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Autore: Hiraedd    06/04/2013    6 recensioni
A volte capita che il Capitano Grifondoro si ritrovi tra le mani uno strano enigma chiamato Dorcas Meadowes, che in sei anni gli ha rivolto la parola tre volte al massimo, tutte nel giro dell’ultima settimana.
Può anche capitare che un Serpeverde solitario e innocuo inciampi in una maschera che non nasconde solo un volto, ma un mondo intero. Perchè Benjamin odia Caradoc Dearborn, sia chiaro, e quegli occhi dorati non gli fanno alcun effetto. Forse.
Oppure può succedere che il Caposcuola sia innamorato da anni della sorellina del proprio migliore amico, che ha perso la testa per un Auror di stanza in Polonia, e abbia una fottuta paura che Edgar lo scopra e lo torturi perché no, quelli che fa verso Amelia sono tutto fuorché casti pensieri d’amicizia.
Per fortuna, però, che c’è Hestia Jones, deputato diario segreto degli studenti del settimo anno, che tutto osserva nonostante, a conti fatti, non distolga nemmeno per un secondo lo sguardo dal suo adorato fidanzato, il Prefetto Sturgis Podmore.
*
Siamo ad Hogwarts, è l’autunno 1969 e la guerra è già più vicina di quanto non sembri.
*
Altri personaggi: Gideon Prewett, Kingsley Shacklebolt, Sturgis Podmore, Amelia e Edgar Bones.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Benjy Fenwick, Caradoc Dearborn, Dorcas Meadowes, Fabian Prewett, Hestia Jones
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'oltre il fuoco comincia l'amore'
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NOTE:
 
ecco la seconda parte del quindicesimo capitolo. Sto iniziando ad odiare Caradoc e Benjy (solo un po’), ho trovato un po’ difficile manovrare i due personaggi senza risultare troppo meccanica: spero di esserci riuscita quel tanto, per lo meno, da non rendere noiosa la lettura. Non so, ditemi voi, davvero non riesco a capire quanto mi piaccia quello che ho scritto. La trama mi soddisfa, era esattamente così che volevo andassero le cose, ma quando leggo quello che ho scritto non riesco a sentirmi totalmente coinvolta. Poi non so se è perché sono io che sono assuefatta oppure se è proprio uno schifo quello che ho scritto. Boh, ditemi voi.
Nel prossimo capitolo scordatevi Ben e Caradoc, perché altrimenti io muoio. Sono tipetti difficili da trattare.
Stasera risponderò alle splendide recensioni che avete lasciato, un bacione a tutti!
 
Comunicazione importante: la storia è in fase di revisione. La gentilissima highwaytohell_ ha accettato di prendersene cura, quindi tra stasera e domani postero i primi capitoli revisionati e corretti da tutti gli strafalcioni che sono solita piazzare qua e là.
 
Buona lettura,
Hir
 
P.S. Ah, si, lo so, il fluff ci sommergerà tutti.
 
 
 
 
 
 

Capitolo 15
(seconda parte)

 
 
 
 
 
 
-io lo odio quando fa così-.
 
Comodamente seduta sul letto del proprio fidanzato, Hestia Jones sorrise intenerita.
 
Lo aveva cercato in Sala Comune e alla fine si era diretta a passo sicuro verso il dormitorio Corvonero del settimo anno, quello stesso dormitorio che il ragazzo divideva, tra gli altri, anche con Dearborn, sicura di trovare Podmore intento a rimuginare.
 
Sturgis le dava le spalle, rivolto con lo sguardo verso la finestra più vicina. Aveva gli occhi lucidi, completamente seri, e per il nervosismo era intento a mordersi il labbro inferiore.
 
-no che non lo odi- si prese delicatamente il disturbo di correggerlo –credo sia, a conti fatti, la persona a cui tieni di più al mondo, se escludiamo la tua famiglia-.
 
Il ragazzo diede un sibilo tra i denti.
 
-lo odio- ribadì.
 
Quando sette anni prima Sturgis Podmore aveva avuto l’onore di fare la conoscenza di Caradoc Dearborn,  al tavolo dei Corvonero, una sola cosa aveva pensato: quel bambino aveva l’aria di sentirsi un po’ perso.
 
Se ne stava per conto proprio guardandosi di tanto in tanto attorno un po’ spaurito, con quegli occhi enormi color topazio piantati proprio sotto la fronte, lucidi e chiari. A tratti prendeva sicurezza in se stesso, puntava lo sguardo addosso a qualcuno e affilava l’occhiata, passandola addosso alle persone come se fosse stata un rasoio. Poi tornava a chiedersi, probabilmente, cosa ci faceva lì.
 
Lui era seduto tra Max McKinnon e una ragazza del secondo anno, e a quel ragazzino lì non ci aveva fatto caso più di tanto, a dire la verità. Era troppo serio, per lui.
 
Nei giorni successivi lo aveva osservato parecchio, invece: lo aveva visto alzare la mano ad ogni singola domanda rivolta da un professore qualunque al resto della classe, lo aveva visto richiamare a sé la scopa con maestria alla prima lezione di volo, lo aveva visto risolvere tutti gli indovinelli del battente a forma di corvo, lo aveva visto assistere alle selezioni per il Quidditch con l’aria smaniosa di chi vorrebbe parteciparvi, ma non ne ha il coraggio. In dormitorio non rivolgeva praticamente la parola a nessuno, se non per salutare e scambiare qualche frase di circostanza. Aveva fatto amicizia con una sola ragazzina, del loro stesso anno e della loro stessa casa, Hestia dai codini buffi.
 
Sembrava lo studente perfetto. Sembrava un bambino timido.
 
All’inizio del secondo anno erano finiti in coppia ad una lezione di Trasfigurazione. Per sbaglio, a causa di due incantesimi andati storti, i capelli della Professoressa McGranitt avevano assunto un’acconciatura stramba e parecchio imbarazzante, acconciatura davanti a cui tutta la classe era scoppiata a ridere, perfino loro.
 
Davanti alla prospettiva di controllare le bacchette dei due alunni per decidere chi dei due bastonare per primo, la cara Minerva aveva optato per una soluzione sicuramente più semplice ed efficace. Aveva tolto venticinque punti per testa colpevole a Corvonero e poi li aveva messi tutti e due a strigliare senza magia il pavimento di tutti i magazzini nei sotterranei.
 
Parlare era parso ad entrambi un buon modo di passare il tempo.
 
Era proprio lì, tra una scopa e uno straccio sudicio, che era iniziata la storia di un’amicizia fraterna che, a tratti, poteva anche sembrare banale.
 
-non è il Quidditch, la parte centrale della storia. Vuole smettere di giocare? Bene - mormorò Podmore dopo lunghi attimi di silenzio, senza voltarsi –ma lui in realtà non vuole smettere. Merlino, è l’unica cosa che lo rende veramente felice!-.
 
Hestia sospirò appena. Tentare di ricondurre Sturgis alla calma semplicemente ribattendo qualcosa su quanto Caradoc in realtà tenesse alla propria famiglia sarebbe stato totalmente inutile.
 
Si alzò lentamente, raggiunse Podmore e lo abbracciò alle spalle, restando semplicemente zitta contro la sua schiena. Il ragazzo, leggermente più alto di lei, inclinò il capo all’indietro per appoggiarlo alla sua testa.
 
C’era poco da fare: da qualsiasi lato si toccassero, sembrava quasi che i loro corpi fossero stati fatti con l’unico obbiettivo di combaciare perfettamente.
 
-vorrei che con lui la vita fosse stata più gentile- mormorò alla fine il Prefetto, sconfitto.
 
 Vederlo così serio, intristito, era qualcosa di molto strano. Eppure non v’era argomento migliore della famiglia Dearborn, o di quello che ne rimaneva, per trasformare l’essere più simpatico e sorridente sulla faccia della terra nel pessimista cronico e deluso a cui adesso Hestia Jones era abbracciata.
 
-lo vorremmo un po’ tutti- mormorò alla fine la ragazza, lasciandogli un lieve bacio sulla spalla –purtroppo volere non è potere.  Credo comunque che in questo caso tu abbia ragione-.
 
-come…?-.
 
-sei stato un po’ troppo brusco, forse. Ma Caradoc ormai ha quasi diciotto anni, credo sia abbastanza cresciuto da essere messo davanti alla cruda verità che nemmeno rinunciare al suo più grande sogno gli farà ottenere l’attenzione di suo padre. È una cosa brutta, è vero, ma se il Signor Dearborn e sua moglie non sono stati in grado di superare il dolore, non vuol dire che il loro unico figlio ancora in vita debba seguire le loro orme. Non sono stati forti, e reggendo loro il gioco non faremmo di certo il bene di Docco-.
 
Sturgis si voltò delicato. Era sempre delicato, quando in ballo c’era Hestia. Quando teneva lei tra le braccia, sembrava quasi maneggiare un fiore di vetro.
 
-sono sopravvissuti al dolore più grande che due genitori possano affrontare, credo. Sono stati forti- la corresse Podmore. Lo fece storcendo la bocca in un ghigno poco piacevole, come se ammetterlo lo disgustasse. Provava veramente poca stima nei confronti dei genitori del proprio migliore amico, bisognava ammetterlo, ma sperava davvero di non doversi mai ritrovare ad affrontare fantasmi simili nella propria vita.
 
Hestia arricciò le labbra, in risposta, poco convinta.
 
-hai detto bene, si sono limitati a sopravvivere- borbottò –sono dieci anni ormai che Caradoc vive all’ombra di quello che sarebbe potuto diventare suo fratello. E lo fa sentendosi colpevole in maniera inaccettabile, cercando l’approvazione del padrone come farebbe un elfo domestico. Caradoc è…-
 
-ti stai per lanciare in un’appassionata dichiarazione d’amore a Dearborn? Perché sai, potrei esserne geloso- la prese bonariamente in giro Sturgis, recuperando in parte il sorriso.
 
Hestia, ancora intenta a parlare, scoppiò a ridere di gusto: stava tornando ilsuo Podmore, sorridente e scanzonato.
 
Pretese un bacio a fior di labbra, senza staccare gli occhi dai suoi.
 
-certo che sto per farlo. In realtà in tutti questi anni sono stata con te per fare breccia nel suo cuore, spero che tu non me ne voglia per questo- rispose garbatamente sfacciata –Caradoc è bellissimo, intelligente, brillante e affascinante. È uno dei migliori studenti di questa scuola e ha una spiccata personalità che sa attrarre a se persone di tutte le età e di tutti i gusti. Ha una sua personale visione della vita, talvolta anche troppo pessimistica, ma sa conciliare le sue idee con quelle degli altri. Ha un grandissimo potenziale, ed in qualità di suoi migliori amici noi abbiamo il dovere di fargli notare tutte queste belle caratteristiche-.
 
Nonostante nelle prime parole il tono civettuolo di Hestia suggerisse probabilmente il continuo delle battute precedenti, mano a mano che la ragazza si dilungò nell’osservazione del carattere di Dearborn divenne anche decisamente seria.
 
Sturgis restò per un attimo appena a guardare la propria ragazza con occhi lucenti.
 
-sei la cosa migliore che mi sia capitata nella vita, sai?- sussurrò appena, come stupefatto da tanta fortuna –sono poche le persone che hanno l’onore di avere una meraviglia del genere vicino. E non mi riferisco a quanto sei bella fuori-.
 
Siccome Hestia Jones era, per l’appunto, l’irrimediabilmente sensibile Hestia Jones –che si emoziona di niente e si commuove per tutto-, sentì le lacrime salire sincere e quasi irrefrenabili. Con una mano tentò di coprirsi gli occhi per non rendersi ridicola davanti a Podmore, almeno non più del necessario. Il ragazzo, però, anziché restare fermo le bloccò la mano, senza distogliere lo sguardo dal suo.
 
-bastardo. Ti diverte vedermi così- lo accusò.
 
Sturgis si morse la lingua, tentando di trattenere una risata. Le accarezzò una guancia, dolce.
 
-mi piace vederti felice- ammise alzando gli occhi al cielo per la seconda volta e cambiando discorso all’improvviso, per buona pace della sua ragazza –senti, ma riguardo tutte quelle buone qualità di Dearborn di cui parlavi prima, credi sia proprio necessario fargliele notare tutte? No, perché, in caso tu non lo avessi notato, non stiamo esattamente parlando della persona più modesta del mondo, sai…-
 
Hestia Jones soffocò le proteste di Podmore con l’ennesimo bacio.
 
 

*

 
 
Caradoc Dearborn era un essere vanesio, narcisista, egocentrico e deludente.
Anzi, era l’essere più vanesio, narcisista, egocentrico, deludente e bastardo sulla faccia della terra.
 
Le convinzioni di Benjamin Fenwick –ferree ed avvalorate da tesi decisamente insindacabili- non avrebbero potuto basarsi su fondamenta più solide.
 
Chi diavolo si credesse di essere Dearborn per insultarlo in modo tanto umiliante in un pomeriggio che avrebbe dovuto essere di divertimento totale lo poteva sapere soltanto lui.
 
Andare al Parco quel pomeriggio con un gruppo di ragazzi che lui, di sua spontanea volontà, non avrebbe neanche guardato per sbaglio, poteva essere tranquillamente catalogata come la peggior idea avuta da un mago negli ultimi seicento anni. Una pessima idea, come lo era stato allo stesso modo fermarsi in infermeria a parlare con Dearborn, giorni prima, o permettere alla propria migliore amica di partecipare ad un Club dei Duellanti tenuto in piedi dal sopraccitato Dearborn e compagnia cantante.
 
-Fenwick!-.
 
Caradoc Dearborn sarebbe stato la sua rovina, Ben ne era più che certo mentre camminava senza fretta verso il portone principale del castello di Hogwarts. 
 
Arrivato all’ingresso si diresse verso le scale che lo avrebbero portato ai sotterranei ma una volta arrivato in fondo alla scalinata svoltò verso le aule di Pozioni. Era così nervoso e amareggiato che, se fosse andato direttamente in Sala Comune e avesse per caso incrociato Dolohov o Malfoy –sempre così prodighi nel fargli notare quanto sbagliate fossero le sue amicizie- avrebbe rischiato di fare semplicemente danno.
 
Merlino, erano anni che non perdeva la calma in quel modo! L’ultima volta che lo aveva fatto era stato quando, nell’estate dei suoi tredici anni, Jodie aveva rovesciato a terra la prima boccetta d’essenza di Purvincolo che lui era riuscito a distillare da solo.
 
Arrivato nelle immediate vicinanze dei laboratori di Pozioni si infilò nella prima aula che trovò, quella usata normalmente da Lumacorno. Si guardò attorno più volte, passando lo sguardo dalle file di calderoni all’armadio delle scorte, e poi chiuse la porta con uno scatto, muovendo la bacchetta per bloccarla dall’interno.
 
Alle lezioni di Pozioni, le sue preferite in assoluto in quella scuola, Benjamin Fenwick sedeva sempre in seconda fila: non così vicino al Professore da risultare un tirapiedi –non che ne avesse bisogno- né così lontano da sembrare disinteressato. A metà, nella media.
 
Anche se lui era, in quella materia, parecchio sopra alla media, modestia a parte.
 
Fuori dalla porta si sentì un rumore di passi.
 
-Fenwick-.
 
Il Serpeverde alzò appena gli occhi dal calderone che stava fissando. Se aveva chiuso la porta non era certo perché pensava che Dearborn lo avrebbe seguito, ma per non essere disturbato da insulsi studentelli che ancora si perdevano per la scuola, dopo ben due mesi di lezioni.
 
Al fatto che Dearborn avrebbe potuto seguirlo non aveva pensato per niente.
 
Scrollando le spalle si diresse all’armadio delle scorte.
 
Radici di bardana in polvere, artigli di drago, bile di armadillo.
 
Scostò appena una bottiglietta contenente del Dittamo e la scatolina dei Bezoar per cercare sul fondo del primo ripiano.
 
Ortiche secche e aculei di Porcospino. In una ciotola, nel ripiano sottostante, stavano sminuzzati quelli che avevano tutta l’aria di essere aghi di Rosmarino.
 
-Fenwick, sei lì dentro e lo sappiamo entrambi- disse dall’esterno della stanza la voce di Dearborn. Non sembrava particolarmente adombrata, nemmeno fosse stato normale ritrovarsi in una situazione del genere.
 
-e mi domando cosa te ne fai tu di un simile sapere- borbottò sottovoce Benjamin, afferrando due o tre ingredienti a caso e portandoli al suo solito posto. Con uno svolazzo della bacchetta accese il fuoco sotto al paiolo e lo riempì d’acqua.
 
L’attenzione del ragazzo si fissò immediatamente sugli ingredienti che aveva rimediato. Avrebbe potuto preparare un rimedio contro l’influenza invernale: di solito in quel periodo dell’anno risultava utile anche a lui. Tenere le mani occupate, poi, l’avrebbe aiutato a distendere i nervi.
 
-sai, le prime volte in cui sono stato costretto a scendere nei sotterranei, il primo anno qui ad Hogwarts, li odiavo. C’è sempre puzza di chiuso, l’aria è viziata e di primo acchito potrebbe sembrare anche fredda. In più è buio, non trovi una finestra neanche a pagarla e la penombra mi faceva venire male agli occhi, a forza di strizzarli. C’era una di Tassorosso, Marjorie Batkins, che aveva talmente paura da sobbalzare ogni volta che Lumacorno le faceva una domanda. Incredibile. Ci sono anche uscito… con Marjorie Batkins, intendo, non certo con Lumacorno…-.
 
Benjamin sospirò a fondo. Bastava semplicemente fare finta che non ci fosse nessuno, oltre quella porta.
 
Fai finta di niente. Distendi la mente, non pensare a Dearborn.
 
E nel mentre il Corvonero fuori dalla porta continuava a parlare.
 
-…non che mi interessi, per carità divina. Però credo che a perderci sia lui, non io. Insomma, sai quanto si alzerebbe il livello del Lumaclub se io ne facessi parte? Certo, ho modi più interessanti per passare le mie serate. Tu ne fai parte, vero?-.
 
Dentro alla stanza, Fenwick si ritrovò stupidamente ad annuire alle parole di Dearborn. Merlino, com’era?
 
Fai finta di niente.
 
Con attenzione pestò i primi artigli di drago, ricavandone la polvere finissima indicata nella ricetta. La Pepata era stata la prima vera pozione che aveva imparato, e ormai ne conosceva le istruzioni a memoria.
 
Con il misurino raccolse la polvere e la gettò nell’acqua, guardandola con un sospiro diventare di un delicato rosa cipria. Contò fino a tredici, diligentemente, poi iniziò a mescolare tre volte in senso antiorario e cinque in senso orario. Il liquido nel calderone si scurì di un tono.
 
-…che poi, io sono stato nella Sala Comune dei Tassorosso soltanto una volta, due anni fa. È molto calda e accogliente, ma assomiglia troppo ad un alveare per piacermi veramente. A parer mio rispecchia particolarmente bene l’indole di Amelia, non so se sai che…-
 
Il Serpeverde alzò gli occhi al cielo, decisamente scocciato.
 
Se Dearborn contava di prenderlo per stanchezza, di certo avrebbe perso. C’era una sola persona al mondo capace di far perdere del tutto la pazienza a Benjamin Fenwick, e per grazia di Merlino e Morgana al momento quella persona si trovava a troppi chilometri da lì, in Algeria, Siberia o Burundi che fosse.
 
Alzando gli occhi al cielo tornò con lo sguardo serio sulla pozione. Non era certo quello il momento di distrarsi.
 
Selezionò con cura cinque occhi di Pesce Palla da una delle ampolle sul banco e li fece cadere, uno dopo l’altro, all’interno del calderone. Mescolò ancora tre volte in senso antiorario, poi strinse lievemente gli occhi per riflettere sul bollore del liquido, che andava accrescendo rapidamente.
 
-…tutto il mondo sa che Kingsley è cotto di Meli dall’alba dei tempi. Credo, in realtà, che gli unici a non sapere quanto si piacciano quei due siano loro due stessi. Oh, anche Edgar non lo sospetta, ma che vuoi farci, i fratelli non sono sempre i migliori osservatori del…-
 
Il Serpeverde all’interno della stanza abbassò lo sguardo sulla propria mano, accorgendosi di aver appena ridotto in poltiglia tra le dita una manciata di bacche di vischio. Innervosito dall’inconveniente, causato della distrazione dovuta alla voce di Dearborn, si ripulì con un incantesimo appena sussurrato. Afferrò ancora una volta una piccola manciata di bacche e, dopo averle accuratamente contate, le lasciò cadere nel calderone.
 
-… e così le ha regalato un lupo giocattolo con gli occhi che cambiano colore a seconda del cambiamento d’umore del proprietario, che a questo punto sarebbe stata Hestia. Solo che alla fine Hes lo trovava troppo inquietante e…-
 
Benjamin Fenwick trattenne un’imprecazione piuttosto volgare all’indirizzo di tutti i Dearborn. Tirò qualche respiro profondo per calmarsi.
 
-… non si sono parlate per undici giorni, un vero dramma. Perfino Kingsley alla fine non poteva più sopportare quel silenzio nervoso in cui piombavamo ogni volta che c’erano entrambe, e credimi se ti dico che per far perdere la pazienza a Shacklebolt…-
 
 Alla  fine, preda di un’irritazione da cui di rado si lasciava possedere, Benjamin Fenwick batté adirato sul tavolo la mano in cui impugnava la boccetta d’acqua del fiume Lete.
 
 

*

 
 
Caradoc Dearborn sapeva che nemmeno Benjamin Fenwick avrebbe potuto ignorarlo per tutto il pomeriggio.
 
 Edgar Bones diceva sempre che non v’era nessuno, in tutto il mondo, capace di ridurre all’osso la pazienza delle persone meglio del Capitano della squadra di Quidditch di Corvonero; Caradoc ne ebbe conferma quando, dopo aver udito un tonfo piuttosto sordo provenire dall’interno della stanza, sentì un rumore di passi in direzione della porta.
 
Dearborn si trovò inconsapevolmente a sorridere, divertito.
 
Fenwick aveva aperto la porta quel tanto sufficiente a mostrare appena gli occhi scuri e severi, le labbra arricciate dal disappunto e le sopracciglia lievemente corrugate. La postura delle spalle esprimeva un’insolita nota di nervosismo.
 
Doveva proprio averlo scocciato interrompere qualunque cosa stesse combinando là dentro per venirgli ad aprire la porta.
 
Per qualche secondo Benjamin parve sul punto di dire qualcosa, poi indietreggiò mordendosi il labbro inferiore e lasciando la porta socchiusa.
 
L’aula era più buia del solito e, quasi completamente vuota com’era, sembrava anche più grande. Oltre ad un paio di fiaccole accese, l’unica fonte di calore e di luce pareva essere il fuocherello piuttosto timido che brillava sotto ad un calderone, vicino a Fenwick.
 
-ti serve qualcosa dall’armadio delle scorte?- chiese in un pallido tentativo di spezzare la tensione quando passò davanti al mobile pieno di scatoline ed ampolle.
 
Benjy gettò qualcosa nel paiolo prestandovi la massima attenzione, dopodiché si volse verso di lui e scosse le spalle.
 
-guarda se trovi delle radici di valeriana- mormorò senza particolare enfasi –migliorano il sapore della Pozione e inducono una lieve sonnolenza, che aiuta a prendere sonno-.
 
-che cosa prepari?-.
 
-qualcosa per tenere occupate le mani-.
 
Caradoc fece il giro del tavolo a cui stava lavorando Fenwick per sedersi nel posto dirimpetto a lui, dando le spalle alla cattedra di Lumacorno. Con delicatezza posò un pezzo di radice di valeriana non ancora tritata accanto al tagliere del più giovane, sentendosi improvvisamente a disagio in mezzo a quel silenzio che, nuovamente, s’era andato a condensare nell’aria.
 
Benjamin lavorava con precisione, muovendosi con sicurezza tra i coltelli, gli ingredienti e il mortaio. Dearborn notò che non fissava quasi mai la pozione, se non nei momenti chiave della preparazione, limitandosi a tenere lo sguardo fisso sul movimento delle proprie mani.
 
-hai mai ballato un valzer?- chiese all’improvviso il Corvonero, aggrottando la fronte.
 
Benjy sollevò lo sguardo chiaramente stupito, lasciando per un attimo perdere la pozione. Squadrò Dearborn con occhio critico, indeciso se prenderlo sul serio o rimandare i ragionamenti sulle numerose stranezze dell’individuo, poi gettò un’occhiata all’intruglio nel calderone che, proprio in quel momento, iniziò a bollire più intensamente del necessario. Con uno svolazzo della bacchetta mise a tacere le bolle.
 
-la mia domanda era seria- sottolineò Caradoc con un sorrisetto –hai mai ballato un valzer?-.
 
-mai- mormorò il ragazzo fingendosi distratto. Da sotto le ciglia gettò un’occhiata al più grande, poi come se nulla fosse prese a rimestare la propria Pozione.
 
Caradoc sospirò, tornando ad osservare i movimenti delle sue mani.
 
-io si. Avevo un’insegnante un po’ bacchettona, come la McGranitt, che si portava sempre dietro un bastone da passeggio smaltato di nero. Ogni volta che vedeva che danzavo guardandomi i piedi per capire dove metterli, me lo picchiava poco severamente su una spalla-.
 
Benjy posò il coltello, con il quale stava affettando le milze di pipistrello, e alzò lo sguardo perplesso sul ragazzo di fronte a se.
 
-mi… dispiace per lei?- chiese interdetto, non afferrando al volo il concetto.
 
-per la mia insegnante?- domandò Dearborn, stranito.
 
-per la tua spalla-.
 
Il Corvonero diede in un sorrisetto, poi si spiegò.
 
-diceva che guardarsi i piedi mentre si danza toglie eleganza al movimento. Sfortunatamente per lei e per mia madre, che insistette tanto per farmi prendere lezioni di valzer, in materia non ne ho mai capito abbastanza per decidere se lei avesse ragione o meno-.
 
Questa volta fu Fenwick a mostrarsi stupito.
 
-com’è che sei finito a pensare al valzer?- domandò incuriosito, tornando a lavorare sulle milze ancora sul tagliere.
 
Caradoc scrollò le spalle, seguendo un pensiero forse tutto suo, poi sorrise ancora. Esitò per un momento, aprì la bocca per dire qualcosa e poi la richiuse. La aprì una seconda volta, fiducioso che forse qualcosa prima o poi ne sarebbe uscito. Sembrava essersi intimidito all’improvviso.
 
-ti muovi attorno a quel calderone come se stessi danzando-.
 
Lui, in realtà, quella frase l’aveva pensata in maniera un po’ diversa da come gli era uscita. Aveva pensato a qualcosa di molto più pratico, molto meno poetico. Qualcosa che non lo avrebbe fatto sembrare una timida Tassorosso del secondo anno.
 
Benjy, mentre il Corvonero impattava contro le possibili sfumature della frase, ebbe solo il tempo di sgranare gli occhi.
 
-cioè, volevo dire che è armonioso il modo in cui ti muovi e sminuzzi gli ingredienti, anche se guardi raramente la pozione e non sposti mai lo sguardo dalle tue mani. Sai perfettamente cosa fare, si vede, e lo fai come se sentissi solo tu una melodia di fondo. È come… è come… lascia perdere- sbuffò alla fine, chiedendosi perché mai si fosse andato volontariamente ad impelagare in un discorso simile. Fenwick non era Sturgis, abituato a dargli corda nei suoi ragionamenti senza capo ne coda.
 
Il Serpeverde sembrò per qualche minuto seguire il suo consiglio, continuando imperterrito a tagliuzzare milze di pipistrello. Alla fine, però, dopo averle gettate nel calderone, tornò con lo sguardo su Dearborn, squadrandolo incuriosito.
 
-credi davvero che… com’era? Guardarsi i piedi mentre si balla un valzer tolga eleganza al movimento?- domandò stranito.
 
Caradoc rise brevemente, poi alzò su di lui due occhi sommamente divertiti. Con un movimento buffo delle spalle liquidò il discorso.
 
-veramente a crederlo era la mia insegnante. Non mi ritengo un ballerino abbastanza bravo da poter parlare coscientemente dell’eleganza del valzer. Sulle pozioni invece ne so un po’ di più: sembri davvero bravo come ti dipingono-.
 
Questa volta toccò a Fenwick scrollare le spalle. Sembrava che la cosa non gli interessasse poi così tanto.
 
-non era mia intenzione insultarti, prima- tentò di scusarsi Dearborn, continuando con il precedente tono disinvolto –niente di quanto ho detto voleva ferirti-.
 
 

*
 

 
L’irritazione e il nervosismo che lo avevano colto nel Parco, sotto al grande faggio, erano mano a mano scemati fin da quando Caradoc Dearborn aveva iniziato quel suo strano discorso sul valzer.
Quello che prima era stato un silenzio teso si era decisamente rilassato, lasciando il posto ad una quiete quasi per niente scomoda. Tenere le mani impegnate lo aveva sempre aiutato a distendere i nervi, a far tornare la pace in quelle rare volte in cui si lasciava turbare consapevolmente da qualcosa. Questa volta, al posto della pace, arrivò però uno strano e insolito senso di aspettativa.
 
 Le ultime parole del Corvonero lo avevano condotto poi a sorridere lievemente, ironico.
 
-non è che tu abbia mai avuto seriamente torto, nel descrivermi- mormorò prendendo tra le mani la radice di valeriana procuratagli da Dearborn. Avrebbe dovuto iniziare ad affettarla finemente con il coltello e poi a pestarla nel mortaio se non avesse voluto far esplodere tutto.
 
Sentendosi addosso lo sguardo perplesso del ragazzo, Fenwick sbuffò alzando gli occhi al cielo.
 
-conosco il mio carattere, Dearborn. Non mi trovo a mio agio con il divertimento e la compagnia, odio le feste, non sopporto le persone che ridono troppo, o che parlano troppo, o chevivono troppo. Amo la normalità, mi piace la banalità del silenzio e ci sono poche persone al mondo con cui considero un vantaggio parlare-.
 
Caradoc lo fissava attentamente, i gomiti sul banco al di là del calderone e il mento sorretto dalle mani. Sembrava sinceramente incuriosito dalle parole di Benjamin. Il Serpeverde tagliò in due pezzi più piccoli la radice di valeriana, poi cominciò con prudenza a sminuzzarla sul tagliere, senza mai smettere di parlare.
 
-porto lo stesso taglio di capelli da che ho memoria e“Storia di Hogwarts” l’ho letto almeno dieci volte, questo solamente da quando frequento questa scuola. Io…- il ragazzo si interruppe appena per trasferire i resti della radice all’interno del mortaio e iniziare a triturarli con forza –non provo nessun fastidio quando qualcuno mi dice a chiare lettere cosa pensa di me. Il fastidio arriva quando qualcuno mi insulta semplicemente per sentirsi migliore di me-.
 
-non ricapiterà più, Benjamin- annuì il Corvonero, con una semplicità e una chiarezza che raramente gli appartenevano.
 
Fenwick non seppe spiegarsi il perché, e lì per lì non lo notò nemmeno troppo, ma sentire quelle parole uscire dalla bocca del ragazzo più grande lo fece sentire in qualche modo un po’ più tranquillo. Si lasciò andare ad un sorriso più rilassato, posò il pestello sul banco da lavoro e si accinse a gettare una manciata di radice tritata di valeriana nella pozione ormai quasi ultimata.
 
L’intruglio all’interno del calderone era di un colore piuttosto caldo, una tonalità a metà strada tra l’ambra e il rosa tenue. Nonostante lo stato di agitazione in cui il ragazzo versava poco meno di un’ora prima, la pozione pareva essere riuscita perfettamente, esattamente come tutte quelle fatte in precedenza. Non ne sbagliava mai una, Fenwick.
 
…E che in Pozioni segui sempre dettagliatamente le istruzioni del libro, senza mai provare a sbizzarrirti. Sembri proprio quel tipo di persona tetra e triste che odia tutte le cose divertenti.
 
Si fermò alla distanza di un palmo dal calderone, la mano quasi aperta per lasciar cadere il pugno di polvere di valeriana che stringeva tra le dita.
 
Senza mai provare a sbizzarrirti.
 
Forse, se non fosse stato evidentemente provato dalle ultime ore trascorse in compagnia di Dearborn –davvero erano trascorse ore? Alla fine, erano passate piuttosto velocemente- Benjy Fenwick non avrebbe mai nemmeno pensato di provare a fare una cosa così totalmente fuori dai propri schemi.
 
Senza nemmeno accorgersene tornò a sorridere ironicamente.
 
-sai, Dearborn, su una cosa ti sei sbagliato- mormorò lasciando cadere nel calderone gli ultimi rimasugli di valeriana. Una parte di sé non riusciva a non pensare alle deboli immagini che, per un attimo, gli erano balenate in testa con una chiarezza quasi estrema. Non era proprio da lui pensare di fare una cosa del genere.
 
-su cosa?-.
 
-non è vero che seguo sempre le istruzioni del libro senza mai… com’era?... provare a sbizzarrirmi-.
 
-no?- questa volta il Corvonero pareva seriamente stupito –quando esattamente non lo avresti fatto?-.
 
Bastò uno sguardo agli occhi scuri di Fenwick per far capire a Dearborn quello che il più giovane intendeva fare.
 
Con lo sguardo illuminato da qualcosa che mai Caradoc avrebbe pensato di poterci vedere dentro –malizia?- Benjy pareva la copia dichiaratamente Serpeverde di Amelia Bones, mentre con un movimento veloce prendeva da una ciotola parzialmente vuota una manciata di bacche di vischio e le gettava nel calderone.
 
 

*

 
 
Il Capitano della squadra di Quidditch di Corvonero aveva spesso sentito Hestia Jones inveire contro il genere maschile accusandolo di essere generalmente incapace di fare due cose nello stesso tempo.
 
Per questo, a detta di quella fenomenale creatura che era la Jones, gli uomini parevano essere incapaci –ad esempio- di ragionare e parlare insieme. O di mangiare e riflettere. O di correre e pensare.
 
Correndo per uno dei tanti corridoi bui in compagnia di Benjamin, quel tardo pomeriggio, Caradoc Dearborn dovette ammettere che forse, la Jones, un po’ di ragione l’aveva. Mentre correva non riusciva proprio a spiegarsi l’azione assolutamente folle di Fenwick. Vagava annaspando in cerca di spiegazioni, troppo stupito, con il cervello in blocco e la bocca semiaperta dalla sorpresa.
 
Il calderone, esplodendo, aveva sporcato l’intera stanza con rimasugli di una strana sostanza verdognola simile a gelatina, rimasugli che erano ovviamente restati appiccicati anche ai loro vestiti. Erano stranamente densi ed emanavano un fetore a dir poco nauseabondo.
 
-che diamine stavi cercando di fare, Fenwick?- gli urlò dietro mentre ancora correvano nel corridoio, alla ricerca di uno sgabuzzino che li avrebbe protetti dall’ira sicuramente prossima del Custode –Priscilla benedetta, quanto puzza questa roba! Volevi creare della Puzzalinfa artificiale?-.
 
Ben arrivò infondo al corridoio, svoltò verso destra e si fermò davanti alla porta di uno dei tanti stanzini per le scope.
 
-non mi sembra una splendida idea, considerando che Gazza verrà qui per cercare qualcosa con cui rimediare al disastro che hai comb…-.
 
Senza tante cerimonie, spalancando la porta, Fenwick trascinò Dearborn nello sgabuzzino.
 
-…che hai combinato-.
 
Caradoc tacque.
 
Appoggiato al muro opposto alla porta, con i capelli sporchi di gelatina verde e il volto colorito dallo sforzo della corsa, Fenwick era lievemente piegato su se stesso per riprendere fiato. Aveva gli occhi brillanti e divertiti, e di tanto in tanto sbuffava fuori l’accenno di una risata.
 
Dearborn trattenne il respiro quasi inconsapevolmente, prima di portarsi una mano alla testa per esaminare i danni fatti dalla gelatina e lasciarsi andare nel riprendere fiato.
 
-Salazar, tu sei completamente matto!- mormorò alla fine.
 
Lo disse con quel tono un po’ meravigliato e un po’ divertito con cui, di solito, accoglieva la notizia di una nuova tattica infallibile studiata apposta per vincere la fatidica partita contro i Grifondoro.
 
Fenwick alzò gli occhi su di lui, sorridendo sornione: senza nessun filtro a selezionare nel suo sguardo le emozioni appropriate da quelle che non lo erano, pareva un bambino colto con le mani nel vasetto della marmellata.
 
Uno strano silenzio sembrò condensarsi nell’aria, a poco a poco. Non era particolarmente teso, o spiacevole. Era semplicemente strano: quel genere di stranezza che dà la sensazione di sapere indicare con precisione ogni sfumatura del sorriso dell’altro, o il movimento delle sue mani, o l’idea delle sue spalle contro il muro. Quella stranezza che rende la mente più leggera e le gambe fin troppo pesanti.
 
Caradoc deglutì, sorpreso. Forse era semplicemente la penombra, o il sorrisetto che entrambi avevano specularmente dipinto in volto, ma c’era qualcosa nell’aria che sembrava protrarre quel silenzio in modo quasi straniante. Sarebbe bastata una parola per spezzarlo; sebbene Dearborn si fosse confermato, in più occasioni, abilissimo nel padroneggiare la nobile arte della conversazione, chiuso in quello stanzino dall’aria umida si scoprì incapace nell’emettere anche una sola sillaba.
 
Per un istante riuscì semplicemente a pensare –con una chiarezza strabiliante- a come non fosse totalmente strano ritrovarsi lì, in quello sgabuzzino, con Fenwick. Risalendo gli ultimi eventi con il pensiero, in effetti, gli sembrò quasi la cosa più naturale del mondo alzare lo sguardo sul volto di Benjamin per puntare i propri occhi in quelli sgranati del Serpeverde.
 
Sembravano ancora quelli di un bambino, scuri e brillanti.
 
Quando parlò, però, Fenwick lo fece con una freddezza impassibile.
 
-credo che dovremmo renderci presentabili prima che Gazza decida di ripulire tutto e ci trovi qui ancora conciati in questo modo spiacevole-.
 
A Dearborn sembrò quasi d’essere stato investito da una scopa in corsa, tanto fu scioccante l’impatto con la freddezza manifesta nel tono di Benjy. Annaspò per qualche secondo, cercando il modo giusto di reagire a tutto quello che aveva appena pensato: immagini vivide che si accavallavano le une sulle altre cercando una via di fuga.
 
-non è stata una grande idea restare nei sotterranei- glissò alla fine simulando la stessa freddezza che aveva mostrato Fenwick e fallendo miseramente –se Gazza dovesse arrivare adesso per pulire…-
 
Benjamin si scrutò attorno con attenzione, rigido.
 
-Gazza è troppo stupido per pensare subito a ripulire. Prima vorrà cercare di prendere i colpevoli, quindi andrà di sopra e si metterà a cercare ai primi piani. Poi se ne farà una ragione e andrà da Lumacorno a lamentarsi-.
 
Caradoc annuì, muovendo velocemente la bacchetta per ripulire entrambi dai rimasugli di gelatina rimasti impigliati tra i capelli e nei vestiti. Quando le tracce di pozione svanirono vide Benjy aggiustarsi con le mani il maglione che aveva indosso, rimboccandosi con attenzione le maniche sui polsi, dove presentavano bruciature.
 
-torni in dormitorio?- domandò passandosi una mano tra i capelli con noncuranza. Per fortuna lui non aveva altri segni dell’accaduto addosso se non qualche piega strana sulla maglietta.
 
-passo dall’aula per pulire- mormorò Fenwick dopo averlo scrutato di sottecchi per qualche attimo –quella a cui stavo lavorando è la mia postazione anche durante le lezioni di Lumacorno. Il professore sa che di tanto in tanto mi esercito nell’aula, quando gli altri non ci sono. Credo sappia fare due più due-.
 
Dearborn arricciò le labbra, aprendo la porta dello sgabuzzino. Una volta accertatosi che il corridoio fosse completamente vuoto, uscì e si guardò alle spalle. Per una volta Fenwick sembrava a corto di parole e in imbarazzo tanto quanto lui, sebbene fosse evidente il suo provare a nasconderlo.
 
Come si saluta qualcuno con cui non sei in confidenza pur avendoci  passato un intero pomeriggio insieme? Un pomeriggio come quello, poi.
 
Caradoc aveva come la sensazione di essere stato spettatore inconsapevole di uno spettacolo estremamente raro. Non dovevano essere molte le volte in cui Fenwick si lasciava andare.
 
Si sarebbe anche offerto per dare un aiuto a pulire se solo Benjy non avesse avuto scolpita negli occhi l’intenzione di restare da solo.
 
-credo che… insomma, devo proprio andare- mormorò alla fine il Corvonero, indicando con le dita la direzione in cui presumibilmente si trovavano le scale. Incredibile come fosse difficile, a quel punto, fare anche solo un pensiero di senso compiuto.
 
Benjamin annuì, quasi distratto, poi si volse e senza nessun cenno di saluto iniziò a ripercorrere a ritroso il corridoio da cui, pochi minuti prima, erano arrivati insieme, ansanti.
 
Nonostante ciò che aveva detto precedentemente, Dearborn ci mise più di dieci minuti a schiodarsi da quel posto per tornare in dormitorio.
 
 
 
 

 
   
 
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