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Autore: Laylath    03/02/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 18. Invito per il 1 dicembre.

 

Forse furono le parole ed i gesti di Andrew, ma da quella sera Kain si buttò ancora di più anima e corpo sul suo progetto. Per prima cosa passò un’intera giornata a recuperare tutti i fogli e gli appunti sparsi in giro per la camera e li riportò con diligenza sul quaderno che gli era stato regalato. Per il bambino fu una grandissima emozione aprire la prima pagina, passare le dita su quella carta così bella e vedere con che facilità quella penna scriveva con un tratto così sicuro di inchiostro nero… dopo una prima esitazione gli sembrò veramente facile iniziare a riportare tutte le varie fasi del progetto in quei fogli, con tanti disegni e schemi spesso fatti sul momento stesso, andando ad aggiungere ulteriori dettagli a quella sua prima grande opera di elettronica.
Ogni notte, prima di addormentarsi, sfogliava con meraviglia e reverenza le pagine che aveva scritto e poi prendeva il quaderno di suo padre per confrontare quegli appunti e quei progetti, accorgendosi con una punta di orgoglio che, qualche volta, le loro calligrafie avevano dei tratti in comune. Certo, era ancora prematuro confrontare una scrittura da undicenne con  quella di una persona all’epoca diciottenne, ma Kain, nella sua piccola e frenetica mente infantile, credeva che tutto fosse possibile data la magia speciale di quei due quaderni e di quella penna.
E a confermare che c’era qualcosa di particolare in tutto questo, anche la radio iniziò a creare meno problemi. In realtà, semplicemente, rimettendo in ordine le proprie teorie e rivedendo gli schemi, si erano corrette alcune sviste e dunque, su basi solide, era più facile procedere. Ma ovviamente Kain aveva una fantasia troppo sfrenata per potersi agganciare a fatti così banali.
E così, dopo un’altra decina di giorni, un primo pomeriggio, finalmente diede il fatidico ultimo giro di vite e allontanò la sedia dalla scrivania e per osservare compiaciuto la sua opera: certo, a metterla a confronto con la bella radio che era stata di suo padre, non era proprio eccezionale, essendo anche più piccola, ma per tutto il tempo e l’impegno che ci aveva messo, gli sembrava la cosa più bella del mondo.
“Papà! – chiamò, uscendo dalla stanza e correndo giù per le scale fino allo studio del genitore – Papà, l’ho finita! Vieni! Vieni a vederla!”
“Oh bene, – annuì Andrew, alzando gli occhi dal suo lavoro – e l’hai collaudata?”
“No, per quello vorrei che ci fossi tu! E’ importante.”
“E allora andiamo a vedere la tua grande opera, ragazzo mio.”
Kain era così emozionato che prese il padre per il braccio e lo incitò a salire le scale più in fretta che poteva.
“Che succede?” chiese Ellie affacciandosi dalla cucina, incuriosita da quel chiasso.
“Una promessa tra me e papà.” spiegò Kain, sentendosi estremamente importante nel dire una cosa simile. In fondo era una promessa fatta tra due persone responsabili e mature… no?
Arrivati in camera indicò a suo padre la sua opera che stava trionfante sopra la scrivania.
Andrew si sedette sulla sedia e la prese tra le mani, rigirandola con attenzione, consapevole dello sguardo ansioso del figlio che si contorceva le mani in attesa del verdetto.
“Come ben sai non è che me ne intenda molto di radio, – iniziò, dopo qualche minuto di silenzio – ma devo dire che mi sembra proprio un buon lavoro.”
“Se pensi che sia più piccola rispetto a quella che mi hai dato tu, l’ho fatto di proposito… è più semplice.”
“A volte la semplicità è la chiave di lettura migliore: inoltre credo che alla tua amica Riza non serva una radio molto complicata, no? Allora, vogliamo provare a girare la manopola?”
Kain serrò le mani tra di loro, emozionato e teso per quel collaudo e poi annuì con decisione.
La manopola venne girata con un leggero click e la voce si sparse nitida per la stanza:
“… e adesso ci colleghiamo con l’Auditorium di Central City per il concerto sinfonico diretto da…”
“Mi pare funzioni benissimo – commentò Andrew, provando ad alzare ed abbassare il volume con successo – Allora, direi proprio che mi posso congratulare con te, mio piccolo genio dell’elettronica.”
Non poté aggiungere altro che il bambino gli era già saltato addosso e lo abbracciava ridendo per la gioia… e ne aveva ben donde di essere così felice. Aveva un bellissimo regalo per Riza, era riuscito a terminare un progetto tutto da solo e, soprattutto, aveva reso suo padre estremamente orgoglioso di lui.
“Adesso credo che dovresti dirlo anche a tua madre.”
Annuendo appena, il bambino corse via dalla stanza ed iniziò a chiamare Ellie, riempiendo la casa con le sue esclamazioni vittoriose come mai era successo in undici anni.
 
 Una cosa di cui Kain si rese conto abbastanza in fretta era che le radio, per quanto piccole, pesavano parecchio, specie se si doveva percorrere una strada abbastanza lunga ed un pesante cappotto rendeva impacciata la tua presa sull’apparecchio.
Prima di arrivare in paese si dovette concedere almeno tre soste di diversi minuti ciascuna ma, nonostante queste pause, l’apparecchio diventava sempre più pesante tra le sue braccia, i muscoli che protestavano per quell’insolito sforzo.
Quando finalmente giunse all’ingresso del paese si sedette su un muretto, posando la radio accanto a lui, per riprendere fiato, provvedendo a massaggiandosi con fastidio le braccia indolenzite.
“Oh mamma, – sospirò – e chi pensava che cinque chili di radio fossero così pesanti… spero solo che casa di Riza non sia troppo distante da qui e…”
Sgranò gli occhi, mentre si rendeva conto di un importante dettaglio che, nella foga di consegnare la sua opera, non aveva minimamente considerato: non aveva la pallida idea di dove fosse la casa della sua amica. Infatti, per quanto il paese non fosse molto grande, c’erano comunque numerose strade secondarie e lui non si era mai allontanato dal corso principale dove stavano tutti i negozi e gli esercizi pubblici.
E come se non bastasse a quell’ora, e per via del freddo, non c’era quasi nessuno in giro e dunque non sapeva nemmeno a chi chiedere.
E ora che faccio?
Tornare a casa o avventurarsi da solo in quelle strade? Certo la seconda prospettiva non era molto alettante, ma la prima era quasi da escludere: era stanco morto e non ce l’avrebbe mai fatta a riportare la radio indietro.
 “Ciao gnomo!” lo salutò una voce e subito Kain si girò con un sorriso: solo una persona lo chiamava così.
“Ciao Roy!” rispose, vedendo il ragazzo avvicinarsi con la solita aria sicura.
“Che ci fai qui in paese… ehi, ma quella è una radio!”
“Oh sì! – sorrise il bambino con orgoglio – La devo portare a Riza: è un regalo per lei.”
“Ah, la famosa radio che le dovevi costruire. Accidenti, è davvero bella!”
“Ti piace? Solo che non so proprio dove sta casa di Riza.” ammise il bambino.
“Dai, la porto io – si fece avanti Roy, prendendo la radio con grande facilità – mi sembri stanco e questo affare non è proprio leggerissimo. Casa di Riza è verso la fine del paese, ma dall’ingresso principale non si vede: seguimi.”
“Meno male che ti ho incontrato, Roy, sei davvero gentile.”
“Figurati: per il piccolo gnomo questo e altro.”
I due si avviarono per le strade secondarie, chiacchierando allegramente, fino ad arrivare al villino degli Hawkeye, leggermente distaccato dal resto delle case al confine del paese. Come giunsero al cancelletto di ferro che introduceva nel cortile, Kain fissò con perplessità quel posto a lui sconosciuto.
“Abita davvero qui?” sussurrò.
“Sì, – annuì Roy – vogliamo andare?”
“Ci sei mai stato?”
“No, mai… meglio essere in due ad affrontare la cosa, no?”
“Mh” annuì con enfasi il bambino, aprendo il cancelletto per far passare Roy. Mentre percorrevano il piccolo sentiero in mezzo all’erba alta, notò affascinato la vegetazione così rigogliosa e selvaggia che circondava quell’abitazione che sembrava così decadente e abbandonata. Da una parte pensò che fosse in qualche modo magico vivere in quel posto che ricordava in qualche modo le descrizioni dei libri di favole di Vato, ma dall’altra… c’era quell’onda di malinconia e decadenza che faceva stringere il cuore. E sapere che lì stava una persona che amava gli faceva venire uno strano magone.
“Avanti, bussa.” lo incitò Roy.
“E… e se apre suo padre?” esitò lui, ricordandosi le strane dicerie sul Berthold Hawkeye.
“Beh, gli chiediamo se c’è Riza, no? Funziona così…”
“Roy… se… se apre lui… parli tu, per favore?”
“Va bene, dai, bussa: ho le mani impegnate con la tua radio.”
Con un sospiro, Kain si fece forza e batté delicatamente le nocche sulla porta.
Non uscirà alcun mostro… non uscirà alcun mostro. Fatti forza, Kain.
 
Riza era in cucina e terminava di lavare i piatti dopo aver tentato un altro dolce che ora cuoceva nel forno. Per un attimo credette di essersi immaginata quel lieve bussare alla porta: forse il rumore dell’acqua sulle stoviglie l’aveva tratta in inganno.
Ma le parve una cosa molto strana, abituata com’era a tutti i minimi rumori della casa: quello che aveva sentito non rientrava nella gamma di suoni quotidiani.
“Qualcuno ha bussato alla porta…” mormorò con sorpresa.
Senza perdere tempo ad asciugarsi le mani, corse verso l’ingresso per evitare che il suono si ripetesse e disturbasse suo padre: dubitava che gli ospiti fossero per lui e dunque era decisamente meglio tenerlo fuori da qualsiasi questione.
“Riza!” esclamò Kain, come la ragazza aprì la porta.
“Consegna speciale per la signorina Riza Hawkeye.” sorrise con spavalderia Roy.
“Voi…?” si sorprese la ragazza.
“Ho finito la radio – dichiarò Kain con orgoglio – e te l’ho portata a casa.”
“La radio… ma certo! – sorrise lei, capendo la situazione. Esitò per un millesimo di secondo prima di farsi da parte ed incitarli ad entrare – Forza, venite in cucina: così la proviamo.”
La cucina era al lato opposto della casa rispetto allo studio di suo padre e dunque era sicura che non avrebbe arrecato nessun fastidio. Potevano accendere la radio senza alcun problema.
Mentre percorrevano il corridoio scarsamente illuminato, i due maschi si sentirono leggermente a disagio, ma l’atmosfera cambiò completamente quando Riza li fece entrare nella cucina: qui la luce del primo pomeriggio entrava dalla finestra e c’era un’atmosfera più distesa e casalinga.
“Odore di cioccolato!” sospirò Kain, estasiato.
“La torta è in forno – gli strizzò l’occhio lei – scommetto che la vuoi assaggiare, vero?”
“Certo!”
“E tu, Roy, ne vuoi?”
“Perché no…” annuì lui, posando la radio sul tavolo.
Mentre aspettavano che il dolce finisse di cuocere, Kain mostrò deliziato il suo operato e spiegò a Riza come funzionava. Proprio in quel momento la radio trasmetteva uno sceneggiato tratto da un vecchio libro d’avventure che tutti e tre conoscevano e dunque rimasero estasiati ad ascoltare le voci dei vari lettori che recitavano le battute di quella vicenda.
“Grandioso, Kain – sospirò Riza quando la trasmissione terminò – sai, la terrò qui in cucina, così la ascolterò ogni volta che voglio. In inverno, questa è la stanza più calda e ci passo molto tempo.”
“Per qualsiasi problema o dubbio fammi sapere, verrò subito a controllare.”
“Ma come farei senza di te, piccolo mio…” mormorò la ragazza.
E prima che Kain potesse dire qualcosa si trovò stretto nel suo abbraccio e senza preavviso ricevette anche un bacio su entrambe le guance.
 “Sei diventato tutto rosso, gnometto – ridacchiò Roy, prendendolo in giro – fra Riza e la sorellina di Jean direi che fai proprio impazzire le bionde, eh?”
“Oh, finiscila di prenderlo in giro. – lo rimproverò Riza – Adesso levo la torta dal forno e vediamo come è venuta.”
 
Per evitare che facesse troppo buio durante il ritorno a casa, Kain se ne andò via dopo circa un’oretta. Roy invece, su proposta di Riza, rimase ancora a farle compagnia.
Quando lei rientrò nella cucina, dopo aver accompagnato il bambino fino al cancelletto del cortile, trovò il suo amico seduto a passare distrattamente il dito su una manopola della radio. Era strano il silenzio che regnava in quel momento: a Riza sembrava che in qualche modo la voce allegra di Kain risuonasse ancora in quel posto, risvegliando anche qualche eco di quella di sua madre. Si accorse che Roy sedeva proprio dove era solita stare lei.
Il ragazzo si girò a guardarla e per un secondo ci fu uno strano imbarazzo che tra i due non si era mai creato.
“E così, questa è casa tua…” disse Roy per spezzare quella situazione.
“E già. – annuì lei, tornando a sedersi e posando le mani sul tavolo – Alla fine hai ricambiato le visite che ti facevo quando stavi male.”
“Non è che abbiamo disturbato venendo qui senza preavviso?”
“Parli di mio padre? – chiese la ragazza, puntando su di lui gli occhi castani – E’ nel suo studio e non credo che l’abbiamo disturbato: è dalla parte opposta della casa ed in ogni caso non abbiamo alzato troppo la voce.”
E anche se avessimo urlato, forse non ci avrebbe sentito, preso com’è dai suoi studi.
“Capisco…” mormorò il moro, percependo il lieve cambiamento di tono di voce.
“Ti sta mettendo a disagio?”
“Cosa?”
“La mia casa… ti mette a disagio? Sono la prima a dire che non è molto accogliente, specie in alcuni ambienti: forse la cucina, assieme a camera mia, è lo spazio più decente.”
“Oh, non farti problemi, davvero. Cosa dovrei dire io di casa mia, allora?”
“Sai, – confessò Riza, fissando la sedia dove prima stava Kain – a volte odio questo posto. Me ne sento imprigionata e tutto quello che vorrei è demolirlo… però, contemporaneamente, lo sento anche come un rifugio dove posso stare in pace. Forse perché in queste stanze, fino a quando era viva mia madre, ho passato dei bei momenti.”
Roy rimase in silenzio davanti a quella confessione così personale. Ma in fondo in parte capiva quello che doveva provare la sua amica e così si sentì in dovere di restituire la confidenza.
“Sai, io sono nato ad East City, quando mio padre era di stanza lì… però ci trasferimmo a Central che avevo nemmeno un anno e dunque i miei ricordi sono solo della casa nella capitale.”
“Era una bella casa?” chiese Riza, incuriosita.
“Sì, direi di sì: aveva molte stanze e anche begli arredi, a quello ci pensava mia madre finché era in vita. Ma dopo la sua morte era estremamente vuota e spesso vagavo per quei corridoi desiderando solo di poter aprire la porta e scappare via. A volte le prigioni possono essere molto belle, ma non cambia il senso.”
“Casa di Kain è così diversa – ammise Riza – non ti senti in prigione od oppressa. Tutto trasuda serenità e familiarità… ti senti accettato.”
“… eppure allo stesso tempo ti sembra così strano?”
“Già.”
“Ti capisco: a casa di Vato ho provato le medesime cose – sorrise con amarezza Roy – forse siamo davvero troppo diversi da loro.”
“Però nonostante tutto ci accettano per quello che siamo. –  dichiarò Riza con convinzione – E non esitano a coinvolgerci nella loro vita, senza porsi troppe domande su di noi. Sei stato proprio tu a dirmi che persone come Kain sono speciali per questo… che senso ha allora starci a crogiolare nella consapevolezza di avere un passato diverso e doloroso?”
“Scusa, colpa mia – disse Roy – hai ragione, a volte mi lascio condizionare troppo dal mio passato.”
“Dovremmo guardare solo il presente, invece: un mio amico mi ha appena regalato un radio e tu e lui siete venuti a trovarmi a casa. E’ la prima volta che avevo ospiti ed è stato bellissimo.”
Il sorriso che fece fu così sincero e felice che Roy ne fu conquistato e decise che forse era giusto continuare su quella scia e godersi quanto aveva da offrire il presente. C’era qualcosa di incredibilmente speciale nella quotidianità che i loro amici accettavano di condividere con loro, facendoli interagire con le proprie famiglie, ed era un enorme spreco non approfittarne appieno.
Di colpo gli tornarono in mente le parole che aveva scambiato con Vato diversi giorni prima, a proposito di andare alla festa al capannone il primo di dicembre.
“Sei mai andata alla festa del primo dicembre?” chiese con noncuranza.
“Quella al capannone? No, mai…” scosse il capo lei, abbastanza sorpresa dall’argomento.
“Prima hai detto che dovresti guardare solo il presente, ma ti andrebbe di fare un progetto a brevissimo termine… per il primo dicembre?”
“Che intendi dire?”
“Vato mi ha chiesto se andavo alla festa… perché non ci andiamo insieme io e te? Da quello che ho capito si mangia, si balla, si sta insieme: sicuramente ci saranno tutti i nostri amici.”
Riza rimase interdetta a quella proposta, ma poi le tornarono in mente tutte le descrizioni che le aveva sempre fatto Rebecca il giorni successivi a quell’avvenimento. Anche lei le aveva detto diverse volte di andare, ma Riza non aveva mai accettato. In genere poneva come scusa il fatto che suo padre non le avrebbe mai dato il permesso, dato che in genere la festa durava anche dopo la mezzanotte, ma in realtà aveva sempre avuto paura di sentirsi spaesata in mezzo a tutte quelle persone a lei sconosciute che, magari, l’avrebbero additata come la figlia del signore strano.
Però questa volta la cosa si prospettava in modo differente: la consapevolezza che ci sarebbero stati anche degli adulti a cui eventualmente appoggiarsi rendeva la cosa più allettante.
“Perché no? – sorrise, ma poi si incupì lievemente – Però… dovrò chiedere il permesso a mio padre.”
“Beh, non faremo molto tardi…” iniziò Roy, sicuro che sua zia non gli avrebbe fatto problemi.
“Lo so, ma non è come uscire il pomeriggio… senti, facciamo che ti do una risposta nei prossimi giorni.”
“Va bene, però spero davvero che tu venga.”
 
La mattina successiva per poco Rebecca non si strozzò con il tramezzino che stava mangiando durante l’intervallo. Riza la osservò perplessa mentre cercava di riprendere fiato e si puliva il mento dalle briciole.
“Ma ti rendi conto di quello che mi hai appena detto?” chiese la mora, afferrando l’amica per le braccia.
“Forse andrò alla festa del primo dicembre.”
“No, non quello, Riza! Andiamo, come puoi essere così stupida da non capire! Te l’ha chiesto Roy?”
“Sì.”
“Nel senso… non è che l’avete deciso insieme. E’ stato proprio lui a chiederti di andare , vero?”
“Sì, proprio così. Che cosa dovrei capire, scusa?”
Rebecca fece un sorriso malizioso e mise l’indice sulla fronte di Riza.
“Tu e Roy avete un appuntamento!”
Quella parola piombò addosso a Riza come una valanga e per due secondi il suo cuore smise di battere.
No, non l’aveva proprio considerata sotto quel punto di vista: era scontato che lei e Roy facessero delle cose insieme, era sempre stato così.
“No, non è così!”
“Verrà a prenderti a casa?” incalzò Rebecca.
“Probabile, ma devo ancora chiedere a mio…”
“Dettagli, nel caso esci di nascosto perché una cosa del genere non te la puoi lasciar scappare!”
“Rebecca!”
“Dicevo… viene a prenderti a casa e starà con te durante la festa, no?”
“Ma si starà tutti insieme!” protestò Riza, esasperata.
“Ma se ballerai lo farai con lui e non con altri!”
“Ma la finisci? A parte il fatto che non ho nessuna intenzione di ballare… e nemmeno lui, sicuramente!”
“Oddio! Amica mia! Sono così emozionata per te! – sospirò Rebecca con aria sognante, ignorando completamente le obiezioni della bionda – E mi raccomando, fatti carina! Devi metterti un bel vestito: tutte le ragazze aspettano le feste al capannone per mettersi bei vestiti. Io me lo sono già comprato da due settimane… chissà se Jean lo noterà…”
“A proposito di Jean – disse Riza, per cambiare argomento – mi vuoi spiegare perché litighi con lui ogni volta che lo vedi?”
“Tattica femminile, tesoro… dovresti imparare.”
“A me pare solo che ti renda antipatica ai suoi occhi.”
“Sciocchezze! E te lo dimostrerò: ti giuro che alla festa ballerò con lui!”
“Non è tipo che balla.”
“Te l’ha detto lui?”
“No, ma…”
“Fidati! Ballerò con lui, a costo di trascinarlo in mezzo alla pista! Ma ora torniamo a te: come hai intenzione di vestirti?”
“Ti ho detto che devo prima chiedere a mio padre!” esclamò esasperata Riza.
E senza aspettare replica uscì dall’aula per evitare che quell’inutile e dannosa discussione proseguisse. Mentre andava in cortile per cercare Roy, per caso si imbatté in Heymans e Jean.
“Ciao, Riza…”
“Alla festa del capannone hai per caso intenzione di ballare?” chiese a bruciapelo Riza.
“Che? Ma quando mai!” inorridì il biondo.
“Era giusto per sapere. Ci vediamo dopo.”
 
Per tutto il resto della mattinata scolastica rimase tesa e nervosa, rendendosi conto che le parole di Rebecca avevano più che un fondamento. Era un appuntamento, non poteva scappare da questa realtà: restava da capire se fosse stata una cosa intenzionale o meno perché, conoscendo Roy, era anche probabile che desse per scontata la loro amicizia a tal punto da permettersi una domanda che in un altro frangente avrebbe assunto tutt’altro sottinteso.
La cosa che la turbava di più era il sentirsi appunto turbata dalla questione: voleva dire che le premeva più del previsto. Ma era anche consapevole che a tredici anni non si aveva ancora la maturità di considerare determinate cose. Anche la questione di Rebecca e Jean… per quanto la sua amica avesse grandi mire sul biondo, Riza era assolutamente convinta che non c’era la consapevolezza che avevano Vato ed Elisa. Trovava molto più normale la loro esitazione a diventare fidanzati piuttosto che una forzatura come quella, per quanto ci fossero solo tre anni di differenza.
Tuttavia, tralasciando i maliziosi sottintesi di Rebecca, non poteva fare a meno di essere felice che lei e Roy, nonostante le loro problematiche, stessero davvero iniziando a godere della presenza di amici sinceri. Se a quella festa c’erano davvero tutti, sarebbe stato bello poterli incontrare… un po’ come quando si erano riuniti a casa di Kain.
E così fu quasi con sua stessa sorpresa che si trovò a casa, che ormai era ora di pranzo.
Cercò di rimandare la questione per quanto poteva, mettendosi a preparare qualcosa che richiedesse parecchio tempo e, nel frattempo, cercava di trovare le parole ed il coraggio per spezzare quel silenzio che durava da tanto tempo. Non era proprio bello cercare un dialogo col proprio genitore per chiedergli di andare ad una festa… ma in fondo Berthold qualcosa le doveva. Era un padre assente, ma almeno non le impedisse di vivere.
Così entrò nello studio dell’uomo, trovandolo chino come sempre sui suoi libri. Con le solite mosse discrete gli posò il vassoio con il pranzo accanto e fece un passo indietro. Il rituale prevedeva che ne facesse ancora un altro e poi si girasse verso la porta…
“P… papà…” la sua voce le sembrò un pigolio che, tuttavia, riecheggiò in quella stanza in maniera assordante.
Nessuna risposta venne da quell’uomo: per un attimo Riza sperò che quel movimento indicasse che la stava ascoltando, ma poi si rese conto che aveva solo preso una penna per scrivere delle cose su un libro.
“Papà… è solo per un secondo. Posso chiederti una cosa?” domandò con voce leggermente più decisa.
“Dimmi.”
Riza sussultò: era questa la voce di suo padre… da quanto tempo non la sentiva? Una parola di senso compiuto e non i soliti mugugni o sbuffi che indicavano un’eventuale richiesta di qualcosa. Però non doveva lasciarsi prendere dal panico: l’occasione era quella giusta.
“Fra otto giorni – iniziò – c’è una festa nel capannone appena fuori città. Ci vanno tutti i miei amici… e vorrei… vorrei il permesso di andarci. Dato che… che inizia di sera e prosegue fino a tardi mi sembrava corretto chiedertelo.”
Sperava di addolcirlo con quell’ultima frase: in fondo chiedere il permesso era una forma di rispetto.
Ma perché faccio questo? Se uscissi senza dirgli niente manco si accorgerebbe della cosa! Sono una stupida! Gli potrei lasciare benissimo la cena un’ora prima ed andare tranquillamente… perché mi sono voluta mettere in difficoltà da sola?
Il padre alzò gli occhi su di lei e Riza dovette fare uno sforzo per non indietreggiare: così azzurri, così febbrili… la mente della ragazzina cercò involontariamente l’azzurro più rassicurante degli occhi di Jean.
“Ci… ci saranno anche i genitori degli altri… - proseguì cercando di tenere il tono di voce calmo – e… e quindi non ci saranno problemi. Per favore… posso?”
“Comportati bene e non fare tardi. Adesso vai, devo fare cose importanti.”
“G… grazie.” mormorò Riza, incredula davanti alla semplicità con cui aveva ottenuto il permesso.
Ma questo vuol anche dire che non gliene importa nulla: probabilmente si sta chiedendo perché l’ho disturbato per una cosa simile…
Ma come uscì dalla stanza e chiuse discretamente la porta alle sue spalle, si sentì leggera come mai le era successo prima. Poteva andare a quella festa!
 
Libera dai problemi più pesanti, adesso si poteva sentire una semplice tredicenne e dedicarsi a questioni frivole, ma allo stesso tempo fondamentali. Corse in camera sua e aprì di con frenesia il suo armadio: frugò in ogni cassetto, scostò ogni attaccapanni, buttò tutti i suoi indumenti nel letto e li fissò con disperazione.
“Non ho niente da mettermi!” si lamentò.
Ed effettivamente era vero, non si trattava del classico eccesso di vanità femminile: per il tipo di vita che aveva condotto aveva sempre indossato gonne, magliette, maglioni a collo alto… di vestiti nemmeno l’ombra: gli unici che avesse mai messo erano quelli che le faceva sua madre, ma erano per bambine piccole e non le entravano più.
“Andiamo! Non è che chieda chissà cosa!” protestò, guardando gli indumenti che conosceva a memoria.
La sua mente iniziò a lavorare con frenesia: andare a comprarsene uno nuovo? No, fuori discussione: chissà quanto costava e poi lei non aveva la minima idea di che tipo di vestito prendere. Chiedere a Rebecca? Un suicidio bello e buono… per quanto fosse una carissima amica in questo frangente sicuramente avrebbe fatto disastri a fin di bene.
“Vorrei proprio sapere perché…” iniziò, e nella foga le cadde un maglioncino a terra. Si chinò per raccoglierlo e si accorse che c’era qualcosa che non andava. C’era una macchietta rossa sul pavimento, proprio sotto di lei… una seconda… e ora una terza. Sentì qualcosa che le scivolava lungo l’interno gamba.
“Oh… no – si impanicò, capendo che cos’era, ma non sapendo minimamente che fare – non adesso! Io… come… come funziona?!”
In genere avere le proprie cose per la prima volta è un’esperienza abbastanza traumatizzante e niente è più gradito di una madre che spieghi bene come agire davanti a quell’imprevisto mensile. Ma quando abiti da sola con tuo padre che, probabilmente, ha esaurito la sua scorta di parole per i prossimi dieci anni e la tua defunta madre non ti ha mai detto nulla in merito, entri nel panico… anche se in genere sei razionale e tranquilla.
Non ci fu dunque nulla di ragionato nella corsa che Riza spiccò fuori di casa, pregando con tutta l’anima che il fazzoletto con cui aveva cercato di arginare l’emergenza funzionasse a qualcosa. Probabilmente non corse mai così velocemente lungo il sentiero di campagna, cercando di ignorare il sentirsi completamente priva di qualsiasi controllo sul proprio corpo che… stava sanguinando senza alcuna apparente intenzione di fermarsi.
Quando arrivò al cortile di casa Fury, si fermò di colpo, rendendosi conto che era una follia bella e buona quella che aveva fatto. Insomma… va bene che la madre di Kain era sempre gentile con lei, ma da qui a chiederle una mano per una cosa così imbarazzante. E poi se le apriva Kain o il signor Fury?
“No, no, fermati!” esclamò accorgendosi che il disastro continuava.
Freneticamente andò sul retro, sapendo che la cucina aveva una porta che dava sull’esterno, pregando che la donna fosse lì da sola. E dopo tanta sfortuna, finalmente qualcosa andò per il verso giusto ed incontrò Ellie che in quel momento scuoteva una tovaglia.
“Oh, ciao Riza! – salutò con il solito sorriso – Come mai sei qui? E’ appena passata l’ora di pranzo e Kain non mi aveva detto che saresti venuta! Mh? Ma che hai?”
“Come funziona questa cosa?” chiese Riza con disperazione correndole accanto e aggrappandosi a lei.
“Che cosa? Oh… ohi cara, è la tua prima volta, vero?”
“Non so come fermarlo! – singhiozzò la ragazzina, lieta finalmente di potersi sfogare con una donna – E’… è cominciato all’improvviso e non so come fare! So che cos’è… ma… ma non bene! E continua ad uscire!”
“Sssh, da brava – la abbracciò con comprensione Ellie – va tutto bene. E’ normale essere un po’ spaventate, ma non è niente di grave. Vieni dentro, cerchiamo di sistemare un po’ le cose…”
“Mi scusi… mi scusi tanto se la disturbo – si vergognò Riza, mentre entravano in casa – ma non sapevo proprio a chi chiedere.”
“Stai tranquilla, tesoro. Nessun disturbo… dovevo pensarci che forse tua madre non ha fatto in tempo a parlarti di queste cose.”
Come passarono in salotto per salire al piano di sopra dove stava il bagno, incontrarono Kain ed Andrew che stavano seduti sul divano.
“Ciao Riza! – sorrise il bambino – Sono sorp… ma perché piangi?”
“No, no! Occhi chiusi, maschietti – disse subito Ellie con voce severa – Queste sono cose tra femminucce e voi dovete starne fuori.”
“Ma io…” protestò Kain non capendo, ma Andrew gli prese la testa e lo fece girare.
“Lascia stare, figliolo. Sono cose di donne che tu ancora non puoi capire.”
 
“Sono mortificata…” mormorò Riza, quando l’emergenza fu rientrata.
“Oh, stai tranquilla – sorrise Ellie, sedendosi accanto a lei nel grande letto della stanza matrimoniale – ho lavato la tua roba e l’ho messa vicino alla stufa in cucina. Tra qualche ora sarà asciugata, ma per il momento dovrai tenere questa mia vecchia gonna: ti sta larghina ma è un’emergenza.”
“Non doveva prendersi questo disturbo: la potevo riportare a casa e lavarla io.”
“Basta con queste storie – scosse il capo la donna, passandole un braccio attorno alle spalle – allora, va meglio? Adesso che sai come funziona non fa più così paura, vero?”
“No… quindi… quindi per la festa del primo dicembre sarà tutto finito, vero?”
“Fra otto giorni? Beh, direi proprio di sì, cara. Quindi andrai alla festa? Ne sono felice: ovviamente ci andremo tutti noi.”
“Quando è iniziato tutto questo caos stavo svuotando l’armadio nella ricerca di qualcosa da mettere.” ammise la ragazzina, non riuscendo proprio a capire come si fosse fatta prendere dal panico per cose simili.
“Ah, ti capisco benissimo: quando ero un ragazzina pure io era sempre un disastro ogni volta. Rimanevo indecisa fino all’ultimo secondo su cosa mettermi.”
“Non ho nemmeno un vestito! Letteralmente parlando…” la depressione fu tale che si lasciò cadere all’indietro sulla morbida coperta del letto.
“Tutto qui il problema? Risolviamo in fretta… sapevo che prima o poi i miei vecchi vestiti sarebbero serviti a qualcosa! Alcuni sono davvero belli! Mi dispiace persino di essere cresciuta e non poterli più mettere.”
“Ma sta scherzando!? – sgranò gli occhi Riza, riprendendo la posizione seduta – Non posso accettare!”
“Starai scherzando tu, Riza Hawkeye! E’ la tua prima festa nel capannone e devi essere bellissima… ora, sicuramente ci saranno delle modifiche da fare al vestito che sceglieremo, ma per fortuna abbiamo una sarta d’eccezione che farà un vero capolavoro.”
“Ah sì?”
“Esatto, mia cara… e adesso vieni: i miei vecchi vestiti sono in quella cassapanca. Ho bisogno di vederteli addosso per capire quale colore ti si adatta meglio.”
E Riza capì cosa voleva dire avere una madre emozionata quanto te per la festa.
  
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