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Autore: Amens Ophelia    09/09/2013    4 recensioni
"Tredici anni, una katana insanguinata che premeva sulla schiena, che nessuno aveva il coraggio di affondargli nel petto.
Tredici anni, infiniti spasimi affrontati ed evitati, ma la ferita più dolorosa che avrebbe subìto si chiamava destino; Itachi era solo in attesa del suo fato.
Tredici anni, e già il sapore della morte ottenebrava i suoi sensi. Non aveva scelto lui cosa farne della sua vita, se mai la sua era stata un’esistenza".
***
Itachi contro il nome Uchiha, contro se stesso e ciò che è stato costretto a diventare. Può un incontro fortuito far fiorire sentimenti sepolti da tempo, anzi, forse mai germogliati?
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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8. Un modo per dirsi addio
 

 
 
L’appuntamento con il destino era vicino, ne era certo. Era scampato diverse volte alla morte, ma adesso aveva deciso che era il momento giusto per chiudere il sipario su quella triste esistenza, a ventun anni. Eppure, prima di affrontare Sasuke, sentiva la necessità di visitare un luogo, delle persone. Lo doveva loro, in fondo.
            Aveva chiesto - ancora una volta - al fedele Kisame di non seguirlo e di non preoccuparsi se avesse tardato, dicendogli che aveva una faccenda di cui occuparsi prima di incontrare suo fratello. L’Hoshigaki si era turbato al suono di quelle parole: come poteva essere sicuro che Sasuke si sarebbe presentato a sfidarlo di lì a poco? E, per quanto Itachi fosse potente, come poteva tenergli testa, in quello stato di salute? Il moro aveva dribblato quelle domande con un'alzata di spalle, minimizzando poi la gravità della malattia. «Sto bene, non farti venire dei patemi per me», l’aveva schernito, prima di mettersi in marcia. 
            Saltava rapidamente di ramo in ramo, fermandosi solo quando si sentiva fiaccato da un peso al petto e un colpo di tosse sanguigna lo obbligava a piegarsi e sputare. Odiava quel sapore in gola, ma lo confortò il pensiero che avrebbe dovuto sopportarlo ancora per poco, seppur in dosi massicce.
           
Riconobbe il posto, ancora intatto, proprio come l’aveva sempre ricordato. Come di consueto, aveva esitato alla vista della casa: fermarsi sul serio? Sarebbe stata una buona idea? Ma, soprattutto, avrebbe trovato qualcuno, là dentro? Gli sovvenne Hikari, malata e indebolita; era ancora viva? Ed Eiji… lo avrebbe riconosciuto, acciecato dal dolore dell’eventuale scomparsa della sorella? Chiuse gli occhi e strinse i pugni, cercando la risposta a quelle domande.
            Doveva fermarsi. Qualsiasi fosse stata la notizia da apprendere, in quelle mura, voleva rivedere gli Ando, anche solo uno dei due. Rabbrividì al pensiero di un gemello privato dell’altro, ma si ricordò della promessa di Hikari, del suo strenuo tentativo di far appello a tutte le forze rimanenti per guarire.
 Sì, doveva fermarsi. Sarebbe stata l’ultima volta, lo sapeva. Anche le sue ossa dovevano averlo capito, perché a stento lo reggevano, sotto quel fardello di preoccupazione. Anche i suoi occhi ne erano a conoscenza, perché la vista – quella minima che gli rimaneva, per scorgere sagome e colori sfuocati – gli si era appannata di fronte a quella scena.
 
Una ragazza dagli inequivocabili capelli color mogano si stava allontanando di casa, con una corona di fiori stretta al petto, il capo chino. Indossava una lunga veste bianca, che la faceva apparire un fantasma, e il vento che la sferzava metteva in mostra un fisico inaspettatamente più florido, ancora piuttosto magro, ma sicuramente non preoccupante. Non come l’ultima volta che l’aveva visto, almeno.
            Il ricordo del suo corpo nudo, in quel raggio di sole che filtrava dalla finestra, il contatto con la pelle fredda e le ossa appuntite lo fecero tremare. Erano passati altri tre anni, da allora, ed Hikari era diventata una splendida donna, sembrava aver preso qualche chilogrammo, e la sua seraficità ne aveva guadagnato. Sperò che non fosse più una ragazzina indifesa, ma qualcosa lo fece precipitare nello sconforto. Nonostante fosse cresciuta, rimaneva inerme al mondo.
            L’aveva seguita fra i rami degli alberi e aveva benedetto il fruscìo del vento che era riuscito a camuffare lo scalpitio dei suoi passi sul legno. Ma quando lei si era fermata davanti a due rocce squadrate e aveva posto la ghirlanda davanti a una di esse, il suo cuore aveva perso un battito.
            La osservò chinarsi davanti alla lapide, raccogliendosi in una silenziosa preghiera, finché un singhiozzo non le era sfuggito dalle labbra e aveva spezzato quella mistica quiete.
           «Mi manchi», aveva mormorato, mentre le spalle le tremavano. Non era riuscita ad aggiungere altro, affondando le mani nell’erba e strappando qualche ciuffo; si sentiva totalmente imbelle di fronte a quel dolore, e così anche il ragazzo, che la osservava qualche metro più in alto.
            Il viso della giovane era percorso da lacrime trasparenti, ma pesanti quanto macigni; il petto si alzava e abbassava ad un ritmo serrato, mentre le mani tentavano inutilmente di estirpare tutto quel verde che la circondava e che le ricordava che erano passati già più di due anni da quando l’aveva perso. In quell’arco di tempo, la terra smossa si era coperta di erba e fiori, ma la metà esatta del suo cuore era appassita.
            Itachi provò una fitta al petto, mentre assisteva a quello spettacolo tragico. Aveva sperato con tutte le proprie forze di ritrovarsi davanti Hikari, ma certamente non in quel modo angosciante. Vederla in quello stato non era tanto diverso dall’averla immaginata fredda, immobile, preda del nulla eterno.
 
Una forza misteriosa, che aveva creduto di aver seppellito da tempo in qualche angolo ancora illuminato della sua anima, l’aveva spinto a balzare giù dall’albero. Con passo silenzioso si avvicinò alla figura ancora piegata, trattenendo il respiro e sforzandosi di non fare troppo rumore. Non voleva che si accorgesse di lui, aveva quasi paura di rivedere chiaramente il suo viso, le sue lacrime. L’impavido Itachi Uchiha, pronto a fronteggiare persino il proprio destino, inaspettatamente intimorito da una ragazza affranta, ormai lontana dalla morte, per quanto essa l’avesse sfiorata crudelmente diverse volte.
            Si fermò almeno cinque passi dietro di lei, quel tanto che bastasse a leggere i nomi sulle lapidi.
           Qui riposa l’onesta persona di Hyobe Ando, insieme all’anima dell’amata Aiko Uzumaki, recitavano gli ideogrammi della tomba più vecchia, ricoperta da qualche accenno di muschio. Itachi provò un brivido di rabbia e malinconia, leggendo quei nomi; non trovava il coraggio per volgere lo sguardo sull’altra pietra, quella più giovane, davanti cui Hikari era crollata. Temeva che il suo pensiero avesse già scorto il nome inciso sulla roccia, involontariamente. Eppure, la speranza lo spinse a convogliare gli occhi sulla lapide. Speranza trafitta da una certezza spietata, per quanto preannunciata.
           Trova riposo in questo giaciglio, l’eroe Eiji Ando, che donò la sua vita per salvarne due. Il tempo non cancellerà la tua luce, né il nostro amore.
           Le gambe dell’Uchiha tremarono di fronte a quell’encomio, e lui si vide costretto a cedere sulle ginocchia. Non poté evitare che il tonfo giungesse alle orecchie di Hikari, che si girò spaventata.
 
Se non fosse stata inginocchiata, di sicuro sarebbe caduta a terra, proprio come quel ragazzo che nascondeva il viso, piegando il mento fino a toccare il torace. Stavolta lo riconobbe subito, pur non guardandolo in volto; come poter dimenticare quel mantello?
            «Che ci fai qui?», chiese incredula, mentre le sue pupille tremavano.
            Il ragazzo alzò il capo, spiazzato da quella domanda. Esisteva una risposta adatta? Anche se ci fosse stata, non sarebbe stato in grado di pronunciarla, perché la sua lingua era paralizzata. Gli occhi erano fissi in quelli blu di Hikari, mentre il cuore si rammaricava di non poterla vedere pienamente, a causa della vista consumata dallo sharingan.
            «Pensavo che non ti avrei mai più rivisto», mormorò la ragazza, avvicinandoglisi a carponi, perdendo improvvisamente il coraggio di guardarlo in faccia e chinando lo sguardo sull’erba. Quando nella sua visuale entrarono le ginocchia di Itachi, rialzò il volto. «Non c’è due senza tre, proprio vero», commentò, abbozzando un timido sorriso. Non era spontaneo, non era più stata in grado di ridere, da due anni a quella parte. Nemmeno nel giorno più importante della sua vita, un vero sorriso aveva solcato il suo volto.
            Non trovava ancora le parole per confortarla, non ne esistevano, probabilmente. Aveva perso tutta la sua famiglia, proprio come lui, anche se in modi non paragonabili. Eiji era tutto quello che le era rimasto, e adesso era stata privata anche di lui… consolarla era quasi rigirare il coltello nella ferita, proprio non ci riusciva. Fissare quegli occhi limpidi, trasparenti e ancora lucidi per le lacrime fresche, lo gettava nello sconforto più totale.
            «Sono felice che tu sia qui, Itachi». Non stava mentendo, per quanto la gioia non sprizzasse in modo evidente, dalle sue labbra.
            Il ragazzo l’abbracciò d’istinto. Tenerla fra le braccia, costruire con quella carne corrotta una gabbia intorno al suo corpo, era l’unico modo che trovava per farla sentire al sicuro, ancora preziosa per qualcuno. Nascose il viso nei suoi capelli lisci, ancora più lunghi di tre anni prima, e sentire quel profumo lieve di erbe di campo, in quel mare mogano, lo fece viaggiare nel passato. Fra fughe e ritorni, la conosceva da otto anni, e lei era l’unica, in quell’arco di tempo, ad averlo mai compreso sul serio.
            «Mi dispiace», sussurrò al suo orecchio, con il fiato corto. «Non sono nemmeno riuscito a rivederlo, quella volta… ancora non posso crederci! Eiji…». Non riusciva a continuare, gli mancavano il fiato e i pensieri.
             «In questo momento, stai abbracciando anche lui», sussurrò Hikari, immergendo il viso nell’incavo del suo collo e aggrappandosi con forza alla sua schiena, respirando avidamente il profumo di quei capelli scuri, ancora legati in una coda, che le sue dita districavano delicatamente. Era reale, adesso ne aveva la certezza, e farsi stringere da quelle braccia la catapultava nel dolore più innocuo che avesse dovuto subire, quello intenso, ma semplicemente fisico. Impossibile non pensare a quel giorno, al divano, alla luce del sole oscurata dal fascino di Itachi, al dolore di un sigillo spezzato per entrare nel mondo degli adulti, a quelle gocce di sangue che avevano macchiato la stoffa e l’anima… quel giorno, il primo e ultimo in cui si era sentita completamente viva.
             Il ragazzo allentò la morsa per poterla guardare negli occhi. Sentiva il bisogno di rivederla chiaramente, sperava di farcela senza dover ricorrere all’uso dell’abilità innata, ricordando quanto essa la spaventasse. Quella poca luce in fondo alle pupille gli permise di osservare come il suo aspetto fosse più sano, ora.
            «Sei bella», commentò obiettivamente, dopo qualche minuto. Non aveva incespicato, né aveva evitato il suo sguardo, nel dirlo. Lo pensava davvero e non trovava nulla di imbarazzante nel confessare la verità.
            «Ti va di prendere una tazza di thè?», chiese lei, quasi ignorando quell’affermazione. Non aveva mai dato peso a come gli altri la vedevano, occupata com’era ad avere lei una visione chiara di se stessa. Certo, in fondo al cuore le faceva piacere che Itachi la trovasse meglio di tre anni prima, ma se pensava al prezzo pagato, avrebbe preferito marcire come le sue ossa.
 
Si alzarono insieme e l’Uchiha si stupì nell’osservare quanto fosse più agile dell’ultima volta; nessuna smorfia di dolore da trattenere, né gemito da sopprimere. Sembrava essersi ripresa splendidamente, e questo lo riuscì a sollevare.
              «Ho sentito parlare di voi e di queste vesti… Akatsuki, giusto?», domandò Hikari, mentre fissava il sentiero snodarsi ai loro piedi, verso casa.
              «Te lo dicevo che ero deplorevole».
              Per tutta risposta, Hikari scrollò le spalle. Non era in grado di giudicare la condotta delle altre persone, figuriamoci di Itachi! Per lei rimaneva uno dei migliori individui mai incontrati, con tutti i suoi misteri e ombre inquietanti alle spalle.
              «È stata una scelta obbligata, una volta divenuto nukenin», aggiunse atono.
              «Ti ammiro», esclamò d’un tratto lei.
              «Ammirarmi? Per cosa? Essere divenuto un criminale in odio al proprio villaggio?», sbottò incredulo, arrestandosi.
              «Questo passa in secondo piano, proprio come il tuo cognome, Uchiha. Tu sei solamente Itachi, per me. Ed io ti ammiro per questo: essere rimasto fedele a te stesso. Dentro di te, vive ancora ciò che sei! Per quanto male tu possa aver arrecato e dolore abbia dovuto sopportare, non hai permesso che il rancore avvelenasse il tuo animo, hai conservato la tua natura, forse con la speranza che qualcuno se ne accorgesse… e non voglio peccare di presunzione, ma penso di conoscerti tanto da poter dire che il vero Itachi viene a galla solo in questo bosco. Non penso che tu sia un assassino, non l’ho mai potuto credere… e vorrei che anche altre persone potessero rendersene conto».
             «Nessuno ci crederebbe, ed è un bene», tagliò corto lui, riprendendo a camminare. Come poteva averlo letto dentro?
             Hikari lo raggiunse, bloccandolo per un braccio. «Tu sei una splendida persona, non sei mai riuscito a detestare nessuno! Me ne sono resa conto quel giorno, quando non hai ucciso il traditore del Villaggio della Sabbia. Gli avrei dato fuoco, se fossi riuscita a muovere un minimo muscolo! L’avrei ridotto a brandelli, se la spada non fosse pesata così gravemente fra le mani!  Io cado vittima delle emozioni, della rabbia, dell’odio… ma non riesco a fare assolutamente nulla, non trasformo le sensazioni in fatti! Sono inerme, totalmente inutile… ecco perché ti ammiro, vorrei essere come te, possedere la tua forza», asserì con gli occhi lucidi.
             «Erano sentimenti giustificabili, aveva ferito tuo fratello! Sei una brava ragazza, Hikari, cosa vai dicendo?». Come poteva invidiarlo? Davvero non si rendeva conto di quanto il male del mondo l’avesse corrotto?
             «Non lo sono, per niente. C’è una cosa che non riuscirò mai a perdonarmi: sono arrivata a odiare un dono divino».
 
La struttura della casa era identica a tre anni prima, se non qualche dettaglio aggiunto fra gli alberi che la circondavano, come un’altalena e un’amaca, o una sedia a dondolo sul patio.
            Oh, sì, e due grandi occhi neri che li fissavano curiosi, sulla soglia d’ingresso.
            Quelle iridi scure stavano aspettando impazienti quelle blu della ragazza, mentre le mani torturavano i calzini azzurri, indecise se tendersi verso Hikari o continuare a sfilacciare quel filamento di cotone lungo l’elastico, attaccato al polpaccio. Probabilmente a trattenere i suoi passi, che volevano spingersi verso la giovane, era stata quella figura alta al suo fianco, avvolta in quel curioso manto scuro a nuvole rosse.
            Si alzò lentamente in piedi, aprendo la bocca, improvvisamente intimidita dall’emettere qualsiasi suono. Osservò il sorriso di Hikari e, come uno specchio, rifletté quell’espressione sul suo volto. Da quanto non la vedeva così serena? Così naturalmente felice, senza alcuno sforzo per rendere più tranquilli gli altri, nascondendo un dolore nel cuore? Forse era la prima volta, ma sperava davvero che non si fosse trattata dell’ultima.
            L’istinto prese il sopravvento, non poteva curarsene dell’imbarazzo suscitato dall’estraneo. Doveva abbracciarla, doveva assicurarsi che non si trattasse dell’ennesimo sogno. Cominciò a correre, fino a sbattere il suo naso e il suo sorriso nelle ginocchia di Hikari.
            «Mamma, finalmente!», rise la bambina.
 
La giovane donna le accarezzò i lunghi capelli neri, così lisci e lucenti da procurarle sempre una fitta al cuore. I suoi polpastrelli avevano appena sfiorato un’altra chioma del genere, ma mai il suo animo aveva immaginato che potesse vederli insieme, così vicini. L’aveva sperato a lungo, ma non reputava da tempo la speranza come un’attitudine degna di nota.
            «Sono a casa, Eijiko», mormorò con la voce spezzata, prendendola in braccio.
            La bambina nascose il volto nell’incavo del collo della madre, protetta da una coltre color mogano che timidamente le sue piccole dita aprivano per fissare quell’uomo misterioso, ma, ritrovando i suoi occhi fissi su di lei, incapace di parlare o battere ciglio, lei abbassava quella tenda di capelli che li divideva. Moriva dalla voglia di chiedere chi fosse e cosa ci facesse lì, ma qualcosa le diceva che non avrebbe mai ottenuto risposte soddisfacenti da quel ragazzo.
            «È tua figlia?», gracchiò l’Uchiha, dopo una pausa di silenzio troppo lunga. Hikari annuì, stringendola di più a sé. «Quanto ha?».
            «Due anni e quattro mesi», rispose prontamente la diretta interessata, sporgendosi per guardarlo meglio.
           
Il moro si bloccò sulla soglia di casa Ando, mentre la bambina era corsa dentro, riversando tutta la sua allegria su delle bambole di pezza abbandonate sul pavimento della cucina.
            Due anni e quattro mesi, aveva detto. Non ci voleva un matematico per capire che la sua età era perfettamente simmetrica al tempo trascorso da quell’ultimo incontro, sommando agli anni della bambina i nove mesi che aveva trascorso nel grembo materno. Così come non ci voleva un accurato pittore per cogliere quanto quelle sfumature scure degli occhi e dei capelli fossero simili alle sue, chiaro segno di appartenenza al ceppo Uchiha.
            Le gambe gli tremarono e si vide costretto ad appoggiarsi allo stipite della porta, socchiudendo gli occhi.
           «È la tua goccia d’acqua, Itachi», commentò Hikari, intuendo cosa avesse turbato l’Uchiha.
           «È una bambina sana e sembra davvero molto sveglia», mormorò il ragazzo, risollevandosi.
           «È la luce dei miei giorni, l’unico motivo per cui sono ancora al mondo. L’ho capito solo quando l’ho vista per la prima volta, e mi dispiace non averla amata degnamente fin dal primo battito del suo cuore». Un singhiozzo la fece trasalire e si affrettò a cancellare le lacrime dai suoi occhi. Sorrise, cercando di mantenere quell’espressione che un tempo era il suo marchio di fabbrica, spazzando via quell’umore malinconico. «Andiamo, ti avevo promesso una tazza di thè», rise, precedendolo nell’entrare.
 
Con grande sorpresa, la cucina era diversa dall’ultima volta in cui vi aveva acceduto: il divano era stato sostituito da un modello nuovo, seppur ancora modesto, così come il fornello. Non sapeva perché, ma quella scoperta spezzò qualcosa nel petto di Itachi. Troppi cambiamenti e così poco tempo per comprenderli!
            «Il vecchio ammasso di rattoppi non c’è più… mi ci ero quasi affezionato», scherzò a malincuore il ragazzo, togliendosi il mantello e sedendosi al tavolo.
            «Non potevo più tenerlo, Eijiko l’aveva praticamente demolito. Sembra una bambina angelica, ma detiene una forza incredibile», rise Hikari, mettendo il bollitore sul fuoco.
            Itachi osservava la bambina giocare con le bambole, seduta sulle assi di legno del pavimento, a mezzo metro da lui. Era una creatura incantevole, con quei grandi occhi scuri dal taglio delle madre e la pelle candida, come di porcellana. Sembrava non accorgersi di essere il fulcro dei pensieri di quei due giovani improvvisamente adulti… di quegli ex tredicenni che erano i suoi genitori. Gli mancò il respiro, al pensiero di essere diventato padre di qualcuno. Era davvero possibile? Ma, soprattutto, come poteva essere così tremendo, il destino? Presentargli l’unico motivo per cui tenersi stretto alla vita poco prima di dover per forza soccombere…
            «Per fortuna non ha ereditato questi solchi», sorrise il giovane, accarezzando quei segni caratteristici sul suo viso, senza smettere di osservare la piccola. «Ha un bellissimo nome. Eiji sarà stato pazzo di lei, quando è nata», affermò, tornando a guardare Hikari.
            «Eiji non l’ha mai vista», dichiarò tristamente la giovane.
            Il fischio sempre più insistente del bollitore scandiva il trascorrere dei secondi, ma i due ventunenni sembravano essere diventati improvvisamente sordi.
            «Mamma!», urlò la bambina, spaventata da quel rumore, indicandole il fornello.
            Hikari si affrettò a spegnere il fuoco e a versare l’acqua nelle tazze.
 
Il vapore si alzava lento verso il soffitto, separando gli sguardi dei ragazzi. Il thè era bollente, ci sarebbero voluti alcuni minuti perché raggiungesse la temperatura adatta a sorseggiarlo; tempo che doveva essere colmato da risposte.
            «L’hai chiamata così in sua memoria?».
            «Sì. Entrambe dobbiamo la vita ad Eiji. Quando ero agli ultimi mesi della gravidanza, la mia condizione di salute era drasticamente peggiorata… non mi rimanevano ossa sane, se non lo sterno e il bacino. Non potevo reggermi in piedi, la colonna vertebrale era spezzata, così come gli arti inferiori e le braccia. Sono convinta del fatto che sia stato solo merito della presenza di Eijiko se non mi si era sfondata anche la cassa toracica e, di conseguenza, gli organi interni.
Eiji era disperato, aveva rinunciato a lavorare per passare il tempo al mio capezzale, pronto a soddisfare tutte le mie ultime richieste. Inutile dire che aveva contattato tutti i medici di nostra conoscenza, spingendosi in diversi villaggi, ma nessun tentativo era andato a segno. Rimaneva solo la Foglia, con il suo Hokage esperto delle arti mediche. Mi ero fermamente opposta a questa possibilità: non intendevo ritornare a Konoha, mi ero decisa a non rimettervi più piede. Ma Eiji era testardo!», scoppiò a ridere, mentre una lacrima le rigava la guancia, fissando il paesaggio oltre la finestra. «Si era messo in testa che doveva salvarci, proteggere me e il bambino. “Scommettiamo che tornerai a Konoha, invece?”, aveva azzardato una sera. Prontamente avevo ribadito la mia posizione, ma il giorno dopo mi ero svegliata sul letto di un ospedale. Al mio fianco c’era Eiji, sorridente e, dietro di lui, la signorina Tsunade, che ci osservava con una velata tristezza negli occhi. Ricordo ancora le ultime parole di mio fratello: “Sarò sempre con te, in questo modo”». Hikari abbassò il capo, nascondendo il viso nel vapore e fra i capelli. Il capo e le spalle tremavano; Itachi comprese che il ricordo era una ferita che niente avrebbe potuto rimarginare.
«Mi ha donato le sue ossa, rinunciando alla sua vita per salvarne due… e io, in quel momento non ho potuto che detestare me stessa e la creatura che avevo in grembo. Mi sento ancora uno schifo per aver odiato la cosa più preziosa che ho, non rendendomi conto che in lei vive anche Eiji… e anche tu». Aveva incontrato i suoi occhi neri, in quell’ultima affermazione, ed aveva sorriso, risollevando il capo.
            «Eiji è stato un vero eroe, ed è ancora con voi. Guardandoti lo vedo ancora, riesco a sentire la sua voce, la sua risata… e mi sento di dovergli parte della mia vita, una porzione di quella parte di esistenza che posso davvero chiamare vita, proprio come la devo a te», confessò l’Uchiha, ghermendo la tazza. «Ti sei fermata molto a Konoha?», chiese qualche minuto dopo.
            «Sono rimasta un paio di mesi all’ospedale, il tempo necessario perché Eijiko venisse alla luce in un luogo sicuro; l’ho fatto solo per lei. Quando sono stata in grado di rimettermi, sono tornata qui, senza ascoltare l’insistenza dell’Hokage perché mi fermassi al Villaggio. Ho rilevato l’attività di famiglia, cercando di specializzarmi nell’affilatura quanto mio fratello, e gli affari sono andati meglio del previsto. Ci possiamo permettere una vita abbastanza dignitosa, senza contare che la foresta ci dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno».
            «Quindi non tornerai al villaggio?», domandò Itachi, con una punta di tristezza.
            Hikari sospirò profondamente, osservando la testolina della figlia.
            «Forse, anzi, quasi certamente. Voglio che Eijiko sfrutti le sue potenzialità, non desidero che sprechi la sua vita qui, in mezzo al nulla. Discende da un membro della famiglia Uzumaki e da un Uchiha, sarebbe un peccato se non intraprendesse la strada di kunoichi… naturalmente se questo è ciò che vuole. Credo che abbia tutte le carte in regola per farcela e io farei di tutto per lei, la seguirei anche all’Inferno, anche al Villaggio della Foglia».
             Le sfuggì un sorriso quando, subito dopo quelle parole, vide la bambina far piombare una bambola addosso all’altra, come se stesse simulando un combattimento all’ultimo sangue. Sì, senza dubbio quella sarebbe stata la sua strada, ne aveva avute diverse prove. Non voleva che restasse inerme quanto lo era stata lei, non meritava una vita come la sua.
            «Sentirtelo dire mi rende felice, Hikari. Credo che sia la cosa migliore per entrambe, anche se… Stanno per accadere vicende terribili. Non posso prevedere il futuro, ma so che sarà un periodo duro. Pertanto, per favore, non abbandonate subito questo angolo della foresta, perché qui sarete al sicuro. Appena la situazione migliorerà, torna a Konoha. Se il Villaggio esisterà ancora, troverete il quartiere degli Uchiha e, se il destino sarà benevolo, mio fratello Sasuke. Sono sicuro che vi proteggerà, nulla potrà più ferirvi, lì», quasi la pregò il ragazzo, appoggiando la tazza al tavolo.
            «M-ma cosa… e tu?», balbettò la giovane, sgranando gli occhi. Cosa voleva dire con quelle parole?
            Itachi si alzò e indossò lentamente la veste dell’Akatsuki, osservando il pavimento.
            «Temo che questa sarà davvero l’ultima volta che ci vedremo. Voglio che Eijiko sia un’Uchiha a tutti gli effetti, ma nella maniera più positiva possibile. Desidero che sia la capostipite di una casata onorabile, rispettata e amata dalla gente. Voglio che mia figlia sia il mio sogno, e so che sarà così, perché lei è il futuro», affermò deciso, chinandosi verso la piccola e accarezzando il suo tenero capo.
 
Hikari restò immobile al suo posto, incapace di parlare o anche solo di muovere un dito. Avrebbe voluto dire tante cose, ma di fronte a quella scena riuscivano a esprimersi solo le lacrime. Vederli così simili e vicini era una visione che finalmente si avverava, il quadro che il suo amore aveva dipinto in quei due anni, ma che la ragione aveva sempre provveduto a cancellare. Capelli neri, occhi scurissimi, pelle candida e una pericolosa eleganza… chi erano queste creature divine, e cosa aveva mai fatto di tanto speciale, lei, da meritare il privilegio di abbracciarle e custodirle nel cuore?
            «Posso sedermi qui con te, piccolina?», aveva chiesto con un tono improvvisamente delicato, quell’uomo misterioso, curvandosi maestosamente come una tigre al domatore, pronto a imprimere l’immagine della bambina nella sua mente, per quella poca vita che gli restava.
            «Vuoi giocare a uccidere qualche ninja?», gli propose lei, entusiasta.
            «No, Eijiko. Non si uccidono le persone», rise lui, raccogliendo la bambola malconcia che la bimba aveva decretato essere una nemica.
            «Lei è cattiva», spiegò contrariata.
            «E se decidesse di diventare buona?».
            «Diventerebbero amiche», rispose prontamente, strappandogliela dalle mani e facendola affettuosamente cozzare contro l’altra che teneva in pugno.
            «Bisogna sempre dare una seconda possibilità alle persone, d’accordo?», le sorrise, prendendola in braccio e rialzandosi.
           
La piccola si lasciò sfuggire le bambole di mano, intimidita da quel gesto. Fissava il giovane negli occhi, riuscendosi a specchiare in quelle iridi così simili alle sue. Itachi, per l’ennesima volta, maledì la sua vista malata. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterla vedere sul serio, almeno una volta sola.
            «Sarai una kunoichi eccezionale, renderai fiera la tua mamma». “E anche il tuo papà”, completò una voce dentro di lui.
            «Sarò la più forte dell’Accademia!», promise lei, ridendo.
Itachi si girò verso la finestra, osservando il sole lentamente abbassarsi. Era ora di andarsene, in tutti i sensi. Si voltò verso Hikari, tenendo stretta a sé Eijiko. La giovane li raggiunse, intuendo che quella sarebbe stata la prima e ultima possibilità per essere una famiglia. Strinse la manina della bambina, sorridendole, mentre incontrava gli occhi di Itachi e gli accarezzava un braccio.
            «Potremmo essere questo, per sempre», sussurrò tristemente, quasi stesse parlando a se stessa.
            «Lo saremo comunque, per sempre», la rincuorò lui, baciandole la fronte.
            Hikari si staccò da loro, indietreggiando di qualche passo, desiderosa di immortalare quell’istantanea nella sua mente. Non l’avrebbe mai più rivisto, e quello era il modo migliore per ricordarlo. Quante persone care, aveva perso! La consolava, seppur esiguamente, il fatto che poteva incontrare ognuna di loro nel suo cuore.
 
L’Uchiha uscì di casa e scese il gradino del piccolo portico, sempre con le braccia della figlioletta al collo. Per un secondo, prima che i suoi maledetti occhi tornassero a bruciargli, era riuscito a vedere entrambe chiaramente, e non poteva chiedere altro, ai Kami celesti. Aveva rivisto il dolce volto di Hikari, le sue iridi blu, il suo sorriso sincero, e, soprattutto, aveva scoperto la vivacità di quegli occhi color carbone e le guance paffutelle della bambina.
            Puntò ancora il suo sguardo in quegli occhi, ma non poteva pretendere due miracoli in così poco tempo; si accontentò di una visuale più sbiadita, sorridendo. Era davvero bellissima e sarebbe cresciuta al sicuro, lontana da qualsiasi dolore.
           «Non ci vedremo mai più, probabilmente non ti ricorderai nemmeno di questo momento, ma voglio che tu sappia che sei la cosa più bella che abbia mai visto, Eijiko. Saresti l’unica ragione per non morire, se non fossi già morto… vorrei averti conosciuta prima», la voce gli si incrinò su quell’ultimo desiderio, mentre chinava il capo e cercava di trattenere le lacrime.
           «Non te ne andare, papà».
           Itachi sgranò gli occhi, guardandola incredulo. Aveva sentito bene?
           «Avevi correttamente intuito, è molto sveglia», sorrise Hikari, affiancandolo.
           L’Uchiha baciò la guancia della bambina, i cui occhi cominciavano ad arrossarsi e a bagnarsi di lacrime.  
           «Sarò sempre con te, Eijiko», le promise, assestandole un leggero ed affettuoso buffetto sulla fronte. Quel gesto gli ricordò quanto il fato fosse irreprensibile, ma scrollò le spalle, decidendo di non pensarci. In fondo era ciò che aveva sempre voluto, no?
           Adagiò la bambina fra le braccia della madre, osservando entrambe, commosso. Accarezzò il volto di Hikari, incapace di aggiungere altro.
          «Non riuscirò mai a trattenerti qui, vero?», scherzò lei, cullando Eijiko.
          «Sarò sempre anche con te, Hikari».
          La ragazza annuì amaramente, intuendo come quella frase fosse una forma meno aspra per dirsi addio. Le sovvennero le ultime parole di Eiji e capì che queste sarebbero state le conclusive di Itachi. Un brivido la scosse e comprese che non avrebbe potuto far niente per evitare l’ennesima perdita, ma giurò a se stessa che sarebbe stata l’ultima.
 
Itachi Uchiha si voltò lentamente, ancora una volta cercando di rimanere indifferente al pianto della bambina e alle silenziose preghiere della madre, che accompagnavano i suoi passi. Non doveva pensarci, bisognava lasciarsi alle spalle Hikari ed Eijiko, non contaminarle con i pensieri di morte che lo stavano ghermendo. Loro erano pure, erano ninfe di quel bosco, e lui aveva abusato fin troppo della loro luminosità. Con tutta la forza disperata d’amore che poteva conoscere, aumentò la velocità dei suoi passi e saltò su un albero, continuando la sua corsa al riparo da quegli sguardi innocenti. Era l’unico modo per proteggerle, abbandonarle all’oblio della mente e custodirle nel cuore.
           Aveva affrontato battaglie e pericoli mortali, conosciuto sofferenze atroci e sopportato un destino crudele, eppure, mai come in quel momento si era sentito tanto indegno di vivere. La felicità aveva violentemente attraversato il suo petto, come un lampo di luce in piena notte, rischiarando tutto ciò che giaceva inerte all’interno del suo animo, ricordandogli un maledetto conto in sospeso che ora non desiderava chiudere tanto velocemente.
            Nessun ninja era mai riuscito a stremarlo tanto quanto l’amore, l’affetto più incondizionato del mondo. E questa era solo la prima parte del suo appuntamento con il destino.
           
“Sasuke, sono pronto”, giurò la sua voce interiore. Per un momento temette che nessuno sarebbe stato in grado di uccidere uno spettro quale lui ormai si sentiva, ma non appena vide da lontano quei quattro ragazzi parlare con Kisame, su quell’altopiano, il dubbio si estinse.
            Attivò lo sharingan e vide chiaramente il fratello e l’odio che gli bruciava dentro. Sorrise soddisfatto, immaginando quanto il suo angelo della morte sarebbe stato rapido. La felicità tornò a gonfiargli il petto, mentre un nuovo fiotto di sangue gli era salito alla bocca, con un colpo secco di tosse. Presto sarebbe finito tutto, finalmente. Non aveva dimenticato la giusta pena da scontare per i crimini del suo passato.
 
Sasuke lo raggiunse rapidamente, carico di rabbia e rancore, osservandolo con aria di disprezzo e superiorità. Itachi sorrise rincuorato, pronto a raccogliere la sfida per quell’ultimo duello.
           Nulla era più certo della morte, se non l’amore. 






Ed eccoci qui, all'epilogo di questa storia. Ok, l'ammetto: ci sono andata giù pesante con gli Ando XD Prima i genitori, poi Eiji (mi è pianto il cuore farlo sacrificare per la gemella, ma ho pensato che sarebbe stato molto verisimile: lo vedevo davvero, pronto a donare la propria vita per Hikari)... e questa sorpresa, Eijiko! Cosa ne pensate? Ero abbastanza indecisa se inserirla o meno, ma ho immaginato che Itachi meritasse un'erede :D Senza contare che la sua presenza mi permetterebbe di ampliare la storia, se mai giungessero idee degne XD 
Voglio ringraziarvi dal profondo del mio cuore per aver letto, recensito, inserito la storia tra le seguite e preferite! Sono davvero commossa!! Questa FF è stata una scommessa con me stessa, non ci ho mai creduto molto... e il vostro affetto è stato il carburante per proseguire con sempre più entusiasmo, di capitolo in capitolo! 
Un ringraziamento speciale, devo ribadirlo, va a The Valikira e DoubleSkin, il cui sostegno è stato così affettuoso da lasciarmi senza parole! Pronte a tutto, perché questa storia continuasse... non so ancora bene come ringraziarvi! Ma lo faccio con l'unica parola che conosco: GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE INFINITE!!! 
Spero che il finale non abbia deluso nessuno e, sul serio, non esitate nelle critiche, possono solo farmi del bene :) Leggere le vostre recensioni è sempre un piacere, uno stimolo a migliorarmi e continuare a sognare! 
Un abbraccio, alla prossima!! :D

Ophelia

 
   
 
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