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Autore: SunlitDays    16/11/2013    9 recensioni
Annabeth Chase si era messa comoda sulla sedia al centro dell'aula, nella prima fila, ed era impegnata nel posizionare ordinatamente un quaderno con varie matite colorate sul banco. Gli fece segno con la mano di sedersi al suo fianco. Percy si sedette con un un piccolo salto all'indietro sulla cattedra del professore di latino.
Lei alzò gli occhi al cielo.
Lui sorrise scioccamente.
E così cominciò quella che da lì a poco sarebbe diventata una scontrosa amicizia tra due individui completamente opposti.
Genere: Angst, Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Grover Underwood, Percy Jackson, Poseidone, Sally Jackson
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo Terzo


“Stai scherzando, vero?” gridò Percy.

“Shh! Abbassa la voce.” bisbigliò sua madre.

“Ma—“

“Ascolta. Vedila come un'ottima occasione per conoscere meglio tuo padre, ok? È solo per un paio di settimane.” Sua madre aveva quel suo solito sguardo da ‘ti prego, fallo per me, e se non vuoi farlo per me, fallo almeno per i biscotti al burro blu che ti preparerò come premio di consolazione’.

“Non vedo come dargli la mia camera possa aiutar— Sì, ok. Va bene. Ma sarà meglio per lui che non mi appesti la camera col suo dopobarba. Mi fa venire il voltastomaco.”

Sua madre sorrise orgogliosa, come se Percy avesse annunciato che Poseidone poteva usare anche il suo spazzolino. “Grazie, tesoro. Mi aiuti ad apparecchiare la tavola?”

Stavano decisamente stretti tutti in cucina. Casa Jackson era progettata per due persone. Due camere da letto, due sedie, due bicchieri, un divano per due... Il fatto è che a Percy piaceva così. Era perfetta per lui e sua madre. Si erano sempre arrangiati con quel poco che avevano perché era abbastanza.

Durante la cena, Poseidone fece quel che gli riusciva meglio, lo showman, divertendo sua madre con aneddoti sui suoi lunghi viaggi, le persone che aveva conosciuto durante le riprese dei vari documentari che aveva girato, tutto con la naturalezza di qualcuno che era abituato a stare al centro dell'attenzione.

Tyson spesso contribuiva con commenti innocenti che intenerivano Sally, e Percy ogni volta provava una stretta allo stomaco che dubitò fosse dovuta allo stufato. Nella maggior parte delle volte, però, Tyson non parlava; si limitare ad ascoltare suo padre con rapita attenzione, come se fosse la prima volta che ascoltava di come Poseidone era caduto dalla barca mentre tentava di domare un tigerfish.

Mentre si rigirava nel suo letto di fortuna fatto di varie coperte poste sul pavimento, Percy valutò se usare la scusa del mal di schiena per saltare la scuola il dopo dopo. Magari avrebbe potuto far sentire in colpa Poseidone, anche se dubitava che suo padre avesse una coscienza. E poi sarebbe stato costretto a starsene a casa ad ascoltare altre sciocchezze sui fondali marini.

La voce di Tyson gli giunse ovattata. “Il nostro è il papà migliore del mondo.”

Percy considerò l’idea di fingersi addormentato, ma emise un grugnito in risposta, perché, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio ad essere scortese e antipatico col bambino. Decantava le lodi di Poseidone ad ogni occasione, e Percy non sapeva come dirgli che era molto probabile che l’avrebbe scaricato alla prima occasione, che, per il loro fantomatico padre, il mare era molto più importante del suo stesso sangue.

“Vuole tanto bene a te,” continuò, nella voce un tono che Percy non riuscì a definire. Tyson era disteso di pancia, a meno di un metro da Percy, la coperta che gli nascondeva la testa. Solo le mani erano visibili, mentre costruiva qualcosa con bastoncini di gelato e carte di caramelle. “Parla sempre di te. Fa vedere a tutti le tue foto. Dice sempre che siete tali e quali. Voglio essere anch’io come te, ma io sono stato solo pescato.” Dalle coperte che si alzarono e abbassarono, Percy dedusse che Tyson avesse alzato le spalle con noncuranza, come se quelle parole non l’avessero lasciato con la mente che ronzava inquieta, insicura su quale pensiero soffermarsi per prima.

“Pescato?” chiese, e si domandò se tutto quel vivere tra i pesci avesse cotto il cervello del suo fratellastro a bagnomaria.

“Sissì,” confermò Tyson. “Io stavo affogando, perché il mio papà è cattivo e la mia mamma è morta e papà Poseidone mi ha pescato dal mare e mi ha salvato. E poi ha detto che potevo stare con lui, che adesso potevo avere un papà buono e lui mi dava pure un fratello. Papà mantiene sempre le promesse.”

“Oh!” esclamò Percy, costernato da quella notizia e stranamente senza parole.

Seppur chiusa, dalla finestra provenivano i suoni di una New York che non dormiva mai, le luci dei fari delle auto si riflettevano a intermittenza sul fagotto di coperte che era Tyson. Sua madre diceva spesso che avrebbero dovuto comprare degli infissi insonorizzati quando avessero trovato i soldi necessari. Ma a Percy non dispiaceva. Il traffico, le voci dei ragazzi nottambuli, la musica del disco bar dietro l’angolo… era suoni confortanti e familiari che attutivano i suoi pensieri e le sue emozioni contrastanti.

Mentre finalmente la magia di Ipno aveva effetto su di lui, capì cosa gli ricordasse il tono di voce che aveva usato Tyson: la gelosia.


“Sono blu questi pancakes?”

Il primo pensiero di Percy quella mattina fu: ho di nuovo lasciato la TV accesa? Poi aprì gli occhi e vide il set fotografico di se stesso che raccontava tutti i suoi cambiamenti fisici, da poppante a teenager. Era in salotto e la voce di Poseidone non proveniva dalla TV, ma dalla cucina.

“Sì,” rispose la voce di sua madre. “È per Percy, sai. Un modo per insegnargli che tutto è possibile: il cibo può essere blu e lui può finire la scuola.”

Percy si mise seduto con difficoltà. La sua schiena indolenzita gli indicò che aveva dormito malissimo quella notte. Tyson era ancora nel mondo dei sogni, un sorriso beato in volto. Decise che la presenza di Poseidone non gli avrebbe privato per la seconda mattina di seguito dei suoi pancakes, così si alzò e andò in cucina.

Sally e Poseidone erano in piedi, lei badava ai pancakes che cuocevano in padella, lui si rendeva utile immergendo il dito nell’impasto blu e leccandolo. Percy si fermò sulla soglia della cucina ad osservare quel momento così domestico, e decise che era troppo presto per provare emozioni, quindi biascicò un buongiorno, si sedette e cominciò a mangiare pancakes con una porzione extra di sciroppo d’acero, perché era una di quelle giornate.

Non badò alle loro chiacchiere, le risate e le piccole spinte col bacino che si davano come se preparare la colazione insieme fosse un’usanza tradizionale per loro. Mangiò e si preparò velocemente, e quella mattina fu lui a dover aspettare l’arrivo di Grover sotto la fermata dell’autobus.

Si rese conto improvvisamente che era passata già mezza mattinata quando il professore di Educazione Fisica gli disse che sarebbe stato uno dei capitani della partita a basket. Era stato distratto tutto il tempo, e si era spostato da una classe all’altra seguendo passivamente la corrente di studenti. Grover non si accorse di nulla; non aveva smesso di parlare del suo appuntamento con Juniper per un minuto.

Vide Annabeth-Ho-La-Luna-Storta-Chase varie volte, tra un cambio dell’ora e l’altro, ma lei non lo degnò di uno sguardo. Quel giorno non avevano lezione e Percy non sapeva se sentirsi sollevato o deluso da ciò. Decise che quella giornata non sarebbe finita mai troppo presto.


“... e poi ha detto che nessun ragazzo le aveva mai regalato dei fiori e che a lei piacciono molto. Pensi sia troppo presto per regalarle delle rose?”

“Fa’ come ti senti di fare, amico.”

“Forse le regalerò delle rose bianche. Rosse no, decisamente troppo presto. E se poi dovesse pensare che io abbia chissà che intenzioni?”

Percy annuiva di tanto in tanto alle parole di Grover, perché c’era un limite alle risposte che poteva dare a una domanda ripetuta dieci volte in un giorno. Si sentiva fiacco e apatico, i piedi che si trascinavano stancamente sull’asfalto del cortile della scuola. Non aveva voglia di andare a casa e soprattutto non aveva voglia di passare tutto il viaggio in autobus ad ascoltare quanto profumasse di jasmine Juniper. Si sentì il peggiore degli amici, ma il suo umore non poteva essere più lontano da quello di Grover e la felicità del suo amico non faceva che accentuare la sua amarezza.

Con la coda dell’occhio notò una chioma bionda dirigersi verso una Toyota e si fermò di colpo. Grover fece un altro paio di passi prima di accorgersi che Percy non era più al suo fianco.

“Se non ci muoviamo perdiamo l’autobus” disse e quella era la prima frase che avesse pronunciato quel giorno che non comprendeva le parole ‘Juniper’ e ‘fiori’.

“Tu va’ avanti. Io… non credo prenderò l’autobus oggi” rispose Percy, guardando Annabeth che lottava per aprire la macchina cercando di non far cadere i libri che portava.

“Ah!” esclamò Grover, quando notò dove era posato lo sguardo dell’amico. “È quella nuova, vero? Tipa strana, sta sempre per i fatti suoi. Piper ha provato a parlarle l’altro giorno, ma lei l’ha snobbata. Non credo ne valga la pena, Percy. È una che ha la puzza sotto il naso.”

“Valga la pena di cosa? Voglio solo punzecchiarla un po’” rispose Percy un po’ troppo sulla difensiva.

“Se lo dici tu…” ribatté Grover scettico, poi gli ricomparve sul viso quel sorriso stralunato che aveva avuto negli ultimi giorni. “Vorrei tanto avere una macchina per accompagnare Juniper a scuola. Chissà se papà me la presta per un paio di giorni.” E si avviò verso la fermata, continuando a parlare da solo.

Prima che il coraggio gli venisse meno, Percy si avvicinò ad Annabeth.

"Stupido! Vecchio! Ferro rotto! Apriti!” Accompagnò ogni parola con un calcio alla portiera dell'auto e Percy si mise a ridere.

“Forse se sfondi il vetro puoi aprirla da dentro.” Al suono della sua voce lei si voltò di scatto.

“È una tua abitudine arrivare silenziosamente dietro le persone ignare?”

“Mi sono stati attribuiti molti aggettivi, ma 'silenzioso' mai. Forse se tu non fossi troppo occupata a fingere che non esista nessun altro a parte te e a litigare con le portiere...”

“Oh... non ho proprio voglia di starti a sentire, guarda.” E tornò a litigare con la chiave che non voleva scattare.

Percy la spinse leggermente di lato, prese la chiave e, con un po' di pressione, aprì la portiera. “Prego, milady” disse con un gesto teatrale.

Lei sbuffò ed entrò in macchina senza nemmeno un grazie. Percy ridacchiò e, prima che lei chiudesse le sicure, corse fino all'altro lato dell'auto e si accomodò nel posto passeggero.

“Che cazzo fai? Esci immediatamente!”

“Hai detto cazzo.”

“Io... Sì, ho detto cazzo, e allora? Adesso esci dalla mia macchina o chiamo la polizia.”

“Perché?”

“Perché è la mia macchina e tu non puoi intrufolarti senza invito, Testa D'Alghe.”

“Va bene, allora invitami.”

“Ti invito ad andare all'inferno.”

Percy si mise a ridere, battendo la mano sul cruscotto e la testa sul sedile. “Ok,” disse. “Ma mi ci accompagni tu. Quando esci dal parcheggio svolta a sinistra. C'è una Starbucks vicino casa mia che fa il miglior frappè al mondo. Anche il caffè, mi dicono. Ma non l'ho mai assaggiato. Non mi piace. Tu, invece, sei una tipa da caffè, vero?”

Annabeth per un attimo sembrò confusa. Batté le palpebre varie volte con espressione stralunata, prima di riprendere la ragione. “Sei scemo? Io con te non vado da nessuna parte.”

“Andiamo, Annabeth, tanto lo so che non hai meglio da fare.”

“Cosa cavolo ne sai tu delle cose che ho da fare, eh?”

“So che studi troppo per poter avere una vita sociale e so che non hai amici, qui alla Goode. E so, dato il tuo accento, che non sei una newyorkese — californiana, forse? — perciò, mia cara Cervellona, oggi io ti farò da cicerone. Cominciando dal miglior Starbucks di New York. Potrai dirmi grazie dopo aver aver assaggiato il Chocolate Smoothies

Lei lo guardò per svariati secondi prima di parlare. “Guarda che esistono anche a San Francisco gli Starbucks, sai?” disse, ma mise in moto la macchina senza altre lamentele.

Per la maggior parte del viaggio in macchina parlò solo Percy, mentre le indicava i posti migliori per fare skateboard, i negozi più economici e le diceva di prendere varie scorciatoie così da evitare il traffico del pomeriggio.

“Certo che come cicerone sei una frana. Skateboard, davvero? Siamo passati davanti al Metropolitan Museum of Art e al Rockefeller Center e non ne hai fatto parola.”

“Beh... immagino siano interessanti per dei turisti, comunque c'è un posto vicino al Metropolitan Museum of Art che fa delle ciambelle buonissime” rispose Percy e — udite, udite! — Annabeth rise.

Lo Starbucks era come al solito affollato di gente. Annabeth di mise in fila per ordinare, ma Percy le prese la mano e la tirò verso una porta con un cartello enorme che diceva “Personal Only”.

“Dove andiamo, Testa D'Alghe. Non ci è permesso entrare qui” obiettò Annabeth.

“Vuoi forse fare la fila?” rispose Percy e infilò la testa nell'uscio della porta. “Hei, Travis! Connor!”

Fece capolino un ragazzo dai capelli castani e gli occhi azzurri. “Oh! Guarda, Connor, c'è Percy. Non abbiamo proprio sentito la sua mancanza, vero?”

“Infatti, no, fratellino. Siamo stati benissimo senza di lui. È proprio bello vederti, Percy.” Aggiunse un altro ragazzo, infilando la testa sotto quella di suo fratello.

“Ma chi altro abbiamo qui?” domandò Travis, alzando le sopracciglia.

“Sembra proprio che Percy si sia fatta la ragazza, Travis” ribatté il fratello con un sorriso felino.

“Non fate gli scemi, ragazzi. Questa è Annabeth, un'amica.” rispose Percy lasciando la mano della ragazza.

I fratelli Stoll erano praticamente identici, non soltanto in termini fisionomici, ma anche caratteriali. Facevano tutto insieme, anche prendere in giro Percy, che sembrava il loro passatempo preferito. Percy li adorava.

“Due Double Chocolaty Chip Frappuccino, ragazzi. E non ci mettete dentro niente o dico al vostro capo chi è stato a graffiargli la macchina il mese scorso” disse loro Percy.

“Sissignore!”

“Tutto per il nostro cliente preferito.”

“Andiamo a trovarci un posto,” disse Percy ad Annabeth, quando i fratelli Stoll ebbero portato loro le ordinazioni.

“Ma... non dobbiamo pagare?” obiettò Annabeth.

“Naaa!” rispose Percy. “I fratelli Stoll sono in debito con me per tutte le volte che li ho coperti a scuola. Adesso si sono diplomati, ma i piaceri che ho fatto loro sono abbastanza da abbuffarmi di ordinazioni gratis fino alla pensione.”

Riuscirono a trovare un tavolo in un angolo, dove qualcuno aveva lasciato bicchieri vuoti e fazzoletti sporchi. Nessuno sceglieva mai quei tavoli, di conseguenza Percy, che non era schizzinoso, usciva sempre dallo Starbucks con le maniche appiccicose di caffè.

“Che schifo!” esclamò Annabeth, che evidentemente era schizzinosa.

Percy si stava godendo il suo Frappuccino, cercando di non guardare troppo la ragazza che gli sedeva di fronte. Ancora non credeva che era riuscito a convincerla a venire a bere qualcosa con lui.

“Ci sai fare con la gente, vero?” disse improvvisamente Annabeth.

“In che senso?” le chiese Percy.

“Nel senso...” lei fece un gesto col braccio verso la porta 'Personal Only'. “Hai molti amici. Sai come comportarti con le persone.” Giocherellò col dito sulla macchia di umido creata dal suo bicchiere di Frappuccino, un'espressione un po' triste. “Ti invidio un po' per questo,” continuò, formando delle lettere con del cacao in polvere che macchiava il tavolo. “Io non so mai cosa dire alle persone. Cioè... so cosa dire, ma in genere le mie parole vengono sempre interpretate in modo negativo.” Alzò lo sguardo e, dalla sua espressione, Percy dedusse che si era pentita di essersi aperta così.

“Forse potresti evitare di correggere le persone continuamente” le disse Percy, guardandola intensamente.

Lei sbuffò. “Non è che lo faccio a posta. È che... la gente a volte è così stupida. Non arrivano nemmeno a formulare i processi mentali più semplici. E—“

“Hai mai pensato che forse sei tu ad essere troppo intelligente?” la interruppe Percy.

Lei sospirò. “Sì, lo so. Ma è frustrante a volte, sai? Non riuscire mai ad avere una conversazione con una ragazza della mia età che non comprenda vestiti e trucco sarebbe carino ogni tanto.”

Percy rise. “Le ragazze non parlano solo di trucco e vestiti” disse.

“Sì, invece.”

“Dovresti avere una conversazione con Rachel, allora. Ti ricrederai.”

“Rachel? La tipa rossa? Chi è, la tua ragazza?” chiese Annabeth, facendo a pezzetti un fazzoletto di carta.

“Uhm... no. È solo una cara amica. Ma Annabeth,” aggiunse. “Non è difficile relazionarsi agli altri, sai? Anche se ti sembrano stupidi, anche se sono molto diversi da te... se ti fermi due minuti a pensare, potrai trovare qualcosa in comune con ognuno di loro.”

Annabeth sorrise guardandolo negli occhi e sorseggiò il suo Frappuccino. “Già. Tu per esempio non sei tanto male, Testa D'Alghe. Cavolo! È davvero buona 'sta roba.”

“Te l'avevo detto” disse Percy.

Passarono qualche minuto in amichevole silenzio, beandosi delle loro bevande, circondati dal chiacchiericcio degli altri clienti.

“Allora,” disse Percy dopo un po'. “Perché sei venuta a New York?”

Lei si pulì la bocca sporca di cioccolato in modo molto educato prima di rispondere. “Sono venuta a vivere da mia madre. Finora ho vissuto con mio padre e la sua famiglia a San Francisco, ma dato che sarei dovuta venire qui comunque l'anno prossimo per frequentare l'Università di New York, mia madre ha deciso che mi avrebbe fatto bene abituarmi alla città.” C'era un tono di amarezza nella sua voce.

“E tu non volevi?” chiese Percy.

“Certo che lo volevo. Perché me lo chiedi?”

“È solo... hai detto che è stata una decisione di tua madre.”

Un angolo delle labbra di Annabeth si curvò. “Non sei stupido come sembri, eh? No, non ho avuto molta voce in capitolo, in effetti. Mia madre è... un po' dispotica su certi aspetti. Molti aspetti. Ma non è che me ne lamenti. Sono contenta di non vivere più con mio padre e la sua famigliola.”

“Non stavi bene con loro?” Percy sapeva di star esagerando con le domande, ma c'erano tante di quelle cose che avrebbe voluto sapere di Annabeth Chase e ne avrebbe approfittato finché lei si sentiva dell'umore di parlare.

“Beh...” disse lei, finendo di disintegrare il povero fazzoletto. “Non c'era molto spazio per la figlia che aveva reso la vita di Frederick Chase un inferno. Soprattutto con altri due pargoli per casa. Almeno adesso ho più libertà. Mia madre non è mai in casa. Sempre nel suo studio legale a lavorare. Non ci sono bambini pestiferi a distrarmi, nessuna matrigna che mi guarda come fossi un'intrusa. Sto meglio qui.”

Percy non riusciva nemmeno a immaginare come fosse tornare in una casa vuota, senza il sorriso di sua madre ad accoglierlo, o il profumo della cena che lo attendeva.

Annabeth sembrò decidere di aver parlato abbastanza di sé perché spostò l'argomento sulla scuola e le altre materie che Percy doveva ripassare durante le loro lezioni. Poi i loro Frappuccini finirono e lei annunciò di dover tornare a casa.

“E la prossima volta decido da sola cosa ordinare, Testa D'Alghe.”

Percy era troppo contento del fatto che ci sarebbe stata una 'prossima volta' per replicare.
 


N/A: Aaaah! Finalmente! Questo capitolo l'ho letteralmente partorito, nel senso che è stata una faticaccia. Percy ha scoperto qualcosa su Poseidone, Tyson e Annabeth (come avevo promesso, Poseidone non è completamente stronzo) e finalmente si è visto un po' di Percabeth. 
Ci ho messo un po' più di tempo a scrivere questo capitolo perché credo sia importante e non volevo rovinare tutto. E poi sono stata impegnata su un'altra shottina sul mio adorato Paul. 
Ah! Dato che sono un'idiota cronica, mi sono scordata di dire che la maglietta dei Ramones di Percy del capitolo scorso è un riferimento a una fanart meravigliosa di Viria. Dovrei cominciare a prendere nota delle note che devo scrivere :D
Come sempre ringrazio tutte quelle meravigliose persone che hanno recensito e inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Se non ci foste voi, ragazzi...

 


Nel prossimo capitolo: Percy e Poseidone fanno una chiacchierata, Annabeth si rilassa un po' (ed era ora), Tyson è un tenerone.

   
 
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