3.
Non
so di preciso come i
miei dormissero. Non so se riposassero abbracciati, a cucchiaio o dandosi le spalle.
Quando ero
piccolo li avevo scorti qualche volta nella stessa stanza al mattino o di sera tardi se facevo storie per addormentarmi, in genere aprivano la porta quando erano
completamente svegli
e mio padre se ne stava ancora buttato sul letto in pantaloncini. Avevo
all’incirca cinque anni quando mi intrufolai attraverso la
finestra dopo
essermi arrampicato lungo il cornicione. Ero sfuggito al controllo di
mia nonna
mentre rimboccava le lenzuola dei letti e sistemava la stanza, penso
fossero le
otto di mattina su per giù, a dire il vero non lo ricordo
con precisione ed
il mio è un ricordo poco chiaro ma comunque ancora impresso
nella mia mente:
avevo l’indole selvaggia e paterna che mi scorreva nel
sangue, spingendomi ad
assecondare impulsi pericolosi anche se i miei non sembravano
eccessivamente
preoccuparsene. Probabilmente davano per scontato avessi la pelle coriacea e non si davano pena all'ipotesi che io cadessi malamente o mi rompessi qualcosa correndo da una parte all'altra della casa come un tornado incontenibile - e l'energia di mio padre d'altronde, dovevo pur spurgarla almeno correndo... - In genere, almeno all’epoca della mia
infanzia, mio padre era
mattiniero e si svegliava sempre all’alba; tuttavia spesso
rimaneva nel letto a
trastullarsi fino all’ora di colazione, prima di chiudersi
nel trainer per
tutto il giorno e rimanerci fino al pomeriggio - io lo spiavo
spesso
bramando il giorno che mi sarei allenato con lui, e osservavo i suoi
movimenti,
notando i suoi orari seppur con vaga consapevolezza e comprendendo poco
responsabilmente quel suo da farsi a cui volevo unirmi -. Quella mattina
in cui
ero svignato alle cure apprensive di mia nonna e mi ero intrufolato
nella
camera dei miei genitori attraverso la fenditura della finestra
socchiusa nel
bagno, avevo scorto per la prima volta i miei nello stesso letto ancora
intontiti dal risveglio, forse reduci da qualcos’altro
– e penso avessero
passato insieme la notte in certi termini intimi di cui non parlo,
perché
ricordo che sul pavimento c’erano dei panni che io avevo
evitato con i miei
passi incerti, capi lasciati per terra con noncuranza, caduti con
fretta -.
Talvolta
mio padre
dormiva solo, qualche volta l’avevo trovato persino sul
divano o su una sdraio
del balcone in piena notte, e per me è sempre stato normale che lui lo facesse. Se mia madre lo raggiungeva a sera inoltrata e quando tutti stavano dormendo - ed io magari fingevo di essermi addormentato da un pezzo - , al
mattino lui si alzava molto presto mentre lei rimaneva nel letto fino a
tardi. Voi
vi chiedere come faccio a ricordarlo… Avevo notato questi
ritmi insoliti nelle
abitudini della mia strana famiglia, ero comunque loro figlio, vivevo a
contatto con loro gran parte della mia esistenza a
quell’età... In effetti,
oggi e col senno di poi, penso che mio padre non fosse abituato a
dormire con
qualcun altro e che la presenza di mia madre lo rendesse più
scattante al
risveglio, come se
ci fosse accanto a lui una persona
di troppo. Eppure negli anni, crescendo, non avevo certo non notato che
i miei
avevano iniziato a dormire insieme molto più spesso e che la
mattina si
alzavano con grande calma: mio padre non era più un
guerriero frenetico e mia
madre non era più la donna in carriera volubile che era
stata nella sua giovinezza. Penso
che la ritrovata maternità, dopo la
nascita di mia sorella, l’avesse rasserenata ulteriormente, e
avevo notato
anche che il rapporto con mio padre era cambiato in certe sfumature,
che lui sorrideva
più spesso, che si isolava meno, che rimaneva con noi
più a lungo in certe
circostanze, che mi coinvolgeva negli allenamenti e nelle sue
conversazioni
adulte più spesso: ero cresciuto, forse mi considerava alla
sua altezza e in
grado di capirlo, e questo mi rendeva contento.
Quella
mattina ad ogni
modo, dopo aver socchiuso la porta del bagno ed aver camminato quatto
quatto
sulla moquet attento a non inciampare nei panni buttati per terra a casaccio, avevo
scorto la
schiena nuda di mio padre sul bordo del materasso e tra le sue gambe
appena scoperte
dal lenzuolo chiaro, altre gambe più sottili e chiare.
Girando attorno al letto
a cui arrivavo a malapena al bordo, avevo visto che mio padre dormiva
e che accanto a lui, a pancia in sotto, riposava anche mia madre. Ed aveva
anche lei
le spalle nude e scoperte. Certo
ai
tempi non avevo colto con malizia la loro nudità celata dal
lenzuolo sciatto,
ma quando mio padre aveva aperto un occhio, perché in
realtà aveva percepito la
mia presenza, ero scappato via con la coda tra le gambe…
Mi
ero vergognato
moltissimo e avevo temuto il momento in cui l’avrei rivisto
durante la
giornata. Mi aveva raggiunto lui poco dopo, captando la mia aura nel
salotto.
“Non
voglio mai più
beccarti a spiare” mi aveva redarguito mentre facevo
colazione e mia nonna
cinguettava in sottofondo come se nulla fosse. “Mi hai
capito, Trunks?”
Avevo
abbassato lo
sguardo annuendo, colpevole…
“Non
volevo farlo, papà”.
“Tu
fa’ in modo che non
riaccada”.
I
miei genitori avevano
una grande e riserbata intimità a cui mio padre teneva
particolarmente. Averla
violata per me era stato un po’ come rubare qualcosa di loro,
un pezzo del loro
amore segreto che io sapevo esistere mentre rimanevo fuori dalla camera
da
letto. Mi ero
sentito a disagio sotto la
sua occhiata severa ma calma, mio padre aveva quello strano e evidente
potere
di farti tremare anche con uno sguardo, con la voce modulata come si
intonano
gli ordini irreprensibili, e solo col tempo ho compreso quanto fosse
radicata
il lui la carriera militare che aveva fatto.
Era
un soldato anche in
famiglia.
Era
schivo e non si
scioglieva, ma dietro quella sua corazza era buono, noi
lo sapevamo, mia madre mi aveva insegnato a capirlo, e
nonostante ci litigasse di frequente, quando lui entrava in una stanza
veniva
attratta da lui come un satellite si lega ad un pianeta a cui vota
l’esistenza:
il loro era un insolito modo di rapportarsi, molto diverso da quello
delle
altre famiglie sotto alcuni aspetti,
ma
nonostante ciò il legame che li univa so che era forte
immensamente. Lo
percepivo anche se non riuscivo né ancora riuscirei a
spiegarlo con chiarezza,
perché era come una carica elettrica che si sente a fior di
pelle. Certe cose
non si possono mettere per iscritto né si possono provare a
raccontare a tono
alto. Certe cose le avverti, sono percezioni che ti rimangono dentro. Come posso spiegare la
profondità con cui mio
padre sapeva guardarla? Io lo spiavo dal basso, delle volte, e sembrava
che i
suoi occhi brillassero di uno strano possesso, e ora che sono un uomo
adulto sono
in grado di comprendere
quelle sfumature
che un legame come il loro faceva affiorare dagli occhi.
Era
il suo modo di
amarla. Lo faceva con gli occhi prima di usare le mani,
perché mio padre non
era un tipo bravo con le parole né tantomeno coi gesti, e
faceva davvero fatica
ad esternare il suo affetto nei nostri confronti, eppure bastava uno
sguardo e
le sue iridi scure sembravano infiammarsi della profondità
dell’universo: posso
leggergli adesso, pur nel ricordo, che talune volte mentre fissava mia madre le
diceva
le cose più belle solo con gli occhi. E lei non cessava mai
di ricambiarlo, ma sembrava fiorisse…
Comunicavano spesso
così, solo guardandosi. E nessuno di noi poteva intromettersi
perché non
conoscevamo quel loro linguaggio.
La
loro intimità era un
avamposto insormontabile e solo mia madre ogni tanto faceva trapelare
la
complicità che li legava: non erano che accenni della sua
esuberanza, momenti
di euforia in cui riusciva a mettergli scherzosamente le braccia al
collo e mio
padre si tendeva a disagio, evitando i nostri sguardi infantili e
importunanti,
perché non l’avevo mai vista stringersi realmente
e con passione a mio padre
fino all’età di diciassette anni. E dirvi che era
stato strano non renderebbe
la sensazione che mi ha pervaso quando come una cosa sola, ho scorto la
loro
sagoma in un unico abbraccio…
Come
vi ho raccontato mio
padre era dovuto andare di nuovo a combattere con Goku ed io, in
quell’occasione,
l’avevo cercato con rabbia perché volevo che lui
mi portasse con sé in battaglia,
che mi osservasse fargli onore mentre mettevo in atto i suoi insegnamenti.
Volevo la
sua stima ottenendola attraverso il combattimento, per me era come
avere la
possibilità di giocarmi l’asso
nell’ultima carta vincente ed essere impedito
nel farlo: lui non mi aveva dato modo di agire, non aveva voluto che lo
facessi, e forse solo la concitazione di mia madre che già
temeva la sua morte
disperandosi, non gli aveva fatto distinguere il mio apprestarmi alla porta. Dall'uscio
semiaperto li avevo poi visti parlare e avevo udito mio padre zittirla. Ero divenuto testimone di qualcosa che non mi avrebbero fatto
vedere
diversamente… Avevo dovuto spiarli pur senza volerlo, per
sapere…
“Piantala
di
preoccuparti. Non posso fare altro che andare, che cosa pretendi che faccia, che
rimanga
qui a guardare?”
“Non
dimenticarti che i
tuoi figli ti amano, se te ne vai sai quanto gli mancherai?”
Lei aveva abbassato
gli occhi. “E quanto mancherai a me?”
Mia
madre gli aveva parlato di mancanza e non nego che mi aveva fatto molto
strano
sentirla rivolgersi così a mio padre, la roccia austera
capace di resistere
forse a tutto ma non al suo volto.
“Non
posso rinnegare
quello che sono. E se vado è anche perchè quella
bestia prima o poi vi ammazza,
lo sai che i terrestri non sono in grado di fermarla”.
Mia
madre si era girata
facendo una smorfia infelice e aveva poggiato la fronte e i pugni
contro il
muro, come se cercasse da quell’appiglio la forza. Mio padre
in silenzio invece
le aveva preso una spalla e l’aveva costretta a voltarsi. E poi contro il muro le
aveva detto qualcosa
che non avevo distinto, forse un guardami
a cui mi madre aveva risposto alzando solo lo sguardo.
Piangeva.
“Non
trattarmi come se
fossi una debole… Non lo sopporto” lo aveva
redarguito con la voce tremante.
La
dolcezza di mia
madre era infinita, ma nonostante ciò rimaneva immutata la
sua forza interiore,
quella sua percepibile grinta che la rendeva capace di essere la moglie
di un
uomo come mio padre.
Lui
dal canto suo l’aveva
guardata un lungo istante, poi con le dita ruvide aveva cancellato la
scia di
lacrime sulla sua guancia e mia madre in risposta aveva posato le mani
sul suo
petto. Era stato strano vederli comportarsi con quella franchezza, con
quel
sentimento che non avevo mai scorto, non così, non con tale
spudoratezza che
per gli altri era parte della normalità e per me invece
dell’assurdo. Con le
orecchie spalancate e con avidità, nascosto dietro la
striscia di luce che
proveniva dalla porta, avevo spiato quel momento cercando di sentire i
loro
discorsi. Stavo venendo meno agli ordini di mio padre. Li stavo spiando di nuovo, come tanti anni prima...
“Tu
sei forte dentro,
donna.”
La
chiamava così ogni
tanto, lo faceva quando in lui il principe saiyan prendeva il
sopravvento,
quando si arrabbiava o quando le stava dicendo qualcosa di importante.
Era lo
strano modo di esprimersi di mio padre, di rappresentare il suo secondo
volto,
di sentirsi ancora nel proprio mondo antico, vicino alle sue radici
guerriere.
Ciò che si apprende in infanzia del resto è duro
a morire nella mente.
E
credo che in rimando
mia madre gli avesse mormorato abbracciami
, non riuscivo a leggerle con chiarezza le labbra ma mi era sembrato di
interpretare così quel movimento, perché mio
padre all’improvviso le aveva
preso le spalle, le aveva agguantate con decisione come se volesse fare qualcosa, ma lei l'aveva anticipato e dopo qualche istante gli si era stretta addosso. Non saprei neppure descrivere
com’è stato
vedere le mani di mio padre, il guerriero capace di trucidare
impietosamente,
aggrappate alla schiena di mia madre con quella forza, come se volesse
distruggersi con lei; scorgere i polpastrelli ruvidi e callosi
stringere il
tessuto della canotta e
poi cogliere -
con timidezza che ancora sento - il suo capo selvaggio avvicinarsi al
suo volto
e vederlo insinuare il naso tra i suoi capelli, all’altezza
dell’orecchio.
Aveva annusato in un respiro il suo odore, lo avevo visto,
l’aveva respirato
come si inspira l’aria in alta montagna: a polmoni
completamente aperti,
profondamente, e mia madre l’aveva stretto a sua volta con
le braccia
aggrappate alla sua schiena enorme senza riuscire a trattenerlo. E
giuro che
abbracciandola con quella forza disperata sembrava averle urlato sei la luce della mia vita in tutte le
lingue
del mondo ma con una fierezza immane e assurda.
“Non
aspettarmi, Bulma”.
Gliel’aveva
detto come
si pronuncia un verdetto o una condanna, con quel tono assolutista di
un
monarca che mio padre sapeva avere all’occorrenza, ma so che
era stato il suo
modo di dirle che l’amava senza provare vergogna. Non aveva
aggiunto
nient’altro, aveva preso da lei le distanze trovando il suo sguardo
disperato che
aveva ricambiato con serietà assoluta e inequivocabile. Se
ne stava andando,
niente di più facile per mio padre l’averla
così distrutta, con quella scelta. Ne sono stato certo dopo aver visto negli occhi di mia madre guizzare una luce d'ansia e disperazione.
Lei aveva cercato
di trattenerlo con la forza di parole che erano uscite dalla sua bocca e dall'espressione amareggiata con rabbia e tristezza. “Le vostre guerriere seguivano
i loro compagni in battaglia… No? Per te sono solo un peso perchè sono una
terrestre, non è così?”
Lui si era fermato sull’uscio calamitato da un qualche pensiero sorto nella sua mente senza preavviso, scoppiato come una stella che collassa, e si era girato verso di lei. Una parte del mio cuore aveva sperato che avesse cambiato idea, che forse il suo orgoglio immenso lo lasciasse cedere alla richiesta di mia madre di rimanere, ma mio padre le aveva solo lanciato uno sguardo strano, complice eppure duro, e ricordo la sua voce ferma e sicura, senza un minimo accenno di debolezza. Aveva un tono profondo.
“Tu
per me non sei
una guerriera o una terrestre. Tu sei mia
moglie. È molto
diverso”.
Continua…