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Autore: Aching heart    30/04/2014    1 recensioni
"Malefica non sa nulla dell'amore, della gentilezza, della gioia di aiutare il prossimo. Sapete, a volte penso che in fondo non sia molto felice." [citazione dal film Disney "La Bella Addormentata nel Bosco"]
Carabosse è una principessa, e ha solo dieci anni quando il cavaliere Uberto ed il figlio Stefano cambiano completamente la sua vita e quella dei suoi genitori, rubando loro il trono e relegandoli sulla Montagna Proibita. Come se non bastasse, un altro tragico evento segnerà la vita della bambina, un evento che la porterà, quattordici anni dopo, a ritornare nella sua città ed intrecciare uno strano rapporto di amore/odio con Stefano. Ma le loro strade si divideranno, portando ciascuno verso il proprio destino: Stefano a diventare re, Carabosse a diventare la strega Malefica. Da lì, la nascita della principessa Aurora sarà l'inizio del conto alla rovescia per il compimento della vendetta della strega: saranno le sue forze oscure a prevalere alla fine, o quelle "benefiche" delle sette fate madrine della principessa?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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14. Return to the castle

I raggi solari filtravano dalle tende in tenui fasci dorati che inondavano di luce la figura addormentata di Rosaspina. Stefano la guardava dormire, accarezzandole dolcemente il capo. Nel sonno era serena e docile come durante la veglia era inquieta e indomabile. Con le palpebre abbassate, il viso rilassato, le labbra leggermente dischiuse e i lunghi capelli sparsi sul cuscino, immersa nella luce mattutina, sembrava una figura eterea, fatata. Stefano sentiva di non meritarla. Lei, così coraggiosa, desiderosa di libertà, aveva lasciato la sua realtà per poter essere se stessa e se l’era cavata da sola, con una forza che quasi nessuno avrebbe avuto… e lui? Lui non aveva il coraggio di opporsi a suo padre per una scelta che riguardava la sua vita, la sua felicità… che forse ora coincideva con quella di Rosaspina.
Non ingannare te stesso, almeno. Tu vuoi quella corona, per quanto alto possa essere il prezzo.
Il principe scosse la testa, come se, così facendo, avesse potuto scuotere via dalla sua mente anche quel pensiero. Amava sinceramente Rosaspina, questo nessuno avrebbe potuto metterlo in dubbio…
…ma amo anche essere me stesso, il principe Stefano della casata Westeros, futuro Re di questo regno. Cosa farò quando i miei due amori mi metteranno nella condizione di dover scegliere fra uno solo di loro?
L’interrogativo del principe rimase irrisolto, per quella mattina, con enorme sollievo di Stefano, che aveva francamente paura della risposta. La salvezza gli era giunta, paradossalmente, da Rosaspina stessa, risvegliatasi dal suo dolce sonno.

***

Carabosse aprì gli occhi e per un istante fu abbagliata dalla luce del sole; poi, quando vi ebbe fatto l’abitudine, notò Stefano di fianco a lei, e i ricordi della sera prima scorsero veloci nella sua mente. I baci – dei onnipotenti, aveva baciato Stefano! -, la tenera dichiarazione d’amore, i discorsi che le erano seguiti, e il sonno in cui erano caduti senza accorgersene, mentre parlavano, e il senso di colpa, strisciante, che non l’aveva abbandonata.
-Buongiorno – le disse Stefano con un sorriso che non avrebbe saputo definire che… grato.
-Buongiorno – rispose lei. Puntellandosi sulle braccia, si mise a sedere, sentendosi addosso quella sensazione di disagio che provava le rare volte in cui le capitava di addormentarsi vestita.
Stefano fu rapido nel chinarsi su di lei e rubarle un bacio a fior di labbra, e lei fu felice che avesse fatto lui il primo passo. Era talmente imbarazzata per quel che era successo che davvero non avrebbe saputo come comportarsi con lui, ma sotto il tocco delle sue labbra riacquisì la confidenza e la fiducia che aveva temporaneamente smarrito.
Sii te stessa. Almeno nella misura che il tuo ruolo ti permette.
Quando si staccarono sorrisero entrambi, e rimasero fronte contro fronte, in un gesto che sapeva di intimità più dei baci che si erano scambiati.
-Come ti senti? – le chiese il principe.
-Potrei sentirmi meglio solo se… - ma si rese conto che non poteva dire quali condizioni l’avrebbero fatta sentire ancora meglio, così mentì. – Non potrei. Non potrei sentirmi meglio di così.
Un altro sorriso, un altro bacio.
-Nulla potrebbe rendermi più felice di te. Solo l’annullamento del matrimonio da parte di mio padre potrebbe.
-Tuo padre… cosa dirà per la tua assenza di questa notte? Come ti giustificherai?
-Probabilmente non avrò bisogno di giustificazioni. Lui crede che io frequenti bordelli. Anche se mi ha vietato di farlo, per riguardo alla principessa Helena, crederà che io sia così annoiato da non poterne fare a meno.
La tristezza e la delusione nella sua voce non fecero altro che alimentare l’odio di Carabosse per Uberto. Se anche aveva perdonato Stefano, per l’amore che gli portava, non avrebbe mai perdonato lui, mai.
 -Non ci saranno gravi conseguenze per te, vero? Non sarai punito a causa mia?
-Suppongo di no: mio padre non è mai stato molto propenso verso le punizioni corporali, ma anche se fosse, Rosa, non mi importerebbe. Io voglio te, il resto non conta.
-E’ lo stesso, per me. So che non rischio tanto quanto te, ma credimi se ti dico che…
Stefano non le permise di continuare, perché la zittì con un bacio appassionato.
-Vieni con me al castello – le sussurrò, tenendole il volto fra le mani.
Carabosse si ritrasse, spaventata. Era l’ultima cosa che si aspettava. E se per caso qualcuno l’avesse riconosciuta? Uberto non avrebbe avuto pietà con lei, neanche se avesse saputo che suo figlio l’amava. Anzi, questo forse l’avrebbe reso ancor più risoluto nell’ucciderla. Sarebbe stato capace di strapparle il cuore a mani nude.
-Mio padre non verrà mai a saperlo – cercò di convincerla. – Il castello è immenso, e lui ne frequenta solo determinate ali: se saremo attenti non saprà neanche della tua esistenza.
-E come faremo con la tua promessa sposa? Ti rendi conto che vivremo nello stesso castello, che dovrai passare tutto il tuo tempo con lei, fra impegni, visite e balli? Se io rimango qui, a te basterà dire che vuoi andare a caccia per venirmi a trovare, ma nel castello, con tuo padre e Helena alle costole, credi davvero che riusciresti a trovare del tempo per me?
-Nessuno potrà tenermi separato da te troppo a lungo, sapendo che sei solo a pochi corridoi da me. E non permetterò a nessuno di trovarti né di farti del male, questo te lo prometto.
-Ma Helena… - provò ancora a protestare Carabosse e, ancora, fu interrotta da Stefano.
-A me non importa niente di lei, Rosa! E’ stato mio padre a sceglierla, non io, e questo mi è sufficiente per mettere da parte i doveri che ho verso di lei. Come potrei esserle fedele se ancora non siamo sposati, ma soprattutto se non la amo? Come potrebbe lei pretendere qualcosa di diverso? Ti prego, Rosa, vieni con me.
Continuare a resistere sarebbe stato inutile, comprese Carabosse. Certo, quanto a testardaggine Stefano era un suo degno rivale, e purtroppo lei non era neanche nel pieno delle sue facoltà mentali – colpevoli i baci, o la preoccupazione, o gli occhi imploranti di Stefano, o tutte e tre le cose insieme – così, alla fine, cedette al desiderio del principe.
Ma era troppo facile incolpare solo Stefano; doveva ammetterlo: era anche lei che desiderava andare con lui al castello. Non c’era paragone fra l’aspettare il suo uomo in una locanda e aspettarlo sotto il suo stesso tetto, solo di qualche stanza distante da lui. Carabosse non era una sciocca, sapeva, perché era lei stessa una principessa, che Stefano non sarebbe potuto rimanere a lungo con lei anche se fosse andata a vivere con lui, tuttavia la vicinanza gli avrebbe permesso di sfruttare ogni momento libero, e poi c’era la nuova prospettiva delle notti che avrebbero potuto passare insieme… Senza contare il richiamo della sua casa natia. In quel castello era nata e cresciuta, vi aveva passato i momenti più felici della sua esistenza, e ai dolci ricordi custoditi per lei da quelle mura avrebbe potuto aggiungerne degli altri, momenti di vita con Stefano.
Quella è casa mia. Non permetterò a Uberto né tantomeno ad una principessina viziata di obbligarmi a starvi lontana più a lungo, decise infine.
Accettò quindi la proposta di Stefano che, al colmo dell’euforia, indossò la sua giacca e precedette Carabosse al piano di sotto, lasciando all’oste una sacchetto di monete d’oro per l’alloggio della ragazza ma soprattutto per il suo silenzio, e facendo preparare i loro cavalli.
Quello verso il castello fu un viaggio silenzioso. Ognuno era perso nei propri pensieri: Stefano pensava a come sistemare la sua amata senza farle correre alcun rischio, immaginava come sarebbero stati i giorni a venire insieme a lei, cercava di escogitare piani per poter ottenere più momenti da passare insieme; Carabosse invece pensava alla propria famiglia, a suo padre e a sua madre. Non era pentita della sua decisione, ma non poteva fare a meno di chiedersi se loro l’avrebbero mai approvata, se fossero stati lì. Il cuore le tremava al pensiero di star deludendo i suoi genitori, soprattutto sua madre, che aveva consumato se stessa nel desiderio di vendetta. Forse, da qualche parte, Elsa la stava davvero guardando e la stava rimproverando per quel gesto sconsiderato che aveva mandato all’aria quattordici anni di piani, progetti e sofferenza. In quel modo si era negata la vendetta, sì, ma aveva trovato qualcosa di più importante e in fondo, forse, Elsa avrebbe potuto capire. Era pur sempre sua madre e aveva avuto a cuore la sua felicità, l’aveva amata. Magari se fosse stata lì le avrebbe detto che non importava di chi fosse figlio Stefano: se era lui il suo Vero Amore, allora dovevano essere felici insieme.
Sì, Stefano non aveva nulla a che fare con suo padre, era completamente diverso da Uberto, e di certo non aveva alcuna colpa nel complotto che era stato ordito contro la sua famiglia. Aveva solo tredici anni all’epoca, cosa avrebbe potuto fare?
-A cosa pensi, Rosa? – le chiese ad un tratto il principe.
-Sono preoccupata – confessò lei.
Lui scosse la testa. – Dovresti smetterla di preoccuparti tanto. Ti fa solo male.
-Il punto è che… stiamo rischiando veramente molto – cercò di spiegare, ma le sarebbe stato impossibile fargli capire quanto, senza dirgli la verità su di lei.
-Capisco che tu sia preoccupata, ma io conosco mio padre. Se staremo attenti, non correremo pericoli. Almeno per ora.
-Per ora, esattamente. E poi cosa succederà?
-Non ho ancora fatto piani, ma vedrai che ce la caveremo. – Carabosse non gli rispose. Vedendola ancora preoccupata, decise, a modo suo, di distoglierla da pensieri che avrebbero solo potuto farle del male. – Tutte queste preoccupazioni finiranno per appesantirti a tal punto che non riuscirai più a stare in sella al tuo cavallo.
Con quelle parole, ebbe la sua piena attenzione. – Ah, è così che la pensi? – rispose, assottigliando lo sguardo. L’odore della sfida aleggiava nell’aria.
-Dimostrami che non ho ragione – fece lui, provocante, prima di lanciare il suo cavallo al galoppo fra gli alberi.
-Questo non è leale! – gli urlò dietro, ridendo. Partì a sua volta al galoppo e non tardò a recuperare il vantaggio che il principe aveva su di lei; presto raggiunsero la strada maestra, che li guidò prima fra i sobborghi e poi nella città vera e propria. Lì dovettero necessariamente cambiare andatura, per non travolgere i passanti né le bancherelle disposte per le strade, e per non destare l’attenzione delle guardie cittadine, il cui compito era mantenere l’ordine.
A entrambi sembrò essere passata un’eternità quando finalmente si trovarono davanti alle mura del palazzo. Il cortile era brulicante di servi impegnati nei più svariati lavori, la grata sollevata, ma le guardie all’ingresso vollero esaminare attentamente il volto di Stefano per accertarsi che fosse il principe prima di lasciarlo passare, lanciando occhiate diffidenti a Carabosse, che pure era sotto la sua protezione.
Trovandosi lì davanti, la principessa comprese davvero per la prima volta da quando sua madre le aveva illustrato il suo progetto, cosa significasse tornare nella propria casa da estranea, perlustrare la folla con lo sguardo per trovare volti amici ma allo stesso tempo avere paura di farlo per timore di essere riconosciuta, cercare ovunque i dettagli che ricordava per vedere se qualche cosa del suo passato era sopravvissuta ai cambiamenti, e scorgere invece i piccoli segni che testimoniavano che il passato era morto e sepolto, e che il peso del presente minacciava di schiacciare anche i vivi come quel passato.
All’apparenza tutto era uguale: l’imponente edificio di pietra, le armature delle guardie, le case disposte intorno alle mura del castello; l’unica eccezione erano i vessilli che si spiegavano al vento, che ora raffiguravano l’emblema della Casa Westeros. Se però si guardava bene, con occhi attenti come i suoi, in realtà molto si rivelava cambiato, dal modo di dare gli ordini agli sguardi dei passanti e dei servi. Su questo Carabosse non poteva sbagliarsi: anche se erano passati quattordici anni, lei ricordava bene che quando i suoi genitori regnavano, i servi erano, se non felici, almeno sereni, e di sicuro più sani di quanto lo fossero adesso. Ricordava bene il rispetto sincero, autentico, con cui tutti si rivolgevano a suo padre, a sua madre e a lei stessa, non forzato dalla loro superiorità di rango, né dal denaro o dalla minaccia di punizioni e torture.
Ma oramai questo era solo un ricordo, perché quei volti, un tempo sorridenti e sani, ora erano smunti, pallidi, malaticci, e i corpi erano troppo magri… gli sguardi erano bassi, gli occhi colmi solo di rassegnazione e, di tanto in tanto, di paura: assomigliavano a quei cani randagi che si trascinano mezzi morti per la strada, scacciati da tutti, che non danno fastidio a nessuno ma conoscono la violenza ingiustificata di cui gli uomini sono capaci.
Che razza di Re è Uberto? Per quale motivo si è dato tanta pena per ottenere il trono, se poi non si cura minimamente delle condizioni in cui sono coloro che il trono lo sorreggono sulle loro spalle?
Per suo padre, la corona aveva significato responsabilità, dovere. Era evidente che Uberto non la pensasse allo stesso modo. Per lui la corona significava solo una cosa: potere.
-Rosaspina? – la richiamò Stefano, vedendo il suo sguardo pensoso, nonostante i suoi sforzi. -Siamo arrivati.
Erano nelle scuderie reali, dove lasciarono i cavalli nelle mani del vecchio stalliere, che fece un inchino a Stefano e poi guardò incuriosito Carabosse, mentre lei sganciava la sacca contenente i suoi averi dalla sella e se la metteva in spalla. L’uomo aveva la sensazione di averla già vista… sì, aveva un’aria familiare. La guardò bene negli occhi chiari, scavando nella memoria, e capì: quella ragazza somigliava in maniera impressionante alla piccola principessa, la figlia del defunto Re Thomas. Anche Carabosse si ricordava di lui: era stato molto fedele a suo padre, e un buon amico, per quanto gli era stato possibile. Lui le aveva dato le sue prime lezioni di equitazione, e con lui aveva passato numerosi pomeriggi, quando si rifugiava nelle scuderie per sfuggire alla monotonia del castello. La principessa lottò con se stessa per non cedere ai ricordi e mettersi in pericolo: mentre stava per girarsi di spalle e seguire Stefano, vide che lo stalliere aveva sgranato gli occhi e stava per aprire la bocca, come per chiamarla. Capendo che aveva intuito qualcosa, Carabosse lo precedette.
-Rosaspina – disse. –E’ questo il mio nome.
Lo stalliere rimase per un attimo interdetto, poi annuì.
-Rosa, vieni? – la chiamò Stefano, ormai arrivato davanti al portone che conduceva all’ala riservata alla servitù, alle cucine e alla lavanderia. Lei si affrettò a seguirlo. Quella era l’ala del castello che Carabosse conosceva di meno: c’era stata solo poche volte da bambina.
I due passarono per corridoio di pietra che sembrava immenso. La principessa ricordò di esservi andata una volta mentre giocava con i figli delle dama di compagnia di sua madre. Loro facevano finta di essere le guardie reali di Carabosse, scesa nelle prigioni per interrogare un temibile brigante accusato di tradimento. Sorrise tristemente a quel ricordo, mentre Stefano, ignaro del suo tormento, le faceva da guida.
-Questo corridoio porta alle stanze della servitù, ma tu non starai lì. Ho pensato di sistemarti in una delle vecchie stanze delle dame di corte; per arrivarci senza insospettire nessuno useremo un passaggio segreto che dovrebbe essere più o meno… qui! – esclamò il principe, vagando con lo sguardo sulle pareti di pietra per poi fermarsi sicuro sul sostegno vuoto di una torcia. – Vediamo se la memoria non m’inganna… - borbottò, abbassando la leva.
Evidentemente la memoria non lo ingannava, perché la parete si aprì con un rumore grave e profondo e, dopo qualche attimo di polvere che si sollevava, apparve davanti a loro una stretta scalinata alquanto buia. Ecco, questo passaggio era una delle cose del castello che Carabosse non sapeva affatto.
Stefano prese una delle torce affisse alle pareti e si avventurò nel passaggio, seguito da Carabosse, richiudendo le pareti di pietra alle loro spalle. La scala si rivelò essere fredda e  angusta, e il silenzio era tale che si poteva sentire con chiarezza ogni spiffero di corrente gelida, ogni zampettare dei topi, ogni stridio delle chiavi che strisciavano l’una sull’altra, appese alla cintura di Stefano.
Carabosse si ritrovò a tremare, non sapeva se per il freddo o per l’emozione, e a desiderare di arrivare presto nella sua nuova stanza.
Dopo un tempo che le parve interminabile, Stefano le fece cenno di fermarsi e, facendo pressione su una lastra di pietra nella parete dinnanzi a loro, azionò l’apertura del passaggio. Sollevata, la principessa seguì Stefano fuori da quel corridoio algido e si ritrovò stipata in uno stretto spazio fra la parete di pietra dietro di loro, ormai chiusa, e un pesante arazzo vermiglio.
Il principe sbirciò fuori dall’arazzo con prudenza e, non vedendo nessuno nei paraggi, diede il via libera a Carabosse. Lei, pur riconoscendo la zona del castello in cui si trovavano, dovette limitarsi a seguirlo con passo incerto, perché lo avrebbe insospettito troppo se avesse mostrato di conoscere i luoghi con sicurezza.  
-Vieni – le disse Stefano prendendola per mano. – Ti guido io.
Riuscirono a non incontrare nessuno per tutto il tragitto, che terminò davanti ad una porta di quercia chiusa. Il principe slegò dalla cintura il mazzo di chiavi e, dopo averne esaminate un paio, ne infilò una nel chiavistello e aprì la stanza. Certo di stare offrendo a Rosaspina la camera più bella e lussuosa che avesse mai visto in tutta la sua vita, la invitò ad entrare con un sorriso orgoglioso e soddisfatto che a Carabosse fece venir voglia di sorridere a sua volta. Entrò nella camera con titubanza, e non riconobbe nulla, nulla che potesse esserle familiare. Si sforzò di mostrarsi entusiasta per Stefano, che capì ugualmente dai suoi occhi che c’era qualcosa che non andava, ma credette che Rosaspina fosse solo nervosa e preoccupata per quel grande passo che avevano fatto.
-Allora, cosa te ne pare? – le chiese.
-E’… bellissima. Una stanza bellissima.
-E’ un grande cambiamento, lo so. Sei fuggita dal tuo villaggio e probabilmente hai cambiato casa moltissime volte… so che per te è difficile, ma vedrai che andrà tutto bene. Quello di cui hai bisogno è stabilità, e cosa c’è di più stabile della pietra? – replicò Stefano tentando di strapparle un sorriso, battendo le nocche sulla dura pietra delle pareti.
Carabosse non rispose. Era preoccupata e tesa, e si vedeva.
-Vieni qui – le disse allora Stefano, aprendo le braccia, e lei vi si tuffò, nascondendo il volto sul suo petto. Si concesse, per quella volta, di essere debole e bisognosa di protezione. Si concesse di cercare il suo aiuto, ripromettendosi di recuperare la sua forza interiore al più presto.
Lui l’abbracciò e le pose un bacio sulla fronte, per tranquillizzarla.
-Va tutto bene, non c’è motivo di preoccuparsi. Andrà tutto bene.
-Sì – rispose lei, senza però crederci veramente.
Lui si staccò dall’abbraccio e decise di lasciarle un po’ di tempo da sola per ambientarsi e ritrovare la calma.
- Ti lascio disfare il tuo bagaglio, io dovrò assentarmi per un impegno con mio padre, ma non farò molto tardi.
Carabosse annuì. Lui si voltò verso la porta, poi parve ripensarci e si voltò nuovamente verso di lei.
-E… Rosa?
-Sì?
-Ti amo.
Quelle due semplici parole furono in grado di farla sorridere davvero e Stefano capì di aver fatto bene a ricordarglielo, così, senza attendere risposta, uscì dalla sua stanza per andare incontro ai suoi obblighi, lasciando Carabosse da sola con i suoi ricordi.

***

Erano passati quattordici anni da quando Céibhionn aveva osservato e ammonito Carabosse dalla sua fontana nel giardino del palazzo incantato, ma lì nulla era cambiato. Sembrava non essere passato neanche un giorno da allora: non una foglia era caduta dagli alberi, non un petalo era appassito, né un’ape si era nutrita del polline di quei fiori meravigliosi. Tutto era rimasto fermo a com’era sempre stato, nella sua rigogliosa, sempreverde e disgustante bellezza. Da bambina, Céibhionn aveva amato la natura, ma a stento riusciva a sopportare quel giardino senza un filo d’erba mosso dal vento e quel palazzo senza una crepa, così come odiava la sua sterile eterna giovinezza. Una gabbia d’oro, ecco cos’era per lei quel palazzo fatto di marmo, e non era mai riuscita a comprendere come le sue sorelle riuscissero ad amare la vita lì dentro. Ma a loro non pesava. Loro erano nate per quella vita, le loro menti non avrebbero mai potuto concepire l’idea di una che fosse diversa: era nella loro natura. Un po’ Céibhionn le invidiava, perché se era vero che le considerava esseri vuoti, volubili, capricciosi, senza alcun sentimento, era anche vero che, proprio in virtù della loro natura, loro non conoscevano l’odio, il tormento, il dolore che ben conosceva lei. Céibhionn sospirò. A cosa serviva indugiare ancora su quei pensieri?
Il suo sguardo si posò sulla scena che si svolgeva davanti a lei. Le sue sorelle erano riunite tutte insieme nella grande veranda argentea della loro dimora, ognuna intenta a dilettarsi come meglio credeva. Vide Aideen e Sheena volteggiare leggiadre, danzando insieme sulla musica ultraterrena suonata da Ceara alla sua arpa. Moira le accompagnava con la sua voce soave, cantando una dolce melodia senza parole. Fiona, l’unica fra le sorelle a possedere una cascata di riccioli di colore rosso acceso, era adagiata su una sedia, intenta a leggere un grosso volume; Niamh invece era in disparte, e dipingeva quella scena, che ad occhi umani sarebbe apparsa magnifica.
Céibhionn si accomodò di fianco a Fiona, e quest’ultima distolse l’attenzione dal suo volume di storia per guardarla attentamente, come a volerla esaminare. Poi, con espressione maliziosa e innocente al tempo stesso, si rivolse alla sorella.
 -Sai, Céibhionn, penso che tu abbia ragione a voler tenere d’occhio le vite degli umani nostri protetti, si vengono a sapere molte cose interessanti. Questa mattina, per esempio, davo un’occhiata al castello di Uberto… si sta organizzando un matrimonio, fra Stefano ed una principessa straniera… il principe tuttavia sembra avere altri interessi, verso una ragazza, una contadinella che si fa chiamare Rosaspina. Sai qual è la cosa buffa? Che questa contadinella non è altri che la tua protetta, la principessa spodestata… Carabosse.
Fiona sorrise candidamente, certa di suscitare una reazione stupita e sconvolta. Di certo stupite e sconvolte lo furono  le altre cinque fate, che smisero di fare quello che stavano facendo per guardare nella loro direzione, ma Céibhionn non ebbe  alcuna reazione.
Loro non si interessavano quasi mai della vita al di fuori del loro palazzo incantato, perché ritenevano le faccende  degli uomini roba di poco conto, assolutamente insignificanti, ma quando decidevano di offrire la loro protezione ad un umano prendevano molto a cuore le sue scelte e le sue azioni, e il fatto che il figlio del loro favorito amasse la sua nemica era per loro qualcosa di inconcepibile. Il sentimento stesso dell’amore lo era, perché loro non amavano nessuno al di fuori di loro stesse.
La più sorpresa e anche la meno contenta di quella notizia fu Niamh.
-Sì, lo so – rispose la maggiore alla domanda di Fiona.
-Dici davvero?
-Io ho sempre saputo che sarebbe successo, era destino.
-Era questa la parte della profezia che non avevi svelato a nessuno, allora…
-Non ce l’hai mai detto – intervenne Niamh con tono accusatorio, alzandosi e andando incontro a Céibhionn. – L’hai sempre saputo e non ci hai mai detto niente.
Guardò la sorella con gli occhi quasi a ridotti a fessure. In realtà sapevano tutte che quell’omissione non era poi così grave, ma sapevano altrettanto bene che qualsiasi scaramuccia diventava motivo di astio fra Céibhionn e Niamh. Era una questione personale.
-Che senso avrebbe avuto dirvelo? – chiese Céibhionn alzandosi a sua volta. – Avrebbe cambiato le cose? Forse sareste intervenute, e non avreste dovuto. Te l’ho già ripetuto molte volte, Niamh, che ci sono regole che anche noi siamo tenute a rispettare. Noi non dobbiamo intrometterci nelle vite degli umani per far andare le cose diversamente da come è stato stabilito.
-Quindi immagino di non poter nemmeno avvisare il Re di questo, non è vero?
-Nessuna di  noi deve intromettersi in questa storia. Questo è quanto.
Anche se so che tu, Niamh, lo farai, con o senza il mio permesso.





Angolo Autrice: Avete aspettato tutto questo tempo per un semplicissimo capitolo filler. Lo so, lo so che siete arrabbiate. Posso farmi perdonare in qualche modo? :3
 Questo capitolo è quello che mi convince meno di tutta la storia, fino ad adesso. Non mi piace molto, ma non volevo farvi aspettare ancora di più, così l'ho pubblicato lo stesso, sperando che abbiate ancora voglia di leggere.
Faccio giusto un paio di precisazioni riguardo alle fate: quando loro si chiamano "sorelle" non è perché lo sono davvero. Nessuna fata, ad eccezione di Céibhionn (e un giorno, forse, scoprirete perché), ha una famiglia o la prospettiva di crearsene una, quindi si chiamano "sorelle" solo per consuetudine. Il rapporto astioso di Céibhionn e Niamh verrà chiarito in futuro.
Ora devo proprio scappare; ci tengo però a ringraziare quelli che ancora mi seguono nonostante i miei numerosi ritardi. Grazie di cuore :3
A presto (spero!)
   
 
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