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Autore: visbs88    06/09/2014    1 recensioni
Caroline aveva trovato un nome ai propri fantasmi: li chiamava “ombre di ghiaccio”.
Un delitto, bugie, intrighi, orrori: al suo ritorno a New York da un viaggio in Europa durato un anno, una giovane critica d'arte dovrà affrontare ricordi del passato e violenze del presente, mentre i suoi spettri si agitano e accolgono tra loro nuovi compagni pronti a distruggerla.
E lei non è mai stata forte.
[Scritta per il contest Giallo a scelta multipla indetto da Faejer sul forum di Efp]
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Ringraziamenti: grazie mille a Victoria_Missa per aver messo la storia nelle ricordate, a zzzrosazzz per aver recensito e alla giudice del contest per la valutazione del primo capitolo ^^ spero che il secondo sia all'altezza. Buona lettura! ^^

 

 

 

2. In the blood

 

Dove sei?”.

Caroline aveva suonato il campanello e non aveva ricevuto risposta; aveva dovuto, allora, trasportare a fatica i bagagli nell'androne, da sola, fino all'ascensore; ve li aveva stipati dentro con difficoltà. Era sudata per il caldo e gli occhi le bruciavano per il pianto. Aveva tirato fuori le valigie mettendole davanti alla porta dell'appartamento, che era chiusa, impassibile di fronte al suo ritorno. Ne fu ferita. Come poteva combattere ricordi e amarezze, se nessuno la accoglieva con quella dolcezza in cui lei aveva risposto ogni sua speranza, se si aggiungeva una nuova delusione a quella che già l'affliggeva? Era forse un pensiero troppo egocentrico, troppo egoista, questo? No, perché tra pensare a se stessa e pensare a lei non esisteva differenza alcuna: ognuna era entrambe – o così credeva.

Dove sei?” si chiese, facendo scattare la serratura.

Dov'era il sole?

Mosse qualche passo all'interno della prima stanza. Non riuscì a respirare a fondo l'avvolgente odore di legno, orchidee e libri, a riconoscerlo come quello di casa, come in momenti romantici e malinconici aveva sognato; non provò gioia nel guardare i mobili, le lampade, le poltrone e i quadri. Mancava chi aveva costruito insieme a lei tutto ciò, la voce identica alla sua a sussurrarle il benvenuto, la figura che aveva il suo medesimo modo di camminare e allargare le braccia per stringerla.

Mancava l'abbraccio. Mancava la luce e ogni tinta scelta con tanto gusto sbiadiva di fronte al vuoto.

Dove sei?” si chiese, rimanendo immobile nel silenzio.

Nel momento più importante Rosaline la stava lasciando sola. Dita spiacevoli, dure e fredde, si serrarono attorno al suo cuore, mentre Caroline ammutolita guardava e non vedeva. “Sarò giù ad attenderti, non un secondo andrà sprecato”: non le era stato detto così? Non avevano descritto, immaginato, programmato insieme ogni attimo di quel rientro? Possibile che il loro progetto fallisse in maniera così misera?

Muovere le labbra, cercare di chiamare ad alta voce il nome tanto amato, tentare di vincere il peso nel petto e nella gola avrebbe significato rompere in maniera troppo brusca il silenzio che le sibilava nelle orecchie. Non lo desiderava: si sentiva isolata e immersa in un'atmosfera astratta di cupa irrealtà che impediva alla verità di ferirla.

Percepiva se stessa come un fantasma e tale avrebbe voluto essere: scivolare senza sforzo sul pavimento e lungo le pareti, muoversi senza peso, senza costringere i muscoli a tendersi e le sue scarpe a frusciare sui tappeti. Quei sussurri che causò al suo passaggio, inevitabili per quanto lievi fossero i suoi passi, furono piccoli graffi sulle sue tempie: riecheggiarono insieme allo scricchiolio di un mobile, ricordandole piano ma con fermezza che esisteva lei ed esisteva quell'abbandono ed esisteva quel sogno, che il tempo scorreva e gli oggetti potevano essere toccati.

Il ghiaccio gorgogliava tra le sue viscere. Quel vuoto era troppo denso. Rosaline non c'era.

Si diresse verso le camere da letto, la parte più lontana della casa, da cui forse Rosaline avrebbe potuto non accorgersi del suo arrivo, anche se avrebbe dovuto aspettarla con animo fremente e cuore traboccante di affetto, come il suo. Il sole del pomeriggio inondava anche quelle stanze.

Il ronzio di una mosca riempì l'aria. L'insetto scuro svolazzò davanti agli occhi di Caroline per poi entrare, goffo e nero, nella stanza che non la vedeva da un anno ma che rimaneva sempre sua, sua e di Rosaline, due letti affiancati, due cuscini, due armadi, due gemelle a riposare nella pace della vicinanza.

Caroline si accinse a seguire la piccola creatura e il ronzio crebbe di volume, come se nella camera essa avesse trovato almeno altre due compagne.

Cosa...?” si domandò, prima di affacciarsi sull'uscio.

E Rosaline era lì.

Aveva le braccia aperte, come nei loro desideri. Tese sul letto, a cingere coperte macchiate di rosso.

Caroline si vide morta.

Vide se stessa e il volto pallido, le labbra socchiuse, gli occhi sbarrati che avrebbe avuto; vide il proprio sangue scorrerle sulla guancia e lungo il collo, insinuarsi sotto la maglia e fermarsi lì, vicino al seno, in quella macchia scura come un livido e orlata di rosa, là dove la sua tinta sfumava; vide le mosche affaccendarsi sul buco sulla sua tempia, come se volessero penetrare in lei, nella sua testa, scavare nella carne distrutta e bruciata.

Vide la fine.

Tante, troppe volte aveva letto del gelo che invadeva le membra, del torpore, del cuore che si riempiva di schegge fredde e acuminate come acciaio, come sintomi poetici e raccapriccianti del momento estremo. Li provò, li sentì. Lasciò che la invadessero, che prendessero pian piano possesso di ogni briciola di lei, di quella statua calda e immobile che rimase per decine e decine di secondi a fissare la propria morte. Lasciò che comparissero ombre di fronte ai suoi occhi. Infine, cadde.

Nell'urto doloroso delle ginocchia sul pavimento, nei capelli che le scivolarono davanti al viso, nelle mani che in un riflesso immediato si appoggiarono a terra per impedire alla testa di ferirsi, nel respiro che le si mozzò e la soffocò sentì la vita fluire in tutta la propria potenza. Il cuore martellava furibondo, il sangue ribolliva, il ghiaccio si sciolse in lacrime di neve, il freddo morse, strappò, smembrò, si dibatté con rabbia nel suo petto nella disperazione e nel folle desiderio di infliggerle tutto lo strazio che doveva provare. I fantasmi urlarono e lei emise un rantolo, ma nulla di più, assordata, strisciando fuori dalla sua tomba, appoggiandosi alla parete del corridoio, stringendosi le ginocchia al petto in uno spasmo incontrollabile. Strilli acuti come di demoni le dilaniavano le orecchie e la mente; serrò gli occhi tanto forte che anche le sue palpebre iniziarono a gemere di sofferenza, mentre le sue labbra erano aperte in un grido muto, la fronte sulle gambe, il buio a circondarla, le ombre di ghiaccio che danzavano e ferivano – e ormai non c'era più alcun sole in mezzo a loro.

Tutto era tempesta, grandine, voragine, orrore. Mai più un sorriso sincero ad allontanarle e darle conforto, mai più il caldo ad avvolgerla, mai più... mai più se stessa. Aveva cessato di esistere. Era a metà, mutilata, squarciata – un braccio una gamba un piede una sola. Una lastra affilata si era abbattuta su di lei, ghigliottina implacabile. Un'ascia aveva reciso quella parte del fusto del suo albero che più era necessaria a sorreggerla. Lei era foglie, rami, radici senza alcuna simmetria. Aveva perso il suo riflesso, la sua anima.

Tra tutte le ombre di ghiaccio Rosaline era ora quella che la guardava dritta negli occhi, pallida e livida e chiara e morta, con l'espressione congelata nella fine, vicinissima e irraggiungibile.

Irraggiungibile.

Eppure dovevano stare fianco a fianco. Dovevano. Era inevitabile. Caroline voleva andare da lei.

Questa consapevolezza crebbe lenta, ma inesorabile. Aveva sempre più freddo ed era sempre più rigida. Il tempo la guardò indifferente e continuò a scorrere, lei lo ignorò a propria volta. Lo lasciò passare, minuto dopo minuto, a lungo, a lungo, a lungo, soffrendo. Desiderando Rosaline.

Quanto insignificante sembrava l'ombra di ghiaccio che tanto aveva invaso i suoi pensieri solo poche ora prima. Era lì, sbiadita, mentre Rosaline risplendeva. Caroline le si stava avvicinando senza accorgersene – alla luce accecante della finestra. Didone come se Anna fosse partita insieme ad Enea verso il mare infinito e l'eternità.

Didone che guardò verso il basso, oltre il davanzale, guardò la sua pira di cemento e automobili e passanti, lontani tre piani da lei. Alzò una gamba, cercò di scavalcare. Rimase in bilico, protesa verso il sole, sentendosi già fumo e terra fredda.

– Ehi, lei! Ehi! Ferma! Ferma! Quella ragazza! Ferma!

Un uomo sbraitava, una donna strillò. Bastò solo questo.

Caroline sussultò e si ritrasse. La luce sbiadì per diventare il grigio della città, il torpore divenne dolore, lei cadde sul pavimento del salotto, sbatté la testa contro il divano, si aggrappò al bracciolo per risollevarsi, rimase seduta contro il muro, il respiro affannoso, gli occhi ciechi.

Perché?” si domandò. Perché tenerla divisa da se stessa? Perché non lasciarla porre rimedio all'orrore? Perché far sorgere nel suo cuore quella paura che un attimo prima era solo aleggiata incorporea attorno a lei – quel terrore che le attanagliava lo stomaco, che le rubò con inaudita violenza il respiro un'altra volta, che la fece tremare, rabbrividire, piangere. Il nero perpetuo, il nulla, la fine assoluta, abbandonare ogni sapore, ogni odore, ogni attimo, quel nero orribile...

Non sarebbe più riuscita a correre verso Rosaline, a correre per riprendersi il suo essere e la sua vita. Non ora che tanto sgomento era riuscito a invaderla, non ora che capiva, non ora che nessuna sofferenza e nessuna perdita sarebbero riuscite a vincere la sua codardia. Era stata sull'orlo della più effimera prova di forza, ma ormai la sua schiacciante debolezza non le avrebbe più consentito di rischiare di nuovo a testare il suo coraggio. Rosaline fluttuava più fredda che mai – ma era Rosaline, semplicemente Rosaline. Ciò che di più importante il mondo le aveva donato e poi tolto, ciò che aveva più valore di ogni briciola d'arte in quel loro infame universo, ciò che era stato bellezza e calore, ma che rimaneva Rosaline. Non Caroline.

Rosaline era morta. Caroline era viva. L'aveva saputo quasi subito, lo accettò solo allora.

Il freddo non si dissolse, non ci fu sollievo né pace. Solo una nuova immobilità, una nuova posizione rigida in cui rimanere ad ascoltare i secondi passare scanditi dai lamenti delle ombre di ghiaccio, dalle ferite che con ritmo lento e costante sanguinavano sempre più e la scavavano, divorandola.

Le sirene ulularono sotto casa sua. I poliziotti trovarono le valigie e la porta aperta, irruppero con chiasso, si precipitarono su di lei, che rimase inerte mentre le domande si agitavano come onde che correvano a infrangersi sullo scoglio del suo silenzio. Li guardò con occhi vacui. Condannata a vivere spezzata, rotta, un vaso in frantumi di cui erano stati rubati la metà dei cocci. Lo scoprirono presto.

In breve nelle loro parole ininterrotte e confuse come i flutti di un fiume in piena si intromise l'argomento di un cadavere, di là, nella camera da letto, un'altra giovane donna, molto simile, anzi del tutto identica. Un delitto, un colpo di arma da fuoco alla testa. Erano concitati, erano stupiti, erano disgustati. Provavano un dolore così insulso da far addensare dentro di lei il gelo più cupo.

Mandarono a chiamare esperti. Nel frattempo, bisognava occuparsi di lei.

– Signorina, si sente bene? Signorina, mi sente?

Caroline annuì senza guardare.

– Si sente bene?

Annuì di nuovo.

– La vittima... è sua sorella?

Lo guardò. Vide una sagoma incombente e gentile, un corpo confuso.

– Può... dirmi i vostri nomi?

– Caroline – sussurrò – io sono Caroline.

– Va bene, signorina. L'ambulanza è stata chiamata e sarà presto qui anche per lei.

Il poliziotto si allontanò.

– Omicidio e tentato suicidio? Avete trovato la pistola in casa?

– No, non credo che la ragazza ce l'abbia addosso e la perquisizione completa dovrà aspettare l'arrivo dei detective.

– Pensate davvero sia stata lei?

– Si trova in uno stato di shock fin troppo allarmante. Guardala.

– Amico, forse era la sua gemella. Shock è un eufemismo. E il movente?

– Bisognerà interrogarla.

– La portiamo con noi?

– L'ospedale è il luogo più adatto ad accoglierla. Ma ci farà visita presto. Il suo sguardo non mi piace.

– Pensate che dovremmo arrestarla? Voglio dire, che possa scappare?

– Non sembra nelle condizioni di scappare.

All'inizio era rumorio, confusione, un sottofondo non richiesto al suo dolore. Tuttavia le parole a poco a poco presero forma nella sua mente, che la costrinse a registrarle, ricordarle, capirle, sempre con qualche secondo di ritardo, come se dovessero essere tradotte da un interprete impacciato. Penetrarono in lei, acquistarono un senso – fecero infine sorgere una domanda semplice e terribile, la prima che sarebbe dovuta affiorare e invece si era persa negli abissi del tormento, dell'oceano ribollente e schiumante che l'aveva travolta. Una sola parola, breve. La risposta conteneva tutto.

Chi?”.

Gli occhi vacui di Caroline recuperarono un'espressione, una scintilla di umanità. Non si sentiva meglio, ma ricominciò a riflettere.

Chi? Non lei, come la polizia credeva – follia, follia tanto assurda che solo sfiorarla con il pensiero rischiò di spezzarle il cuore. Quegli uomini avrebbero forse potuto infliggersi da soli coltellate, sfregiarsi, straziarsi, ma lei no. Lei aveva posseduto l'amore più profondo, così assoluto da essere certa che loro non ne avessero mai provata neppure una briciola. Distruggere quell'affetto così incontenibile, quel legame che era dono e ossessione e sollievo, annientarlo con le proprie mani era una bestialità così orripilante che perfino le ombre di ghiaccio si agitarono per distogliere la sua fantasia da un sogno tanto turpe. No, erano state altre mani, altre dita, un'altra mente a partorire l'incubo. Chi?

Tanti dei suoi fantasmi erano vivi, anche se ridotti a un'esistenza da spettri lividi nei recessi del mondo e della sua memoria, ma nessuno la odiava, o le odiava, o le aveva odiate. Si erano distrutti da soli, le gemelle mano nella mano li avevano guardati sparire senza poter impedirlo, ma non avevano mai ferito. Erano sopravvissute pure, senza scivolare nel liquido viscoso che erano inganni, depravazione, perversione. Scrivevano. Avevano mai rovinato qualcuno? No – se non suscitava emozioni, un'opera non era degna di essere descritta e capita; se deludeva, venivano offerti consigli con grazia, gentilezza, armonia. Tuttavia il precipizio era sempre così vicino che cadervi per un errore del tutto inconsapevole era un'eventualità tremenda, ma non impossibile.

Chi? Non era successo, come accade che una mela cada per sbaglio o che un cuore si fermi perché stremato dal suo compito incessante e faticoso; non era capitato per un caso crudele, come tante disgrazie nel suo passato. Era stato commesso. E da qualcuno.

Quello avrebbe dovuto essere il momento in cui l'eroina, affranta e forte, alzava la testa con disperato coraggio e iniziava a combattere, fiera, determinata, disposta a distruggersi e ad affrontare ogni pericolo per giungere alla verità, quella parola sacra e solenne. Ma Caroline era già distrutta e soprattutto Caroline era debole. Si alzò lentamente – le voci si zittirono –, si assestò sulle gambe tremanti, guardò gli agenti stupiti e tesi. Mosse qualche passo, il corpo la sostenne con garbo e non la tradì. Parlò piano.

– Non ho bisogno dell'ambulanza. Devo camminare.

– Signorina – le rispose un agente – Non possiamo lasciarla andare.

Lo fissò dritto negli occhi.

– Ho paura.

– Stia tranquilla...

– Ho paura della morte. Non lo farò di nuovo.

Riusciva a percepire l'assenza di colore nella propria voce. La polizia la osservò seria e poi svanì: uno, due, tre passi ed erano dietro di lei, nella sua casa a sorvegliare il suo cadavere, la lasciarono andare perché la videro fredda, viva, lucida e debole, sarebbe stato facile ritrovarla, non avevano prove. Lei si sarebbe lasciata andare per questo.

Le dita si strinsero attorno alla borsa abbandonata sopra una valigia, le gambe sottili la portarono in strada, dove respirò.

Che cosa pensava? Era a metà. Non poteva fare nulla. Sapeva di non voler andare in ospedale, che non sarebbero mai riusciti a trascinarla lì, che nessuna ragione e nessun motivo l'avrebbero portata in quell'inferno bianco – la mamma v'era entrata fragile e ne era uscita in frantumi, convinta della propria debolezza, convinta a non risollevarsi mai più, convinta di avere bisogno di cure e dottori e medicine, convinta a rinchiudervisi. Le ombre di ghiaccio distruggevano il cuore, ma insegnavano.

Rosaline era morta, Rosaline era stata uccisa, la sua gemella, la sua gemella era svanita. Le vetrine riflettevano una figura integra di donna giovane e completa, eppure – eppure i contorni sulla sinistra apparivano così sfuocati.

Entrò nel loro ristorante preferito.

Se esisteva un modo per non annegare, era inghiottire l'acqua salata e amara, a costo di riempirsene i polmoni, per giungere poi all'aria limpida. Chi? Quella era la brezza.

Una bava effimera che fece tendere la vela del suo io e la sospinse, alla deriva, ma avanti.

Chi?

   
 
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