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Autore: AriiiC_    26/04/2013    2 recensioni
Finnick Odair aveva quattordici anni, un bel visetto e tanta paura.
Voleva solo tornare nel suo Distretto Quattro sano e salvo.
Non uccidere.
Finnick avrebbe voluto solo un altro giorno per giocare con Tess nella grande villa sul mare degli Odair. Avrebbe speso un po' del tempo per un'ultima nuotata o una notte sulla spiaggia. Avrebbe costruito una rete e portato a casa la cena come faceva di solito. Avrebbe solo voluto che uno di quegli armadi in prima fila gridasse "Mi offro volontario!", come ogni anno. Ma nessuno lo fece, e Finnick rimase in piedi su quel palco, calcolando quante probabilità avesse di tornare.
Poi, Finnick pianse.
Perchè Finnick era solo un bambino che aveva paura.
[Dal secondo capitolo]
Finnick non aveva scampo, non più.
Finnick aveva voglia di scappare, di correre.
Finnick aveva voglia di urlare al mondo che tutto ciò era ingiusto.
Finnick li voleva condannare.
Finnick voleva essere a casa; voleva morire per tornare vicino al mare in una cassa di legno sporca.
Ma Finnick non si mosse: semplicemente, tacque.
Assaporò ogni respiro preparandosi a quella che sarebbe potuta diventare la fine.
E che gli Hunger Games abbiano inizio, caro Finnick Odair.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Finnick Odair
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Chapter fourteen:
   Live your lifes.







  Il sole era allo zen.
 Finnick stava seduto sul suo ramo, aspettando che la rete catturasse altre vittime.
 Pensava.
 Rifletteva.
 Lo volevano vivo. La capitale aveva scelto anche quell’anno il suo vincitore, ed era lui. Il piccolo e indifeso quattordicenne del Distretto 4 che s’era creduto spacciato fino a pochi giorni prima, che aveva ucciso quella bimba senza pietà, ora si vedeva ricompensato. Tutti i suoi sforzi, tutto ciò che aveva fatto per sopravvivere, ora venivano ricompensati. Eppure, il suo animo si sentiva in colpa; era triste. Si trovò davanti il viso di Kae,  gli occhi chiari con le pupille dilatate, arrossati, e la pelle pallida che faceva risaltare le lentiggini. La vide sfregarsi con forza una mano sulla guancia, cercando di asciugare una delle tante lacrime.
 Non sapeva perché la vedeva così. O, forse, la risposta era racchiusa nel suo inconscio: Kae non piangeva mai. E il pensiero che lo facesse per lui lo faceva sentire importante, parte di qualcosa. Perché lui era sempre stato solo Finnick. Il Finnick di cui importava solo a Tess.
 Tess, così simile a Calypso.
 Calypso morta per mano sua.
 Così indifesa e fragile, così spaventata e rassegnata all’idea della fine.
 Il coltello le aveva spaccato le costole, distruggendole il cuore o perforandole un polmone. Non ci aveva messo molto a morire, e questo lo rassicurava. Eppure, il suo sguardo era così… così bambino e innocente…
 Scosse la testa, cercando di dimenticare: s’illudeva che, con la vittoria, ogni cosa sarebbe semplicemente andata via, come cancellata di netto. Non sapeva ancora che non accadeva così: tutto pareva accentuato dal fatto che tu ancora respiravi, e i ragazzi che le tue mani avevano ucciso no. Ti sentivi in colpa, come se fosse dipeso da te – e, in parte, era così – e non dalle circostanze. Eppure ti facevi forza per non suicidarti, pensando che tutti i tuoi sforzi sarebbero stati vani, se l’avessi fatto.
 E, parecchie volte in quei giorni, anche a Finnick Odair era capitato di volerla fare finita. Così, con una freccia in testa o un pugnale in petto.
 Ma gli occhi verdi di sua sorella ancora lo tenevano vivo, vicino a casa solo grazie ad un ricordo che ancora gli faceva battere il cuore. Glielo racconterò., si disse.
 Quando sentì uno scampanellio quasi familiare sopra la sua testa, guardò curioso oltre la cima del salice. Dopo aver scorto la stoffa grigia argentea del paracadute, s’arrampicò per raccoglierlo e scoprire cosa ci fosse dentro questa volta.
 
 «Minchia, se era incazzato!» rise Marilyn, alludendo a Junior quando aveva scoperto che il Figlio del Mare se l’era data a gambe.
 «Puoi dirlo forte! – assentì Alliyah, mordendo l’ultimo pezzo di carne di pterodattilo rimasto. – Quello lì fa la fine del tuo compagno, te lo dico io!»
 La ragazza del 2 la osservò divertita mentre si puliva la bocca con il retro della mano. Era buffa, Alliyah, alle volte. Lo era perché pareva che non le importasse assolutamente nulla del resto: lei aveva il suo cibo, e questo le bastava. Nel caso fosse finito, magari…
 «Secondo me no. Sai, c’è quell’albina di mezzo…» rifletté. In fondo, entrambe sapevano che nessuno si sarebbe potuto divertire appieno con Finnick fino a che Kae fosse stata in circolazione. Neppure Junior.
 «Prima o poi morirà e, allora, non ci sarà più nessuno a salvare il bel culetto di quel quattordicenne.»
 «Come fai ad esserne certa? Potrebbe sempre durare più di noi.»
 «Se permetti, io penso che-»
 Non finì mai la frase. Si alzò in piedi con l’arco in mano mentre la compagna la guardava: alle sue spalle, s’era innalzata un’ombra scura. Marilyn ci mise un po’ a capire ma, quando il buio le piombò addosso, tutto parse almeno un po’ più chiaro.
 La terra tremò.
 
 Junior guardava Kae silenziosamente: qualcosa nel nero dei suoi occhi chiedeva ciò che la sua voce non aveva il coraggio di pronunciare. Si tartassava, chiedendosi cosa avesse sbagliato, perché l’Albina stesse così male per un ragazzo che conosceva appena e non capisse che lui, fratello maggiore delle bimbe a cui lei badava per guadagnare qualcosa, sarebbe morto solo per tenerla in vita.
 Non vedeva quanto quello bastasse a legarli?
 «Brucia ancora.» ribatté improvvisamente la sedicenne, quasi avesse colto la silenziosa domanda delle iridi del compagno.
 Un attimo di silenzio interminabile, mentre i loro piedi continuavano a muoversi, meccanicamente, verso un punto non esattamente definito dell’arena.
 «È dura, a volte.» disse il Rosso, col viso sconsolato. Era dura, era vero, e nessuno lo avrebbe mai saputo meglio di lui. Lui che aveva taciuto, che non aveva ucciso il Figlio del Mare solo per non far male a Kae; lui che aveva giurato a se stesso che l’avrebbe riportata a casa; lui che aveva detto a Indigo di non aspettarlo, ché non sarebbe tornato, ma di gioire: il Distretto 1 avrebbe comunque avuto un vincitore.
 «Se avessi passato la vita in un orfanotrofio, la vedresti diversamente. Meno nera, molto probabilmente.» sentenziò piatta, ancora rigida, come se stesse per scoppiare in lacrime. Chi avrebbe garantito al diciottenne che non era davvero così?
 «Ma non l’ho fatto.» le ricordò, tirando un calcio ad un sassolino che gli intralciava la via. Forse era stato troppo brusco, forse erano le parole giuste dette al momento sbagliato.
 «Fortunatamente per te, aggiungerei.» quasi sputò, come volesse fargli capire quanto male le avesse fatto. Ma Junior non capiva, non ci riusciva davvero: come potevi amare una persona e vederla scappare, come se tutto ciò che aspettava da una vita fosse andarsene?
 «E com’è stato?» fu tutto ciò che riuscì a pronunciare, in un flebile sussurro.
 «Cosa?»
 «Non conoscere mai i tuoi.»
 Anche se lui sapeva, ed era certo che anche lei fosse a conoscenza delle voci che li legavano: stesso padre, stesso sangue nelle vene, stessa fine preannunciata e già scritta.
 Troppe cose ad unirli: una puttana dai capelli castani che aveva deciso di liberarsi della bimba scomoda abbandonandola, un uomo dalla chioma rossa – come quella del figlio – che cercava svago una sera in cui aveva bevuto troppo, un edificio buio con le sbarre alle finestre dall’altro lato della strada, due giovani gemelle, un biglietto e un imminente compiersi del loro destino.
 «Meglio di quanto credessi all’inizio.» proseguì, continuando a guardarsi i piedi, senza voler alzare lo sguardo verso il cielo.
 «Meglio che finire qui a morire.» osservò lui, voltandosi verso il suo profilo e iniziando a contarle le lentiggini.
 «Lo penso anche io.»
 
 La sensazione della stoffa sulle dita fu piacevole. In fondo, l’ultima volta che aveva ricevuto un dono dagli sponsor, quello era stato la chiave per la sua possibile salvezza. Come per un riflesso involontario, abbassò lo sguardo pochi rami sotto di sé per controllare che il tridente ci fosse ancora.
 E lui, da bravo, non s’era mosso.
 Stava lì, fermo, come se sapesse che non sarebbe potuto andar via: Finnick non ce l’avrebbe fatta senza di lui.
 Senza più indugiare, il Figlio del Mare allungò la mano e afferrò il piccolo pacchetto con due dita. Poi, così com’era salito, si mosse agilmente per tornare dov’era. L’involucro in metallo nascondeva una pagnotta avvolta in un panno di stoffa colore del mare e una scatola in metallo rettangolare e bassa. La scritta sul suo fianco recitava “anguille sott’olio”. Come non vedesse cibo da anni, tolse freneticamente il pane dall’involucro e lo tagliò a metà. Lo avvicinò poi al naso e respirò quel profumo che temeva non avrebbe mai più sentito; nel suo Distretto, tutto sapeva di mare. Anche i cibi, per quando fosse possibile. Come a volerlo dimostrare, anche quel piccolo filone era tempestato di alghe all’esterno e dentro piccoli pezzi di pesce e sale marino grosso incastonati nella mollica. Lo morse piano, come a volerne assaporare l’essenza. E la voglia di ricordare attraverso quel sapore diventò fame: aprì la scatoletta tirando la linguetta con due dita e preparò un panino nel modo più decente possibile. Stese le gambe sul ramo robusto in cui ancora era posato e si coricò, sbattendo non troppo violentemente la testa contro il tronco. Tacque mordendo piano. Quello sarebbe potuto essere il suo ultimo pasto.
 Ed era esattamente quello che pensava quando si allontanava troppo dalla riva: sarebbe potuto morire, così doveva godere al meglio quei pochi momenti che gli rimanevano. Quindi si immergeva nell’acqua cristallina, rimanendo in apnea fino a toccare il fondo e poter prendere una conchiglia o una manciata di sabbia dal fondale. Altre volte, invece, si riservava di andare in una piccola grotta, con solo una rete e un tridente e fargli compagnia. Tridente come quello che, incastrato in altre due braccia di quell’albero che li accoglieva, stava in equilibrio e luccicava sotto il sole freddo di quell’arena austera.
 Diede un altro morso, con un sorriso compiaciuto in viso.
 Ma en colpo di cannone gli fece vibrare il cuore. Ancora a bocca piena, sobbalzò rischiando di cadere. Ripreso l’equilibrio, stabilizzò il respiro e fece due calcoli: sedici fatti, sette da fare.
 
 Alliyah sbiancò in volto; Marylin pensò di non averla mai vista in quello stato, e si ripromise di averglielo ricordato fino alla morte, se fossero sopravvissute. Cosa parecchio improbabile, dato che quello che si ergeva davanti a loro era un ibrido coi controfiocchi. La ragazza del 4 lo osservò, e un brivido incontenibile le percorse la schiena: corpo enorme, rossastro, alto circa quattro metri, fornito di zampe sproporzionatamente piccole, senza dita ma dotate di tre unici speroni bianchi come il latte, capo enormemente grande con occhi minuscoli e denti aguzzi. Quello che era stato il suo sogno, ora diventava il suo incubo: invece che il suo odioso compagno, l’ibrido T-Rex che aveva immaginato stava per uccidere lei. Loro, in realtà.
 Pensò anche di aver gufato, almeno un po’, la presenza di quell’essere. Forse, in un angolino della sua mente malata, si fece strada l’idea che, se non avesse sperato che quell’animale esistesse davvero, in quel momento non sarebbero state in quel casino.
 Chi sa, magari gli strateghi ci leggono nel cervello., pensava, mentre una voce straziò l’aria e la costrinse a voltarsi: «Che cazzo fai? Alliyah, che-»
 Un rumore simile ad un ringhio, e poi la ragazza del 2 urlò. Non un urlo normale: un qualcosa di disumano, intriso di terrore e rabbia al tempo stesso. Un rumore di ossa sgretolate e la terra che tremava sotto il peso del dinosauro.
 Inutile dire che tutta la forza e il coraggio delle diciassettenni erano spariti. La prima cosa a cui Marilyn pensò fu il modo in cui avevano ucciso il piccolo Zeph, indifeso e smembrato quando avevano finito il loro “lavoro”. Sentì nelle orecchie le sue grida, isteriche, innocenti, così vive davanti alla morte. E le venne voglia di saperle imitare, di poter far sentire il suo dolore come aveva fatto lui. Ma non poteva, perché le sue mani erano sporche del sangue di troppi innocenti.
 Anche di quello di Zeph.
 Perché il colpo di grazia glielo aveva dato lei.
 E avrebbe voluto avere un’altra sé che, con il cuore pieno di pietà, la colpisse interrompendo quello strazio, interrompendo il suo pianto e i suoi sensi di colpa. Sperò che Alliyah trovasse la mira per ucciderlo, o per ucciderla. Quindi osservò i suoi occhi, mentre gli artigli dell’ibrido le massacravano la carne.
Perché tutti, davanti alla morte, sono un po’ più umani.
 L’altra bionda, intanto, aveva in mano l’arco, con la corda già tirata e la freccia incoccata provava a prendere la mira meglio possibile: non voleva far male alla compagna.
 Eppure, vedendo tutto quel rosso scendere dal suo corpo, tirò.
 E, con la fortuna dalla propria parte, uccise per la seconda volta uno di quei mostri. Mollò la preda, barcollando e schiantandosi nel canale. Ma per l’altra era ormai tardi. Vedendola cadere a terra, le corse incontro. Non seppe mai se fosse stata la botta a darle il colpo di grazia, ma la pozza scura intorno al suo capo la diceva lunga.
 Per la prima volta in vita sua, Alliyah sentì dentro la voglia di piangere e non riuscì a trattenersi. Inginocchiata accanto al cadavere dell’altra, le carezzò gli zigomi, tirandole su la testa dall’erba e cullandola come fosse una bimba. La tuta blu impermeabile era straziata ovunque, i lividi le davano un’espressione tranquilla, ma di una tranquillità quasi stanca, o stufa. La chioma era quasi del tutto strappata alla radici, e diversi arti erano in posizione innaturale. Tagli le imbrattavano ogni parte del corpo come fosse un Picasso uscito male. Aveva ancora gli occhi ancora spalancati. Piano, glieli chiuse come non potesse fare altrimenti, e iniziò a singhiozzare. Si coprì la faccia con le mani, cercando una ragione per tutto quello che era accaduto.
 Non la trovò e, continuando a sporcarsi i capelli chiari di sangue, riusciva a dire una sola parola, ripetuta meccanicamente all’infinito. Una parola senza preciso significato o destinatario; una parola che pensava potesse alleviare ogni suo dolore.
 «Perdonami.»




























 Adolf's corner.


 So che ho una settimana di ritardo, ma bao: ho dovuto uccidere Marilyn, insomma!
 A proposito, con la mia cara pandamito mi sono lanciata in una nuova what if sui 75esimi giochi se Peeta fosse morto.
 Volendo, la trovate qui.
 "Cercheremo di dimenticare" by Aritos biscuits - aka: il nostro account condiviso.
 Bao a tutti!♥

 Ariii, Jared, Shannon, Tomo e Marshall♥
  
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