Preciso che questo breve racconto si colloca nella serie Z ma anche in universo what if, poichè ci sono riferimenti astratti ed ipotetici non trattati da Toryama, poichè la serie Z finisce quando Bra ha circa 6 anni ed io mi sono divertita a fare allusioni su possibili e poco chiari risvolti del loro futuro .
Buona lettura!
2.
Mio
padre aveva fatto
la guerra. Noi non l’avevamo fatta. Era questa la differenza
che ci rendeva così
diversi e che si coglieva nelle sfumature indurite del suo carattere: i
dolori
interiori, le botte, la rabbia, la sete di vendetta e di gloria avevano
ulteriormente rafforzato una corazza di orgoglio che fin da bambino
aveva
caratterizzato il suo carattere - era stato lui ad avermi rivelato
qualcosa di
quando era stato un infante, dipanando la totale oscurità
che gravava sul suo
passato e che lui nascondeva per riserbo o per pudore, non avrei saputo
dirlo, ma non penso che mio padre si vergognasse di ciò che
aveva fatto, forse si sentiva troppo superiore per raccontarlo -. Era
un veterano, un uomo di quelli che si guarda sempre con rispetto, ma
era
anche un
capo che la guerra l’aveva portata insieme al vessillo di un
crudele tiranno
per cui aveva lavorato per anni, perché mio padre era
stato un mercenario. E mercenario significa vendere la propria violenza.
Non
gli faceva onore tutto ciò nè gli rendeva
omaggio. Eppure noi lo
omaggiavamo come un uomo
grande, perché realmente lui era per noi troppo importante.
Aveva fatto vibrare la terra con l’apprestarsi dei suoi
passi quando il vento faceva ululare il suo nome nelle valli, aveva
fatto
penare eserciti col suo arrivo sul campo, aveva fatto paura alle genti
e il suo
nome non era stato dimenticato nei meandri dell’universo.
Ora
cos’era diventato mio padre? Un uomo normale, in apparenza,
un padre di famiglia
tranquillo, un
tipo ombroso e poco loquace ma presente. Lo avevamo reso umano, o forse
eravamo
riusciti a far placare la parte più selvaggia che albergava
in lui come un
diavolo che dorme. Ma che non è morto.
Un
vulcano quiescente. Non
spento. Mio padre era questo. Gli
ardeva
negli occhi una fiamma di desiderio di guerra che solo quando mi ci ero
scontrato negli allenamenti avevo scorto: se lo sfidavo, come lui
mi
chiedeva di fare provocando il guerriero che era in me, e lo combattevo
sempre
con quel reverenziale timore di mancargli di rispetto – non
mi sarei mai
permesso di farlo, un po’ per via dell’educazione
che avevo ricevuto, un po’
per paura, lo ammetto – il principe che era in mio padre
sembrava prendere
coscienza in una sorta di dormiveglia, ma non si svegliava mai del
tutto,
forse
era lui stesso ad impedirgli di farlo, forse la sua parte umana lo
tratteneva
in quello strano sonno in cui fluttuava come in un mare tempestoso
da anni.
Non riemergeva, ma io avevo scorto più volte la sua ombra
avvicinarsi alla
superficie di quella precaria pazienza.
Mia
madre non era mai
sembrata preoccuparsi della cosa, invero faceva finta di niente
trattandolo
sempre con gentilezza e affrontandolo anche con un grande coraggio.
L’avevo
ammirata molto per questo, per me lei era stata il rifugio, ma anche
l'appiglio da cui trarre la forza, la sicurezza,
perché non era facile trovare
qualcuno in grado di
tenere testa ad un uomo com’era stato mio padre. Lui avrebbe
potuto ammazzare per
orgoglio, avrebbe potuto ammazzare anche solo per rabbia, senza
mai
rifuggire un tale peccato con la coda tra le gambe: aveva avuto sempre
un coraggio smisurato ma anche
una
gran voglia di tornare all’inferno per cercare gli avversari
che lo stavano
ancora insultando.
Mia madre invece aveva cercato sempre di trattenerlo, di rabbonire quel guerriero impavido che dietro la corazza di orgoglio e di fierezza, e persino di una timidezza spessa come la patina d’ombra dei suoi occhi, aveva un cuore grande, un cuore ferito, un cuore rinnegato per anni, ripudiato, esiliato, dimenticato… Un cuore che mio padre aveva ritrovato, o forse solo scoperto, quando era stata mia madre a risvegliarlo.
Aveva battuto per lei, quel cuore... Aveva pulsato per lei, di questo ne ero certo, come il giorno in cui per me e per lei mio padre era andato a fare la guerra, sacrificandosi per salvarci, barattando la sua vita di cui forse era persino stanco perché si preservasse la nostra. Ci aveva salvati comunque, anche se la guerra ci aveva poco dopo distrutto.
Lui ci aveva salvati dalla sua indifferenza.
Mia
madre lo
aveva pianto disperatamente e per la prima volta forse chi ci era
attorno si
era accorto di quel legame forte e intenso, perché neppure
io avrei saputo
definirlo diversamente. A casa mia la vita era stata tranquilla, la
coppia dei miei genitori
turbolenta, ma nonostante i continui litigi nessuno dei due si era mai
voltato
le spalle e aveva detto basta.
Si amavano. A volte li avevo visti
parlare con
una strana tranquillità, in quell’insolita
intimità in cui raramente venivo
coinvolto: erano riserbati amanti, i miei genitori, e non che mia madre
fosse
timida, piuttosto era risaputa la sua esuberanza, sono a conoscenza che
al
tempo della sua giovinezza era stata con Yamcha e che si era persino
parlato di
sposarsi, ma la sua discrezione era il filo con cui era riuscita ad
irretire
mio padre ancorandolo a questo posto che noi chiamiamo casa, e se a volte
lo
metteva a disagio volutamente come per sfidarlo, e noi ne ridevamo
complici, invero
mia madre controllava fin troppo se stessa: aveva gli slanci di una
bambina,
l’animo romantico di una sognatrice, la dolcezza di
un’adolescente che con
lui non veniva a galla. Anche mia madre aveva dovuto sacrificare
qualcosa di importante per
avere quell'uomo al proprio fianco, e ciò che aveva
sacrificato per amore era
una parte di se stessa.
Era
una donna forte.
Per amore di mio padre avrebbe fatto di tutto, e forse era stato
proprio
quell’amore devastante a conquistarlo. Com’era
stato per lui sentirsi amato a quel modo, in quella
maniera viscerala,
profonda, ritrovarsi gli occhi di mia madre addosso nella camera da
letto, a
venerarlo, e poi in un salotto, a sfidarlo.
Immaginarli insieme mi aveva fatto sempre accapponare la
pelle, ma credo
sia una forma di orticaria che colpisce tutti noi figli. Il sesso non
è roba
pudica, è una cosa sporca, cruda ed esplicita come lo
è la carne senza gli abiti addosso. Non potevo ipotizzare -
e neppure
adesso riesco a
farlo concretamente – che loro due condividessero il letto,
che mi avessero
concepito per sbaglio, come frutto di una passione incontrollata che
aveva
avuto una conseguenza imprevista.
E
quella conseguenza
ero io.
Non
so se mio padre
sarebbe rimasto se io non fossi nato, a dire il vero me lo sono sempre
chiesto.
Mia madre mi aveva raccontato di un mio alter ego, di un altro me che
era
venuto da un futuro diverso cercando di aiutarci. Io iniziavo a muovere
i primi
passi all’epoca in cui egli era giunto, non posso ricordarlo,
ma lei mi aveva rivelato, perché a sua volta le era stato
riferito da Yamcha,
che quando quel
Trunks era morto mio padre si era arrabbiato ferocemente. E
solo l’idea mi fa
sentire ancora importante. Significare qualcosa per mio padre non
può essere da
me quantificata con nessun prezzo. I suoi rari segni di affetto, timidi
ma
profondi, mi hanno segnato dentro, me li sono portati con me tutta la
vita, li
ho stampati nella mia mente in un posto dove non esiste
l’annientamento. Quei
ricordi mi riscaldano quando nei momenti
di solitudine e di malinconia mi ritrovo a cercarli, sentendomi ancora
un
adolescente e percependo mio padre accanto, presente, pur se
chiuso in un silenzio perenne.
Al
tempo in cui giunse
un nuovo nemico sulla Terra, teatro di sventure ormai perenni, mio
padre come
sempre aveva risposto alzandosi in piedi al grido della battaglia. Non
si
tirava mai indietro davanti a nessuna guerra, era sempre pronto per
questo,
combattere e morire non gli faceva paura né gli insinuava un
brivido di
debolezza, e costantemente mi rammentava che neppure io dovevo averne,
che il
più grande onore per
un guerriero è morire in battaglia.
Eppure
aveva tradito le
sue parole severe e importanti, era venuto a meno ai precetti con cui
mi aveva
educato in
quell’epoca moderna dove lui sembrava un pezzo d'
antichità fuori posto: non mi
aveva portato con sé… Mi amava troppo. Io, mia
madre e mia sorella eravamo
diventati il suo tallone d’Achille, il punto debole della sua
ignobile e
travagliata esistenza: mio padre era stato venduto da suo padre
quando era un bambino; era stato venduto come una mera merce di scambio
e come
principe lui aveva rappresentato la garanzia di un freddo patto; poi
aveva
perso tutto, un giorno di neppure un anno dopo che prendeva gli ordini
di
Freezer, il suo popolo era stato distrutto. E un principe senza popolo
è principe
solo del niente.
Avevano
cercato di
togliergli il nome mandandolo a viversi tutte le guerre, forse
sperando che lui lì perisse, ma alla fine lo avevano
reso un ramingo nell’universo, perchè lui non era morto, perchè la guerra non l'aveva distrutto, perchè
quel suo nome
significava regale, significava avere sangue blu dentro la carne e mio
padre era
un principe fiero e indomito dentro, anche se i suoi geni non erano stati diversi da
quelli di
Goku o di Gohan, o di qualcun altro, e nelle radici della sua esistenza
c’era la
storia di un’antica famiglia, di un popolo forte, bellicoso,
violento; c’era la
storia di una razza di guerrieri che quel mestiere spietato lo avevano
scritto
nel sangue come una condanna. Alla fine era tornato libero, aveva
cessato di prendere ordini, e rinunciare a combattere per mio padre era
stata
una scelta, un sacrificio, una privazione profonda e importante; era
stato come
strappare una parte di quelle radici, come cercare di uccidere una
parte di se
stesso. Quello che l’aveva salvato era stato
l’amore di mia madre, così serena,
costante, presente, il soporifero per la belva infuocata che mio padre
aveva imprigionato
e che ferocemente si era mossa per anni come la tigre in una gabbia che
guarda
oltre le sbarre.
“Mi
vuole bene?” Ricordo di averlo chiesto a mia
madre quando avevo sei anni.
“Te
ne vuole molto” mi
aveva risposto lei con sicurezza. “Solo non è
bravo a dimostrarlo. Non dubitare
mai dei suoi sentimenti. Le persone che nella vita ti circonderanno,
non sempre
saranno quello che sembrano in apparenza.”
“Tu
come fai a
saperlo?”
“Perché
lo so”.
E
mi aveva sorriso. E
ora so che dietro quel sorriso, dietro quella sua sicurezza
c’era l’abbraccio
di mio padre, la sua stretta silenziosa e ferrea ma totale e
rassicurante. So che la
notte, quando nessuno osava intromettersi in quella loro
intimità proibita a
chiunque, lui doveva abbracciarla. E invero una sola volta nella vita
l’avevo
visto farlo, ed era stato quando era andato via ancora una volta per
difenderci,
allontanandosi da casa sempre con quella fierezza, con
quell’orgoglio che gli
impediva di dimostrarci
quanto fossimo importanti. Mia sorella all’epoca aveva sette
anni, io poco più
del doppio ed ero ormai pronto a combattere anche in una grande
battaglia, al fianco di mio padre - e quando avevo bramato quel
momento, voi non potete immaginarlo -.
Mi ero
aspettato lui mi
portasse con sé, ma invero non mi aveva chiesto di
seguirlo e me lo
aveva impedito duramente, perché nel suo cuore, pur senza
avermelo detto,
voleva che la parte di lui che in me stava vivendo rimanesse a vegliare
su
sua
moglie.
Come
poteva amarla così
smisuratamente e trattenerlo? Come riusciva a non darlo a vedere se era
così
forte il proprio amore nei suoi confronti? Mentre mia madre si
affannava per
non perderlo, cercando di farlo desistere dall'andare in battaglia,
avevo
scorto mio padre compiere per la prima volta un gesto
spontaneo di affetto. Avevo
diciassette anni.
Ricordo bene quello
che ho visto.
Continua…