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Autore: Argorit    31/10/2013    3 recensioni
Meliandra, la principessa del regno di Ader, viene mandata da suo padre a compiere una missione essenziale per la sopravvivenza del popolo. Ad accompagnarla, Farin, un giovane mercenario, potente, spietato e dall'oscuro passato.
Insieme, dovranno salvare il loro mondo dalla minaccia di un essere millenario, una creatura fatta di odio e da esso alimentata.
Ma ce la faranno?
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[Cit]
-Andrà mai via?- chiese Meliandra, fissandosi le mani ancora grondanti d'acqua gelida.
Farin la guardò a lungo, con attenzione. Sapeva cosa avrebbe dovuto risponderle, ma se l'avesse fatto, di quella ragazza non sarebbe rimasto che un guscio vuoto, un mero simulacro di quella che sarebbe potuta essere una magnifica regina.
Quindi, suo malgrado, si chinò su di lei, la avvolse con proprio mantello e le sussurrò -No, non lo farà. Solo gli stolti credono che il tempo lenisca ogni ferita-
-Ma allora cosa devo fare? Come posso convivere con questo? Io non sono forte come te, io non posso andare semplicemente avanti, dimenticando quello che è successo!-
Il ragazzo le rivolse il sorriso più gentile che poteva. -Allora combatti ancora, perchè il dolore che provi ora non sia vano-
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                            La Valle Nera
                                                             
                                                                                                                              Regno di Ansha. Valle Nera. Anno 1859
Farin e Meliandra seguirono la compagnia di ventura per una settimana, tenendosi a circa mezzo miglio di distanza, abbastanza lontano da non essere scorti ma non tanto da perderli di vista.
La Valle Nera era una macchia all’orizzonte, a diversi giorni di viaggio, scura come la pece. Persino da lì era minacciosa e terribile come una bestia dormiente eppure pronta a scattare.
Farin, notò Meliandra, era strano, irrequieto. La naturale cupezza che lo caratterizzava sembrava acuirsi ad ogni passo, come se un peso opprimente gli schiacciasse il petto, togliendogli il respiro. La principessa non aveva bisogno di Kahali per scorgere il dolore che si agitava nel suo sguardo.
Non osava però chiedergli a cosa fosse dovuta quella sofferenza, per paura che il ragazzo si chiudesse a riccio, tagliando fuori il mondo dal suo cuore.
D’un tratto un mercenario le lanciò una borraccia «Bevi, o ti disidraterai.» Non era una richiesta e lei non si sognò neppure di vederla come tale, quindi l’accettò di buon grado e bevve. Quando gliela restituì, Farin aveva di nuovo un’espressione assente.
«Fra quanto arriveremo?» Lo chiese per attirare la sua attenzione ed impedirgli di smarrirsi nei propri pensieri, ma di certo non si aspettava la risposta che ricevette: «Non aver fretta di arrivare principessa, non è un bel posto quello dove stiamo andando.»
«Ci sei già stato?» domandò in un impeto di coraggio.
Il ragazzo strinse le redini con tale forza da far gemere il cuoio. «Una volta, tempo fa, e se avessi potuto non ci sarei mai tornato. Una volta all’interno presta molta attenzione, e riferiscimi qualunque stranezza, non importa quanto insignificante ti possa sembrare.»
Quel discorso fu l’ultimo che fecero, perché il giovane si rinchiuse in se stesso ed ignorò ogni tentativo di conversazione.
Il decimo giorno il cielo si fece plumbeo, e nel pomeriggio scoppiò un violento acquazzone che costrinse la carovana di guerrieri a fermarsi per coprire i carri di salmerie. Impiegarono circa un’ora, durante la quale Farin e Meliandra allestirono il campo sotto un costone roccioso.
Fu una notte fredda, quella, perché non poterono accendere un fuoco per asciugare i vestiti, che al mattino dopo erano ancora umidi e pesanti, e dovettero consumare l’ennesima cena a base di gallette e carne secca, di cui cominciavano ad essere stanchi.
Di tanto in tanto il mercenario tirava fuori una consunta fiaschetta di metallo e beveva un sorso di Acquafiamma, talvolta offrendone un po’ anche alla principessa, che però, memore di quanto fosse forte quel liquore, rifiutava sempre.
Il mattino seguente il cielo si era schiarito, e Farin insistette per mettersi presto in marcia per recuperare il tempo perso.
Percorsero le successive dieci miglia al piccolo galoppo, riducendo la distanza che li separava dalla retroguardia della compagnia. Un comportamento rischioso, forse, ma il mercenario era stanco di aspettare: seguirla era stata una buona idea ed aveva risparmiato loro notevoli rischi su una strada abitualmente frequentata da una grande varietà di bestie selvatiche, ma ora era solo un impaccio di cui liberarsi.
Se la memoria non lo ingannava mancava poco al bivio che li avrebbe condotti alla Valle vera e propria.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un triste sospiro. Quanti anni erano che evitava quel posto come la peste? Dovrei andare da Zenar, Mirdral e gli altri, pensò. Chissà se gli portavano rancore, visto che era colpa sua se erano morti.
Lo sguardo gli scivolò furtivamente sulla principessa: avrebbe fatto domande se avesse visto le tombe? Scosse il capo, rimproverandosi. Sta attento idiota, non è il momento di distrarsi. Perdere la concentrazione era un errore che non poteva concedersi.
La biforcazione fu in vista nel primo pomeriggio. I mercenari svoltarono a sinistra, diretti al Kaol Kan, e ben presto li persero di vista.
Farin trasse un profondo respiro e si preparò mentalmente. Non esitò nello spronare il cavallo, ma le sue mani tremavano.
Proseguirono dritti per circa un miglio, poi il rettilineo divenne una salita. Risalirono le massicce colline che circondavano la Valle e, infine, giunsero al limitare del bosco che ne costituiva il nucleo.
La principessa sgranò gli occhi: Farin le aveva spiegato che quel luogo doveva il suo nome all’insolita colorazione della vegetazione, ma vederlo di persona era completamente diverso dal sentirlo descrivere. Era tutto nero: gli arbusti, l’erba, il muschio sulle rocce, ogni cosa sembrava pece. Gli alberi erano alti, imponenti e minacciosi, con cupi rami color ebano sormontati da rami ritorti carichi di foglie scure. Anche sul limitare, il boschetto era in penombra, come se la luce del sole non avesse la forza di bucare la coltre di tenebra che sembrava aleggiare nell’aria.
Ma non era solo questo. C’era qualcosa in quel posto, qualcosa di solo vagamente accennato eppure presente, simile ad un’ombra colta con la coda dell’occhio. Una presenza vaga, tuttavia sensibile e feroce.
«Sembra affamata» sussurrò la fanciulla, stringendosi nel mantello.
«Lo è» fu la risposta del mercenario. «Famelica e subdola. Stammi vicino.»
L’interno del bosco era ben più freddo e secco di quanto avrebbe dovuto, ed alle narici giungeva un leggero odore di putrefazione. I cavalli sbuffavano infastiditi, ed i loro zoccoli sprofondavano nel terreno morbido.
Di tanto in tanto Farin sguainava Veheza e sferrava un colpo contro un tronco, lasciandovi uno sguardo che rigurgitava una linfa scura e sfrigolante.
«Cos’è quella roba?» domandò la principessa, disgustata.
«Non ne ho idea. Questi maledetti alberi si rigenerano ad una velocità incredibile, ed i segni non restano per più di sette ore, quindi per non perdersi occorre incidere con una lama arroventata, in modo da bloccare il processo. È una procedura lenta e puzzolente, soprattutto perché bisogna ripeterla ogni trenta metri circa. Fortunatamente per noi Veheza sembra contrastare questa capacità.»
«Questo posto è stato creato con la magia nera, vero?»
«Cosa te lo fa pensare?»
«La natura non crea abomini del genere se non viene forzata.»
Il ragazzo si strinse nelle spalle «Potresti avere ragione, non so. La mia conoscenza di questa branca della magia è molto limitata. Ora fa silenzio.»
Alcune ore dopo si erano talmente inoltrati da essere costretti ad accendere una torcia, perché le fronde erano così fitte da non far filtrare neppure un raggio di luce. Anche così, rimaneva impossibile vedere più lontano di dieci metri.
Il senso del tempo, notò Meliandra, mutava nel buio, scemando rapidamente fino a perdere significato. Fu per questo motivo che rimase leggermente sorpresa quando Farin annunciò che si sarebbero fermati per dormire.
Ancora più strano fu il modo in cui costruirono i giacigli: anziché stenderle normalmente sul suolo, legò le coperte ai rami come se fossero amache e le incastrò con un paio di pugnali.
«Perché questo?» domandò incuriosita la principessa.
Il mercenario fissò con astio il terreno marcescente «So cosa striscia lì sotto, e credimi quando ti dico che non ho nessuna intenzione di ritrovarmi qualcosa addosso mentre dormo.»
Accendere un fuoco si rivelò un’impresa improba, in mancanza di legna secca, e tre tentativi a vuoto spazientirono abbastanza il ragazzo da fargli usare un’abbondante manciata di Mahri, che avvampò nello stesso istante in cui venne colpito dalle scintille.
Fu la prima cena calda che consumavano da quando erano partiti da Zavren, ed anche se consisteva solo in un banale stufato di carne salata e verdure rinsecchite li scaldò fin nelle ossa, lasciandoli piacevolmente satolli.
«Hai mai fatto un turno di guardia?» le chiese d’un tratto. Lei inarcò un sopracciglio «Secondo te?»
«Bene, vorrà dire che questo sarà il primo della tua vita. Chiamami quando non riuscirai più a rimanere sveglia, ed avvertimi se ti sembra di sentire o vedere qualcosa, non importa quanto ti sembri insignificante, chiaro?» Gli occhi verdi del mercenario la fissarono con un’intensità disarmante; alla luce delle fiamme emettevano un bagliore severo, ma alla principessa non sfuggì la parte più importante di quel discorso, cioè che, volente o nolente, Farin le stava concedendo la sua fiducia. Sotto il mantello avvertì il peso del pugnale e lo strinse con forza, annuendo gravemente.
Il ragazzo la fissò ancora per un lungo momento, poi andò a sdraiarsi ed in breve si addormentò.
Non sapendo bene come si monta la guardia, si sedette su un tronco e si mise a scrutare il bosco scuro. Il fuoco le crepitava accanto, rassicurante, e di tanto in tanto la giovane vi gettava dentro un po’ di ramoscelli, che sfrigolavano rumorosamente mentre il calore bruciava la resina. Puzzava tremendamente, ma era sempre meglio che rimanere al freddo.
Resistette per un po’, prima di rendersi conto di essere al limite. Si alzò, stiracchiando le membra irrigidite dall’inattività, ed andò a svegliare Farin. Fu sufficiente sfiorarlo per farlo destare.
«E’ successo qualcosa?» chiese. Per tutta risposta lei gli sbadigliò in faccia, strappandogli un ghigno. «Stanca?»
La fanciulla annuì senza rispondere, dimenticandosi anche di scusarsi per l’infrazione dell’etichetta, e si sdraiò nel mantello tiepido, sprofondando quasi subito in un sonno tranquillo.
La chiamò all’alba, mettendole sotto il naso una ciotola di stufato fumante.
«Mangia in fretta. Dobbiamo metterci in marcia.»
«Perché tutta questa impellenza?» domandò lei, afferrando il cucchiaio. Lo sguardo del ragazzo tradì un lampo di preoccupazione. «Ho fatto un giro di perlustrazione, ed ho trovato alcune orme. Non sono fresche, ma preferisco non rischiare. Non con gli Shuma.»
Il pezzo di carne le andò di traverso, facendola scoppiare in un violento accesso di tosse. «Shuma?» anaspò, «Ci sono degli Shuma qui?»
Farin annuì «Il branco più grande di Ansha. Perché credi che la gente eviti questo posto come la peste? Per paura del buio?»
Meliandra lo fissò, incapace di dire alcunché. Il colore del suo viso passò dal consueto pallore ad un bianco cadaverico, per poi virare verso un rosso porporino. «E non mi hai detto nulla?» sbottò, balzando in piedi.
«A che sarebbe servito informarti?»
«A non farmi prendere un colpo adesso» ringhiò, cominciando a raccogliere le sue cose.
«Sembri avere familiarità con gli Shuma.»
«Idiota! La mia guardia del corpo è uno Sha-en. Pensi che non me ne abbia mai parlato?»
Il giovane fece spallucce «Come vuoi, ma muoviti.»
La principessa fu pronta in pochi minuti. I cavalli erano già sellati, ma erano impazienti, agitati, e questo metteva Farin a disagio, costringendolo a rimanere coi nervi tesi e la mano costantemente sull’elsa della spada. Fu felice di potersi rimettere in viaggio, sebbene il terreno consentisse solo un trotto lento. Il pensiero degli Shuma lo faceva fremere di collera e paura, rievocando ricordi che avrebbe voluto seppellire.
Nel corso della giornata, mentre si avvicinavano al cuore del bosco, trovò altre due serie di impronte, più recenti stavolta, e la carcassa spolpata di un grande cervo.
Imprecando furiosamente, il mercenario infilò una mano nella sua sacca da viaggio e prese la cintura coi coltelli da lancio.
«Che succede?»
«Gli Shuma non lasciano mai i resti di una preda, neppure le ossa. Sono qui intorno, da qualche parte, e noi siamo finiti proprio nel loro territorio. Se te lo ordino, evoca uno schermo e mettiti al sicuro.»
«E tu che farai?»
La furia del mercenario la avvolse in una nube ardente, mozzandole il respiro. «Io li farò pentire di essere venuti al mondo.»
Si rifiutò di aggiungere altro, concentrandosi così tanto sul bosco da non notare nient’altro. Forse fu questo il suo errore: gli Shuma erano feroci e letali, ma in un tempo lontano, prima di smarrire il senno e degenerare nelle belve scatenate che erano ora, erano stati così simili agli Sha-en che le due razze venivano spesso considerate una sola. Anche se con i secoli la follia aveva completamente sconvolto le loro menti, conservavano ancora un barlume di quell’antica intelligenza che li aveva resi un grande popolo.
Farin si aspettava che attaccassero dal fitto della boscaglia, come avrebbe fatto un puma, invece gli Shuma avevano sfruttato l’innaturale resistenza dei rami e la loro furtività, straordinaria per creature della loro stazza, per sorprenderli dall’alto. Quando il mercenario si accorse dello stratagemma era già troppo tardi.
«Principessa, al ripar…» fu tutto ciò che riuscì ad urlare, prima che una compatta massa di muscoli e pelo grigio si abbattesse su di lui, disarcionandolo.
Meliandra gridò di puro terrore, rilasciando istintivamente una saetta di energia che sferzò la schiena dello Shuma. La bestia ruggì di dolore, ed il mercenario ne approfittò per liberarsi dai suoi artigli e rotolare via. Non sembrava ferito gravemente, sebbene dal labbro gli colasse un rivolo di sangue.
«Proteggiti, stupida» la rimproverò, sguainando Veheza. Il suono della lama che usciva dal fodero fu un gelido sibilo di morte. Non aspettò che la principessa eseguisse il suo ordine – sapeva che l’avrebbe fatto- e si mise in guardia.
L’esemplare era enorme e ben più orribile di quanto ricordasse. Era una creatura sgraziata, con un torace ampio quanto due uomini adulti ed un bacino piccolo e tozzo. Le zampe anteriori erano lunghe e muscolose, mentre quelle posteriori erano corte e robuste, capaci di balzi scatti insospettabili. Entrambe erano dotate di artigli affilati come rasoi, resi ancora più pericolosi dallo spesso strato di sporcizia che li ricopriva. Il suo muso aveva una forma strana, schiacciata come quella di un mastino e leggermente allungato all’indietro.
Ruggì, furente, e mise in mostra un’impressionante fila di zanne. Al garrese la bestia superava il metro e cinquanta.
Il mercenario rimase impassibile, anche se dentro di sé tremava come una foglia, sconvolto da un vortice di emozioni contrastanti: aveva paura, una paura vecchia di anni, eppure era anche in collera. Sarebbe voluto fuggire, ma l’odio che ribolliva in lui lo costringeva a rimanere fermo al suo posto.
Quando lo Shuma lo caricò, il passato di sovrappose al presente, portando con sé le immagini di un massacro. Una nube rossa scese sulla mente del ragazzo, cancellando tutto tranne un unico pensiero: Questa volta no.
Farin gli corse incontro, schivò un colpò di artigli e vibrò Veheza sulle zampe della fiera. La pelle degli Shuma era dura come cuoio indurito, ma la lama incantata la squarciò con facilità, amputandogli l’arto sinistro. Sangue denso e scuro sprizzò nell’aria in un arco cremisi, ed un guaito di sorpresa e dolore scosse il bosco.
Silenzioso come uno spettro, il giovane si avvicinò alla creatura agonizzante e le conficcò la spada nel fianco, trapassandole i reni. Non sarebbe stato un trapasso sereno.
Uno di meno, pensò. Poi, fissando la lama insanguinata, scoppiò a ridere, un suono arido come il deserto e privo di qualsiasi ilarità che fece tremare Meliandra più della vista dello Shuma.
Altre tre bestie uscirono allo scoperto, attratti dalle grida del loro compagno morente. Uno di loro si gettò sulla principessa, ringhiando di frustrazione quando le sue zampate si abbatterono inutilmente sulla barriera traslucida da lei evocata. I rimanenti circondarono Farin, circospetti.
Le risa cessarono all’istante ed il mercenario li fissò con sguardo vacuo. Erano più massicci di quello steso ai suoi piedi, ma nulla di più. Davvero aveva temuto per anni creature così patetiche? Ridicolo.
Rinsaldò la presa su Veheza e si lanciò all’attacco, veloce come un lampo. Colpì il primo con un calcio tanto violento da spezzargli le zanne e scaraventarlo a terra. Il secondo reagì sferzando l’aria con gli artigli, ma il giovane lo schivò con una delicata rotazione, rimediando solo dei sottilissimi graffi alla gamba sinistra.
E poi, quando anche il terzo Shuma, stanco di attaccare una preda che non riusciva a raggiungere, preferì concentrarsi su un bersaglio più accessibile, Farin indietreggiò di qualche passo, sollevò la spada all’altezza della fronte e cominciò a combattere sul serio.
Sotto lo sguardo sbalordito di Meliandra batté ritmicamente il piede sul terreno, come a cercare il ritmo di una musica a lei inudibile, finché una delle belve non decise di attaccare ed il mercenario diede vita alla propria danza, fatta di affondi precisi e fulminei, di giravolte, scatti e torsioni ai limiti del corpo umano, di parate e schivate. Movimenti così lievi che la principessa distingueva a stento, eppure sufficienti a portarlo sempre fuori dalla portata degli attacchi nemici.
In un crescendo di velocità e ferocia, la giovane assistette ad uno spettacolo di macabra magnificenza, di pura violenza e calma piatta riunite in un unico stile di scherma che ad una profana come lei sembrava assolutamente perfetto.
Il sangue e le membra degli Shuma turbinavano in una nube scarlatta screziata dal bianco candido di Veheza, ed al centro di quel vortice c’era Farin, con un’espressione in viso a metà fra la concentrazione e la follia.
E sebbene quello spettacolo avrebbe dovuto disgustarla, come già aveva fatto il combattimento a Fresa, si riscoprì invece affascinata da ciò che vedeva. Ciò che aveva innanzi era senza dubbio terribile, eppure ogni passo, ogni colpo a segno portato dal suo compagno le faceva battere il cuore un po’ più forte, toccando una parte della sua anima di cui ignorava l’esistenza. Se ne vergognò, ma non tanto da distogliere lo sguardo.
Poi, com’era cominciato, tutto finì. Farin decapitò il primo Shuma con un fendente, schivò un morso e, con un repentino scatto del polso, conficcò un pugnale nel cuore del secondo, ruotando la lama per essere sicuro di averlo ucciso. L’ultimo rimasto, sorpreso dall’improvvisa morte dei suoi simili si diede alla fuga. Il giovane gli permise di fare qualche metro prima di sollevare il braccio, una formula magica già sulle labbra, trafiggendolo con una lancia di pura luce.
Ringuainò Veheza e, stremato, si mise a sedere, ansimando. Meliandra lo raggiunse di corsa e senza pensarci gli buttò le braccia al collo. «E’ stato...è stato…»
«Tremendo?» suggerì lui, con una traccia di amarezza nella voce.
«Incredibile!» sbottò invece la principessa. «Non ho mai visto niente del genere. Il modo in cui ti muovevi, la velocità, la forza. Come hai fatto?»
«A-allenamento» balbettò il ragazzo, leggermente intontito dalla sua veemenza.
«Non basta l’allenamento per fare una cosa del genere.» Il suo sguardo cadde sui corpi degli Shuma, ed i suoi occhi si velarono di tristezza, non per le bestie massacrate, bensì per colui che le aveva uccise. «Devi odiarli davvero tanto.»
«Più di quanto immagini.»
«Mi dirai il perché?»
«Forse» concesse lui, «ma non ora. Dobbiamo andarcene in fretta. Questi erano cacciatori d’avanguardia. Fanno da apripista per il branco ed individuano le prede. Spesso riescono anche ad abbatterla. Il grosso del branco arriva dopo. Non sono ancora allo stremo, ma non potrei reggere un altro scontro. Dove sono i cavalli?»
«Il mio è ancora qui, ma il tuo è scappato quando sei stato disarcionato.»
Il mercenario imprecò «Hai visto dove è andato?»
«In quella direzione.»
«Dobbiamo recuperarlo. Non posso sostituire il mio equipaggiamento, e gran parte delle provviste sono sulla mia sella.»
Per loro fortuna l’animale non era andato lontano. Si era rifugiato in un piccolo spiazzo tra gli alberi e si scrutava intorno in preda al terrore. Quasi fuggì quando li vide arrivare, ma Farin riuscì ad afferrargli le briglie e si impose con polso fermo, calmandolo quel tanto che bastava a montargli in sella e riprendere il viaggio.
Cavalcarono per un paio d’ore senza incontrare neppure uno scoiattolo – ammesso che ce ne fossero in un bosco del genere -, al punto che Meliandra si era quasi convinta che quei quattro fossero soli, quando una serie di latrati esplose alle loro spalle. La principessa digrignò i denti maledicendosi per la propria ingenuità e, dopo aver spronato il cavallo, si voltò ed iniziò a declamare un incantesimo.
«Che stai facendo?» le urlò Farin. Lei non gli rispose, continuando a recitare parole in una lingua che il giovane non aveva mai udito. Sembrava fare molta fatica. Il suo viso era contratto in una smorfia concentrata, ed un copioso rivolo di sudore le calava lungo le tempie, eppure non stava accadendo nulla. Poi, però, con un fragore assordante di schianti e scricchiolii gli alberi alle loro spalle si curvarono bruscamente, ed i rami e le liane si intrecciarono in una rete fitta come maglia di ferro, sbarrando la strada.
«Questo dovrebbe rallentarli per un po’» disse la maga, tergendosi la fronte con un lembo del mantello.
«Cosa hai fatto?»
«Magia driadica. L’ho imparata dalle ninfe. Ho spinto gli alberi ad ostacolare gli Shuma.»
«Sembri stanca.»
«Ho obbligato un pezzo di bosco a spostarsi, certo che sono stanca. Di solito però non è così difficile: c’era qualcosa che opponeva resistenza. C’è davvero della magia nera all’origine di questo luogo.»
«L’importante è che tu ce l’abbia fatta. Ottimo lavoro» si congratulò. Meliandra lo fissò a bocca aperta, basita. Mi ha fatto un complimento. Stava forse per crollare il cielo?
In ogni caso, malgrado la buona idea una semplice barriera non poteva fermare a lungo la furia famelica degli Shuma. Guadagnarono alcuni preziosi minuti di vantaggio, ma il branco era ancora alle loro calcagna e recuperava rapidamente terreno. In poco più di mezzo miglio il loro puzzo giunse ai due ragazzi. A quel punto non ci volle molto perché il primo predatore sbucasse dagli alberi, ringhiando e sbavando in preda alla fame. Farin afferrò immediatamente un coltello da lancio, prese la mira e lo scagliò, colpendolo dritto in un occhio. Lo Shuma guaì, perse l’equilibrio e si schiantò al suolo, ruzzolando nelle foglie marce. Urtò qualcosa, una sorta di collinetta di terriccio, e sotto lo sguardo sconvolto di Meliandra una brulicante fiumana purpurea emerse dalla costruzione e ricoprì l’animale, che prese a contorcersi nel vano tentativo di scappare.
«E quelle che cos’erano?» ansimò la ragazza.
«Formiche.»
«Formiche?!»
«Formiche» confermò con calma il mercenario. «Non avrai davvero pensato che gli Shuma fossero l’unica minaccia della Valle, vero?»
«Ci avevo sperato» borbottò lei. «Stando con te sto imparando che non c’è mai limite al peggio.»
«Lieto di esserti utile.»
Un secondo Shuma li raggiunse. Era un esemplare giovane ed ancora relativamente piccolo, quindi Meliandra intessé rapidamente un incantesimo e lo scagliò contro le sue zampe. Era lo stesso trucco che aveva tentato di usare su Farin tempo prima, ma stavolta funzionò: la magia bloccò i muscoli della belva proprio mentre questa cercava di scansare un albero. L’impatto fu così violento che il suono di ossa rotte si udì distintamente al di sopra dei latrati.
Farin inarcò un sopracciglio «Sei in vena di sorprese oggi.»
«Non l’ho fatto apposta. Ho agito d’impulso» mormorò la maga, stupita.
«Beh, cerca di agire d’istinto più spesso. Potrebbe esserci…»
Una pulsazione sorda scosse l’intera Valle, simile al battito di un cuore sotterraneo. I marchi dei due giovani brillarono per un istante, spazzando via le tenebre del bosco, riempiendoli di una sensazione sconosciuta eppure familiare, come se stessero correndo incontro ad un amico perduto ma mai dimenticato. Qualcosa li chiamò, qualcosa di antico e potente, reliquia di un’era passata che ancora viveva e vibrava di energia, cantando nel loro sangue una melodia di forze e dolcezza.
La consistenza del terreno cambiò gradualmente, divenendo più compatto a mano a mano che avanzavano tra gli alberi, che d’un tratto avevano iniziato a farsi più radi.
Gli zoccoli dei cavalli calpestarono una superficie dura che produsse un suono limpido ed acuto. Scuotendo la testa per schiarirsi la mente, Farin guardò verso il basso e non credette ai propri occhi. Cristallo; stavano galoppando su una vasta lastra di cristallo rossastro, che formava una piattaforma di circa duecento metri di diametro. Il peso degli animali lo crepava, ma si rigenerava istantaneamente ed il danno svaniva.
Al centro di quello spiazzo c’era un tempietto consumato dalle intemperie. Il pronao non esisteva più, cancellato da decenni di pioggia e vento, e gran parte delle colonne che circondavano la struttura erano crollate o stavano per farlo.
Gli Shuma li raggiunsero, sbucando a frotte dalla macchia, ma si fermarono sul limitare della piattaforma, ruggendo di frustrazione. Per qualche ragione non osavano spingersi sulla sua superficie, rifiutandosi persino di toccarla.
«Che succede?» domandò Meliandra.
Farin fece fermare il cavallo con un deciso strattone delle briglie e lo fece voltare. «Sembrano spaventati» commentò, stupito. Cosa poteva bloccarli in quel modo? Gli Shuma non temevano nulla, pensavano solo ad inseguire ed uccidere la propria preda, senza badare a nient’altro. Erano capaci di gettarsi a testa bassa su file e file di lance, pur di azzannare coloro che le impugnavano.
Facciamo un esperimento. La formula magica che usò era meno esotica e complessa di quella usata poco prima dalla principessa, ma risultò altrettanto efficace. Una morsa eterea si strinse su un cucciolo ululante e lo sollevò da terra, attirandolo sul cristallo. La belva si contorse nel vuoto, cercando di liberarsi, ed il mercenario ci mise poco ad accontentarlo, lasciandolo cadere.
La reazione della lastra fu incredibilmente violenta: un impulso di energia lo illuminò al calor bianco, ignorando i due ragazzi e le loro cavalcature ma riducendo in cenere lo Shuma.
«Ma che…» balbettò il mercenario, fissando sconcertato la superficie lucida. Esitò, poi smontò dalla sella e, cautamente, vi poggiò un piede, pronto a balzar via al minimo accenno di pericolo. Non accadde nulla; qualsiasi cosa avesse scatenato l’attacco contro il predatore, in lui era assente. «Scendi principessa» disse, «credo sia sicuro.»
Meliandra era dubbiosa, ma obbedì. Neppure lei scatenò reazioni di sorta.
«Sembra che non gradisca solo gli Shuma. Per un po’ dovremmo essere al sicuro.» Con una smorfia dolorante trovò un palo dove legare i cavalli e si scoprì la gamba. «Puoi guarirla?»
La maga esaminò con aria critica i quattro lunghi graffi che gli solcavano il polpaccio e schioccò rumorosamente la lingua «Posso, ma prima occorre disinfettarla o rischia di andare in cancrena lo stesso. Dammi la tua fiaschetta.» L’ordine fu così autoritario che Farin lo eseguì senza pensarci. Lei la prese e la stappò, versandone il contenuto sulla ferita e strappando un gemito al ragazzo.
«Brucia?»
«Un po’.»
«Bene.» Cominciò a recitare l’incantesimo necessario. Ne usò uno piuttosto debole, perché il danno era minimo. «Ti fa male da qualche altra parte?»
«No.»
«Farin…» il suo tono era vagamente ammonitore. Il mercenario sospirò «Credo di avere un paio di costole incrinate.» Alcuni minuti dopo non lo erano più.
«Ora dovresti essere a posto.» Commentò a lavoro concluso.
Farin la ringraziò con un borbottio, dopo di che si introdussero al tempio. La sensazione di familiarità che quel luogo trasmetteva li sconcertava, ma non sembrava esserci alcun pericolo, quindi entrarono. L’interno non era meno diroccato dell’esterno. Gli affreschi che decoravano le pareti erano stati cancellati da secoli di incuria, e fregi e statue giacevano in pezzi sul pavimento dissestato.
Era una costruzione così piccola che impiegarono meno di dieci minuti ad esplorarla tutta, senza tra l’altro trovare nulla di utile nelle celle dei monaci ed in quella che doveva essere stata la dispensa.
Mentre si avvicinavano al sacrario, la fonte delle pulsazioni faceva sentire sempre di più la propria presenza, come una voce flebile e lontana che diveniva man mano più forte e chiara.
La sala in cui si trovava il sangue di drago era circolare e spoglia, piccola e per nulla imponente, con un semplice ma robusto piedistallo di marmo candido, stranamente pulito nonostante le condizioni in cui versava tutto il resto, completamente ricoperto di rune e simboli antichi.
L’ampolla era di vetro sottile, non più larga di un dito. Conteneva a stento qualche goccia di liquido, eppure irradiava un potere immenso, come un minuscolo sole nel suo universo isolato.
Ai piedi della colonna giaceva rannicchiato uno scheletro avvolto da un consunto mantello d’un rosso sbiadito.
Non sembravano esserci trappole, ma Farin non si fidava abbastanza da rischiare. Cautamente mise Meliandra alle proprie spalle, raccolse un pezzo di muro e lo scagliò sul pavimento della stanza. Attese qualche secondo, poi riprovò con un frammento più grande con il medesimo risultato.
«Direi che è sicuro» commentò la principessa.
«Così parrebbe.»
Si avvicinarono alla colonna col cuore a mille per la tensione, frementi per l’imponente presenza del sangue.
«Prendilo tu» sussurrò Farin. Per qualche ragione sentiva che era più giusto così. La ragazza annuì, tendendo lentamente la mano. Non appena le sue dita si strinsero attorno all’ampolla, il suo marchio brillò nuovamente di un azzurro intenso e pacifico. «E’ caldo» mormorò, stringendoselo al petto. Un sorriso radioso le attraversava il volto. Avevano conseguito un successo, un ulteriore passo avanti per scongiurare la guerra.
Si volse verso il mercenario, coi grandi occhi blu accesi di speranza, e gli porse quell’inestimabile tesoro. «Toccalo Farin.»
Lui tese istintivamente la mano, ma la ritrasse prima di sfiorare il vetro. «Tienila tu» disse, ringuainando Veheza. Meliandra lo seguì, leggermente delusa dal suo gesto. Fai proprio del tuo meglio per essere infelice, eh Farin?
Quando uscirono dal tempio i cavalli andarono docilmente loro incontro, mentre gli Shuma ululavano di frustrazione e paura, indietreggiando ad ogni passo che i due facevano. Anche dopo aver lasciato la piattaforma non osarono attaccarli, seguendoli da lontano.
Il bosco stesso risentiva dell’influsso del sangue: gli alberi schiarivano e le foglie morte sui rami e sul terreno tornavano al loro colore originale, dipingendosi del rosso e dell’oro propri dell’autunno; l’aria si faceva più pulita, priva dell’onnipresente odore dolciastro della putrefazione, e la costante sensazione di odio e minaccia della Valle si diradava. Solo l’oscurità costante rimaneva immutata, ma era anche meno densa e pesante, e veniva facilmente scacciata dalla luce delle torce.
Fu verso il tramonto, davanti ad un’insolita roccia a forma di croce, che Farin sgranò gli occhi e disse che si sarebbero accampati. Preparò il fuoco, le amache e la cena, il tutto in perfetto silenzio. Meliandra non fece domande, cosa di cui il ragazzo le fu segretamente grato.
Grazie alla presenza del sangue non ci fu bisogno di fare turni di guardia, quindi mangiarono con calma e poi andarono a dormire.
Farin attese ad occhi chiusi finché non sentì il respiro della principessa farsi pesante e si rialzò. Prese una torcia e si mise in marcia, camminando a passo sicuro nella notte. La sua meta non era distante, e seguendo i segni che aveva lasciato anni  prima la ritrovò con facilità.
Con sguardo spento, perso in un dolore profondo, il mercenario contemplò una lunga fila di lapidi di pietra, parzialmente ricoperte di foglie morte, sporcizia ed erbacce.
Il mercenario sospirò, trovò un posto dove fissare la torcia e cominciò a ripulirle con gesti secchi ma carichi di rispetto. Impiegò circa un’ora per eliminare ogni traccia di incuria, dedicando particolare attenzione alle due tombe centrali.
Quando ebbe finito vi si sedette accanto. Ne carezzò la rozza superficie squadrata, che aveva sbozzato lui stesso a colpi di spada, incurante delle schegge che gli volavano intorno lasciandogli ferite di cui ancora portava le cicatrici. «Mi dispiace Zenar» mormorò, ingoiando le lacrime che gli spezzavano la voce. Per un istante fu tentato di crogiolarsi nei ricordi, ma scacciò quel desiderio: già sapeva cosa lo aspettava alla loro fine.
Zenar, Mirdral, Alzack, Richard e gli altri. Quanti erano morti per causa sua? Quante vite poteva portarsi sull’anima un uomo da solo? Il loro peso lo schiacciava, ed ogni giorno era sempre peggio. «Non ce la faccio più Zenar. Sono stanco. Combattere è l’unica cosa che mi fa andare avanti.» Sfiorò ancora una volta il nome di uno dei pochi uomini che l’avevano chiamato amico e si rialzò. Con un gesto lento e solenne sguainò Veheza e si portò l’elsa al cuore, nel gesto di saluto insegnatogli da Alzack. Non l’aveva mai rivolto a nessuno all’infuori dei suoi compagni, e nessuno tranne loro l’aveva mai rivolto a lui. La fiducia che quel gesto esprimeva era cosa rara.
«Addio, amici miei» sussurrò. Gettò un ultimo sguardo alle lapidi, dopo di che tornò al campo.
Meliandra dormiva ancora profondamente, raggomitolata nel mantello, con i lunghi capelli corvini che le ricadevano scomposti sul viso. Il suo respiro li sollevava delicatamente, scoprendo a tratti le labbra.
Era una vista rilassante. La principessa era solo un lavoro, ovviamente, e tale sarebbe dovuta rimanere, ma era l’unica cosa viva che aveva al momento. Con tutti i suoi sforzi, con tutte le sue malevolenze, non era riuscito ad impedire a quella piccola regina in erba di entrargli in simpatia.
Non si rimise a dormire, perché sapeva che quella notte non gli avrebbero lasciato requie. Rimase invece a guardarla, con la schiena rivolta al fuoco e la mente che già pensava al giorno seguente.
 
 
 
Ebbene si gente, sono ancora vivo. Manco da eoni, ma sono ancora vivo. Mi sorprende che nessuno mi abbia droppato dopo i primi due mesi di assenza, ma non posso dire che la cosa mi dispiaccia. Cercherò di non sparire più per così tanto tempo.
Che dire, spero che sto capitolo vi piaccia.
Alla prossima gente (Stavolta senza far passare un'era geologica)
Sayonara! 
  
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