Le cucine
«Secondo me è un po’ stupida.» Commentò Anton con
una vocetta petulante, guadagnandosi uno scapaccione da sua madre. Una sberla
leggera, quasi una carezza. Ben diversa dalle sberle che le dava la sua, di
madre. «Ma non dice una parola! Secondo me non sa parlare.»
«Ma certo che sa parlare! È solo un po’ timida.
Vero?»
Si limitò a guardare nel suo piatto in perfetto
silenzio. Cenava sempre a casa della signora Agnes, al piano di sotto. Era una
donna gentile, che però puzzava di pesce, come tutte le persone che aveva
incontrato nella nuova casa.
Anche suo figlio Anton di solito era un bambino
simpatico, che faceva di tutto per coinvolgerla nei suoi giochi spericolati,
però quella sera era un po’ petulante. Doveva essere perché il tatuaggio faceva
male anche a lui.
La signora Agnes li aveva accompagnati a ricevere
la runa quella mattina, in mezzo a un gruppo di bambini che urlavano e
piangevano mentre l’ago trapassava la loro pelle delicata. Anche Anton aveva
pianto e urlato, ma lei no. Era rimasta zitta e ferma, e aveva ricevuto un
sacco di lodi.
«Perché ce l’hanno fatto?» Quasi non si accorse
di aver parlato, ma la prima frase che diceva dopo più di un mese non poteva
passare inosservata. «Ecco, vedi che parla? Hanno fatto cosa, tesoro?»
Allungò il braccio, mostrando il disegno sinuoso. «Questo.»
«Quello è il simbolo del nostro rione, Sianel.
Serve perché così tutti ti riconoscono, e tu non ti dimentichi mai di dove sei
nata. In più ti protegge dalle cose brutte.»
«Ma io non sono nata qua.»
«Beh… non importa, perché sei qua adesso, ed è
qui che andrai a scuola e diventerai grande.» Spiegò con tono ragionevole. «Ma
io voglio tornare dov’ero prima…» Dov’era prima? Iniziava a dimenticarlo.
Ricordava solo fiori e risate, invece del silenzio che c’era in casa sua
adesso.
Un rumore li fece sobbalzare tutti e tre, mentre
un uomo grande e grosso entrava in casa sbattendo la porta. Di solito Luis
Acquafredda era un uomo tranquillo, con la faccia accartocciata dal sole e da
un perenne ghigno furbesco, ma quella sera sembrava agitato.
«La accompagno di sopra. Tu metti a letto Anton.» Disse subito Agnes, alzandosi da tavola e facendole cenno di seguirla. Le trotterellò dietro fuori dalla porta, nella strada buia, e poi su dalle scale sconnesse che portavano all’appartamento cercando di non far rumore. «Ricorda, se tua mamma si arrabbia vieni giù da me. Non starle fra i piedi. Capito?» Annuì, seria, e Agnes le diede una rapida carezza, prima di tornare al piano di sotto.
Emma
stava giocherellando distrattamente con la penna, fissando il soffitto
affrescato. Dei bambini con delle alucce bianche grassi come polli arrosto
facevano capolino da alcuni striscioni, recanti apologie sul patrono Aristides
II che aveva fatto costruire quell’ala dell’accademia tanti secoli
prima.
Ironico
che proprio il costruttore di quel luogo non l’avesse mai visitato: i membri
della famiglia patronale non potevano mai abbandonare il palazzo e i suoi
giardini. Al massimo, nelle occasioni speciali, si affacciavano al balcone.
La
lezione di etica politica era certamente quella che le piaceva meno, e non
riusciva a impedire alla sua mente di divagare. Forse era meglio così: se si
fosse concentrata sarebbe stata costretta a sentire le continue frecciatine che
la professoressa Bramhs lanciava a lei e a Yuri, per il tremendo crimine di
essere uscite dalla loro cerchia sociale originale.
Ogni
anno solo otto persone provenienti dai quattro rioni avevano la possibilità di
iscriversi all’accademia. Sempre ammesso che raggiungessero i severi requisiti
per ottenere la borsa di studio, quindi di solito erano solo in sei: era
rarissimo che qualcuno di Sianel ci riuscisse. O anche solo che ci provasse: erano troppo orgogliosi per sopportare lo snobismo delle gilde e dei
nobili rampolli del Cuore, quindi, saggiamente, si tenevano lontani dai guai.
Da
quel che sapeva lei erano almeno dieci anni che nessuno del suo rione veniva ammesso
alla scuola, e questo l’aveva resa l’ultimo gradino della scala sociale. Quello
su cui tutti si puliscono gli stivali sporchi di cacca di cavallo. La cosa
positiva, però, era che se i professori potevano fingere di non averla in
classe lo facevano, quindi nessuno l’avrebbe rimproverata se si fosse
distratta.
Stava
dedicando qualche piacevole minuto a pensare al pranzo imminente, quando un
pezzetto di carta che le colpiva il gomito la strappò ai suoi sogni di pane
fragrante, carne succosa e pasta con le vongole, come quella che preparava
Agnes nei giorni di festa.
La
voce monotona della professoressa, che spiegava come l’amministrazione centrale
stabiliva in maniera assai saggia ed equilibrata le quote di produzione che i
rioni dovevano raggiungere, si aprì sgradevolmente un varco nella sua mente. Si
guardò attorno per vedere chi le aveva lanciato il bigliettino, e vide Yuri che
le faceva segno di leggere.
“Ti ho fatto arrabbiare?”
Emma
la guardò perplessa, sollevando un sopracciglio. Non avrebbe mai sospettato che
a Yuri interessasse se era arrabbiata o no. Non avrebbe mai sospettato nemmeno
che Yuri sapesse cos’è la rabbia.
Tutta
quell’attenzione al suo stato d’animo, così, da un giorno all’altro? Da parte
di una persona che non chiede a nessuno “come va”, nemmeno per formalità?
Decisamente strano. Trattenne un sospiro e aggiunse la cosa alla lunga lista
delle stranezze di Yuri, cercando di assumere un’aria più allegra, e negò
decisa, con un solo movimento del capo. Yuri parve subito rincuorata e non
indagò oltre.
Per
quanto fosse stata carina a preoccuparsi, preferiva mantenere un certo
distacco: se qualcuno si preoccupa per te come minimo devi restituire il
favore, ed Emma non avrebbe saputo da che parte iniziare.
Appena
finite le lezioni Yuri ritirò le sue cose leggermente più in fretta del solito,
tanto che Emma dovette aspettare solo un paio di minuti prima che la seguisse
nei tortuosi corridoi secondari che conducevano alle cucine.
Le
piacevano le cucine: il vapore, l’odore di fumo e di cibo, la folla di cuoche
che chiacchieravano… tante cose che rendevano facile passare inosservata e
rubare un po’ di cibo extra per rifarsi di quello perso a colazione. Infatti
appena entrarono, allungò una mano verso il cestino del pane, pronto per essere
portato in refettorio, quando qualcosa la fece bloccare a metà del gesto.
Anche Yuri,
a giudicare dall’espressione attonita, si era accorta che qualcosa era diverso
dal solito. Almeno metà delle massaie erano raccolte attorno a Jane, che
singhiozzava con discrezione. Le altre lavoravano con la solita efficienza, ma
in silenzio.
Jane
era una delle cameriere più giovani: aveva al massimo una decina d’anni più di
loro, ed era sempre allegra ed energica, con il volto lentigginoso e gli occhi
scuri.
Raggiunsero
la loro postazione di pelapatate in silenzio, mentre Emma, incuriosita,
aguzzava le orecchie.
«Ci
siamo passate tutte… doveva succedere prima o poi… sacrificio necessario…»
Non ci
volle molto perché Emma capisse. «Secondo figlio.» Osservò Yuri dando voce ai
suoi pensieri con insolita acutezza.
I
figli secondogeniti erano destinati ad essere un tributo alle mura, come gli
orfani, i bambini illegittimi e i figli dei criminali. Nell’inverno del loro
terzo anno di vita venivano marchiati con la runa che li indicava come morti
viventi e portati via. Venivano allevati nelle zone interdette fra la cinta di
mura interna e quella esterna, per poi diventare soldati o minatori.
Un sacrificio doloroso ma necessario, che ogni
cittadino coscienzioso deve compiere per la sicurezza e la prosperità della città
stessa. Era
scritto così in tutti i libri di storia, con ridicole parole pompose.
Emma
non si capacitava di come potesse essere possibile mettere al mondo un figlio
solo per vederlo sparire dietro le mura, mandato a combattere… cosa? Ignoti
nemici dell’umanità, di cui non era nemmeno permesso parlare? Era soprattutto quello
che non sopportava, il non sapere. Per quello aveva deciso di non avere figli e
di non avere una famiglia, barattando queste cose con il sapere che l'accademia le offriva.
«Oh …
ahia» Emma sussultò, strappata ai suoi pensieri, e si girò verso Yuri, che si
osservava assorta un lungo taglio sul dito. «Fai attenzione Yuri, almeno quando
maneggi i coltelli!»
Le
premette un panno da cucina sulla mano tremante. Era difficile vederla meno che
impassibile, ma a quanto pare quello era un giorno di prime volte. Il
canovaccio si macchiò in fretta di sangue.
«Che
combinate voi due?» La capo cuoca si avvicinò a grandi passi. «Vai a farti
medicare bimba. A nessuno piacciono le patate al sugo di sangue.» Yuri annuì,
stringendosi il dito ferito. «E tu accompagnala.» Aggiunse più bruscamente,
rivolta ad Emma. «Non sembra che stia molto bene.»
Emma
uscì a testa bassa tenendo la compagna per il gomito. «Mi dispiace Emy. Ti
faccio saltare anche il pranzo.»
Aveva
un tono così triste che la fece preoccupare. Bisognava mettere un freno a
quell’atmosfera da confidenze. «Non importa.» Rispose secca e decisa.
Una
persona normale avrebbe cercato di capire qual era il vero problema… Forse
avevano ragione quando dicevano che gli abitanti di Sianel avevano la
sensibilità di una triglia dall’occhio spento.
L’infermeria
era vuota, Emma pensò con un po’ d’invidia che l’infermiera probabilmente stava
pranzando, mangiando riso e stufato… chiudendo gli occhi ne sentiva ancora
l’odore.
Aspettò
un minuto, impaziente, poi frugò nei cassetti, si servì abbondantemente di
bende e disinfettante e si sedette davanti alla compagna, prendendole la mano. Non
poteva lasciarla lì se non voleva essere affettata dalla capocuoca (Yuri era la
sua aiutante preferita), ma nemmeno aveva voglia di aspettare per tutta la
pausa pranzo.
Yuri
non protestò e non disse nulla. «Hai fratelli o sorelle?» Lo chiese così, senza
rendersi conto di aver parlato, guidata da una curiosità che l’aveva tradita
più di una volta.
Stai zitta, cosa ti salta in mente di chiedere? Si rimproverò irritata,
maledicendosi. Se non voleva confidenze, ecco, quella era proprio la domanda da
non fare.
Yuri
rimase in silenzio, ed Emma si stava chiedendo sollevata se l’avesse offesa e
se il discorso sarebbe morto lì, ma nonostante lo sguardo un po’ velato Yuri
parlò con la stessa voce soave di sempre. «Un fratellino. Adesso avrebbe sette
anni.»
Avrebbe, non ha. La sua sensazione venne
confermata: Yuri era turbata perché vedere Jane piangere per il secondo genito
doveva aver risvegliato ricordi dolorosi.
L’aveva
sempre considerata una specie di buffo animaletto distratto, incapace di
emozioni profonde, e improvvisamente si sentì in colpa.
Voleva
dire qualche frase di conforto, tipo è un
onore poter difendere le mura, però le risultò impossibile. Qualcosa le
fece credere che se avesse detto una cosa del genere le corde vocali le
sarebbero andate a fuoco per protesta, per cui rimase zitta finché non ebbe
finito di medicarle il taglio.
«Comunque…
non ero arrabbiata oggi. Sto bene.» Assicurò un po’ goffamente ricordando il
bigliettino.
Yuri
sorrise «Meno male!» Poi iniziò a canticchiare e a far dondolare le gambe.
Beh,
se la sua crisi di tristezza passava così in fretta, allora era davvero una
specie di buffo animaletto. Un buffo animaletto psicopatico.
Le
venne da ridere, una risata strana e improvvisa che non riuscì a trattenere, e
provò un’ancora più inaspettata ondata d’affetto per quella strana ragazza.
E ora cosa pensi di fare? Vi volete fare le
treccine a vicenda scambiandovi confidenze sui ragazzi più carini della scuola?
La rimproverò
irritata una voce forte e chiara nella sua testa. Si sentì improvvisamente in
imbarazzo, e quando ebbe finito di mettere via tutto e si ritrovò senza nulla
da fare il suo imbarazzo crebbe ancora di più. «Emy, vai pure … se ti sbrighi
trovi ancora qualcosa da mangiare.»
«E tu
non vieni?» Yuri scosse la testa sorridendo. «Ho delle cose da fare.»
Emma
non perse l’occasione per scappare veloce come un fulmine e mettere più
distanza possibile fra lei e una qualsiasi manifestazione umana di sentimenti. Fino
a quel momento era andata abbastanza d’accordo con Yuri proprio perché il loro
rapporto mancava di qualsiasi profondità. Si tolleravano, si salutavano e
avevano gli stessi turni di corvè.
Ed era
determinata a fare in modo che le cose restassero esattamente così, diversamente
sarebbe stato deludente e doloroso per tutte e due. Poi ovviamente Yuri voleva
stare sola. Lei avrebbe voluto stare sola, lo voleva sempre. Era il suo più
intimo desiderio essere lasciata in pace, a bollire nel suo brodo senza doversi
preoccupare di chi le stava intorno.
Ma vorrei anche che qualcuno, almeno ogni tanto, si
rifiutasse di lasciarmi e mi rimanesse accanto. Pensò chiudendosi la porta
alle spalle. Che le stava succedendo? Stava diventando sentimentale? Da un
momento all’altro si sarebbe ritrovata a leggere stucchevoli poesie d’amore e a
giurare amicizia eterna a chiunque le dicesse “ciao”? No, quella non era lei. Di
sicuro Yuri sarebbe stata bene. Era Yuri, non una persona comune.
Solo una cosa adesso avrebbe potuto aiutarla ad allontanare subito quella sgradevole ondata di umanità: la biblioteca.
Hohey!!
Ho pubblicato il secondo capitolo in due giorni, poi probabilmente sparirò per un po' perché parto e non so se potrò usare internet o no.
Potrei non farmi più viva per due-tre settimane. Vi appioppo sti due capitoli revisionati (se riesco magari anche tre) e poi ci vediamo quando torno! Se torno. Buone vacanze! ---- 羽毛