proprie. Lui spalancò gli occhi.
    «Doveva essere una specie di grazie?» si arrischiò a chiedere cercando di non fraintendere il gesto. Se c’era una cosa che aveva capito di Grazia, era che poteva dimostrarsi estremamente volubile. Una lunatica, un po’ come lui. Sorrise ancora. Un po’ tanto, forse.
    «Inammissibile!» una nuova voce – nuova solo all’ordine del giorno tra loro due – s’intromise facendoli voltare di scatto. La bibliotecaria, quella simpatica che controllava il livello di nicotina assunto giornalmente da Andrea, sembrava marciare nella loro direzione, battendo con stizza i tacchi sul pavimento.
    «Se volete fare i piccioncini trovatevi una stanza!» sibilò inviperita, fulminandoli con lo sguardo e indicando seccamente le scale da cui era salita «E ora fuori di qui!»
    Andrea – come sapeva di poterlo chiamare – ammiccò una volta alla donna prima di portare il suo sguardo in quello di lei, aggrottando le sopracciglia e atteggiando il viso in una smorfia che lei interpretò come fintamente dispiaciuta.
    Espressione in cui lei riconobbe sollievo – perché tutto era finito in quello che sembrava veramente il migliore dei modi – preoccupazione – perché se quella donna fosse arrivava solo poco prima, allora la vicenda si sarebbe potuta anche concludere diversamente – divertimento – perché, in fondo, l’ingresso imprevisto non aveva rovinato un bel niente – e malizia. Perché non erano altro che puntolini variopinti in un’intera valle di grigio opaco, spento nella fioca luce della sera.
    Andrea tornò a chinarsi in avanti, facendo aderire le loro fronti e intrecciando le proprie dita con quelle di lei, inumidendosi le labbra.
    «Adesso ho la bocca che sa di sangue» guardò di lato studiatamente indifferente, cercando fino alla fine di trattenere le risa. Si picchiettò il labbro inferiore con un dito e smise di fingere, socchiudendo le palpebre e sussultando anche con le spalle ad esternare tutto il divertimento che l’aveva colto. Ridendo come non credeva avrebbe mai fatto, all’inizio di quella giornata.
    Scoppiò a ridere anche lei, perché in fondo non c’era nient’altro a circondarli. E i fantasmi di quanto era successo sarebbero potuti essere affrontati più avanti e, perché no, anche insieme.
    Grigio, solo grigio.
    Come tutte le sfumature nei loro occhi quando si era riaccesa la speranza.
 
***
Alle volte basta solo piangere
(respirare, chiudere gli occhi, sperare)
Perché il mondo ci sembri un posto migliore.
 
 
 
End?
 
 
 
 
Questa storia è dedicata a Laura, che nella sua fragilità è stata in grado di continuare a vivere.
Grazie per averlo fatto.
 
 
AliasNLH


  
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