Sussex
Se
Sherlock
Holmes era innegabilmente il miglior segugio che la Terra avesse mai
avuto
l'onore di ospitare, Irene Adler era tutt'altro che una facile preda da
cacciare.
L'ossessione di Sherlock per la sorella gemella stava portando John
all'esasperazione. Non passava giorno in cui il più giovane
dei fratelli Holmes
non cercasse di mettersi sulle tracce della Donna coinvolgendo l'amico
dottore nella sua personale ricerca di informazioni.
I suoi tormenti nascevano da una semplice domanda: Irene Adler, che a
quanto
pareva aveva frequentato la gemella di Holmes, ne conosceva la reale
identità?
Se la risposta a quella domanda fosse stata positiva, molte cose
avrebbero assunto
tutto un altro senso.
I tentativi di scucire qualche dettaglio alla giovane Holmes si erano
dimostrati vani. La ragazza era un osso duro.
Non aveva ceduto neanche quando Sherlock aveva fatto irruzione a casa
di
Mycroft sapendolo al Club...
Distesa sul comodo letto della stanza che ormai aveva iniziato a
considerare
davvero sua, a casa di Mycroft, suo fratello maggiore, la ragazza stava
facendo
delle ricerche in internet sfruttando il portatile messole a
disposizione.
Se fosse perché Mycroft si sentiva in qualche modo
responsabile o perché
semplicemente era ricco sfondato, le cose non cambiavano: in quella
casa non le
mancava davvero nulla.
Inoltre da quando aveva ritrovato quella che di fatto era la sua
famiglia
biologica, i nemici che le avevano dato la caccia per anni sembravano
essere
scomparsi nel nulla. O, più probabilmente, si stavano
riorganizzando. Essere
sotto la protezione degli Holmes aveva molti vantaggi. Sapeva,
però, che prima
o poi avrebbe abbandonato Mycroft e Sherlock. Quella consapevolezza
creava in
lei un disagio mai provato prima.
Sherlock non fu tanto sciocco da entrare dalla porta principale. Si era
detto
che se davvero sua sorella aveva avuto a che fare con la Donna ed era
piombata
nel cuore del Diogenes Club senza farsi scoprire, non le sarebbe certo
sfuggita
una serratura che si apriva ad un orario molto più che
sospetto.
Fece quindi il giro dell'abitazione per verificare se tutte le finestre
fossero
chiuse dall'interno. Constatato che non c'era via d'accesso facile,
attuò uno dei
suoi tanti trucchetti imparati negli anni e si introdusse quasi del
tutto in
silenzio.
La ragazza non impiegò più di una manciata di
minuti a capire di non essere più
sola in casa. Sherlock Holmes piombò nella sua stanza
avvolto dal lungo
cappotto che lo contraddistingueva e accompagnato da una maschera
inespressiva
dietro la quale si celavano, ne era certa, soddisfazione e un pizzico
di
strafottenza. Era come se i suoi occhi le urlassero "Io sono Sherlock
Holmes e per me impossibile è solo una voce sul dizionario".
Avrebbe fatto
saltare i nervi a chiunque, ma non a lei.
Facendo in modo che lui non la vedesse, nascose il pugnale che non
teneva mai
tanto lontano da sé da non poterlo raggiungere in caso di
necessità.
Uno dietro l'altro e senza alcun preambolo, Sherlock iniziò
a snocciolare una
serie di piccoli segreti appartenuti esclusivamente a sua sorella fino
a quel
preciso momento, stuzzicandola nel chiamare in causa Mycroft e
chiedendole se
il maggiore degli Holmes sapesse realmente chi ospitava in casa.
La verità era semplice quanto inaccettabile per Sherlock:
Mycroft era al
corrente di molte più cose e aveva attinto direttamente alla
fonte.
La gemella non mostrò alcun segno di tensione sebbene la
presenza di Sherlock
la inquietasse. Ogni volta che aveva modo di guardarlo era come vedere
se
stessa con connotati maschili. Non sapeva dire esattamente quali
sensazioni
questo scatenasse in lei.
Al punto numero sei dell'elenco, accadde che fu Sherlock a essere
spiazzato.
«Non essere timido, siediti pure. Vuoi un tè?
Offre Mycroft», si inserì la
giovane donna come se stessero amabilmente discutendo del
più e del meno, come
se lui di fatto l'avesse interpellata o stesse in qualche modo tenendo
una
conversazione bidirezionale con lei.
Ora era lei a fare la strafottente.
La smorfia sul viso di Sherlock tradì irritazione e lei
rimase nuovamente sola
in casa.
Il fatto che né Mycroft, né John
fossero a conoscenza di quell'episodio
aveva arricchito di un elemento la lista di segreti stilata da Sherlock.
Il risultato fu che Sherlock e la sua gemella facevano del proprio
meglio per
evitarsi e ci riuscivano alla perfezione.
Una mattina, prima che Mycroft uscisse di casa, sua sorella lo aveva
fermato
per comunicargli che sarebbe partita per qualche giorno.
Fu come una doccia fredda per il maggiore degli Holmes, tanto
più perché la
sorella aveva già preparato i bagagli e noleggiato un'auto
cogliendolo del
tutto di sorpresa. Ormai aveva iniziato a dare per scontata la presenza
di lei
nella sua vita.
Errore umano, l'avrebbe chiamato non molto tempo addietro.
Quando le chiese ulteriori informazioni, la risposta di lei si
rivelò, però,
una carta vincente.
Non è che Mycroft si adoperasse volontariamente di rimettere
insieme i cocci di
una famiglia, ma di fatto era ciò che stava facendo:
considerato che per
qualche motivo ancora sconosciuto la ragazza voleva relazionarsi
soltanto con
lui e considerato che i genitori attendevano ancora un incontro mentre
con
Sherlock un incontro non era neanche in programma, Mycroft aveva deciso
di
affrontare un problema per volta.
«Tu hai una tenuta nel Sussex», rifletté
sentendo di avere un possibile punto
di svolta praticamente a portata di mano. «Sherlock adora il
Sussex», aggiunse.
Il fatto che Sherlock potesse adorare qualcosa la fece ridere fino alle
lacrime. Commentò quel comportamento appellandosi al pessimo
carattere del
fratello, ma era un attacco isterico in piena regola: anche lei adorava
il
Sussex.
Le proteste dei gemelli, che per una volta furono pienamente d'accordo,
non
valsero a nulla. Mycroft fece in modo che partissero insieme,
viaggiassero
insieme e abitassero insieme per i tre giorni di soggiorno.
La testardaggine, la determinazione e il carisma erano doti di famiglia.
John era un po' scettico e temeva che i due si sarebbero azzuffati
ancor prima
di mettere piede in casa, ma alla fine si convinse che forse
allontanandosi un
po' da Londra Sherlock si sarebbe dato una calmata.
L'occhiataccia che si scambiarono i due gemelli quando si trovarono
davanti
all'auto, per i saluti, non prometteva niente di buono, ma Mycroft era
stranamente fiducioso.
«Le chiavi», disse Sherlock tendendo la mano.
«Puoi scordartelo», rispose lei infilandosi
nell'abitacolo, al posto di guida.
Mise in moto e minacciò di partire senza di lui, cosa che a
Sherlock avrebbe
sicuramente fatto piacere, ma Mycroft e John non lasciarono scampo al
giovane
Holmes che fu costretto a entrare in macchina.
Per un attimo Holmes senior e il Dottor Watson non furono certi che il
ruggito
provenisse dal motore e non dai gemelli.
Trascorsero gran parte del viaggio in assoluto silenzio e questo, alla
fine,
mitigò l'umore di entrambi.
Di tanto in tanto Sherlock sbirciava in direzione di sua sorella.
Aveva i lineamenti meno pronunciati di lui e gli occhi più
grandi ma dello stesso
incredibile colore, le sopracciglia più sottili, le labbra
carnose ma con una
forma diversa, i capelli ricci, neri e corti. Le dita diafane e sottili
sfioravano con delicatezza il volante, come se fosse di cristallo.
Nessun segno
di make-up sul viso di lei, tranne una generosa dose di mascara a
rendere lo
sguardo ancor più penetrante. Lo sguardo fisso sulla strada
neanche
quest'ultima fosse una preda da braccare. L'unico vocabolo che venne in
mente a
Sherlock per descriverla fu "letale".
Lei sentiva addosso lo sguardo di suo fratello, ma non disse nulla.
Pensava
invece a come e quando Mycroft avrebbe raccontato l'intera storia a
Sherlock.
Ciò che gli aveva detto il giorno del loro primo incontro a
Baker Street era
soltanto la piccola parte di una serie di circostanze complesse.
La giovane donna non aveva impiegato molto a capire di essere stata
adottata e
ottenute tutte le informazioni utili era scappata di casa, aveva fatto
perdere
le sue tracce, era volata a Londra dalla Finlandia - sede dei genitori
adottivi
- e aveva trascorso diversi anni nell'anonimato totale. Era una
bambina, ma
sapeva il fatto suo. Una volta assicuratasi che nessuno la stesse
più cercando,
si era messa a raccogliere informazioni sugli Holmes.
Non aveva mai saputo perché esattamente i genitori avessero
deciso di liberarsi
di lei, motivo per cui non aveva ancora voluto incontrarli, e per
questo seguì
con molto interesse le vicende riguardanti un terzo Holmes. Qualcuno -
che lei
sapeva rispondere al nome di Charles Augustus Magnussen - aveva fatto
pervenire
a Mycroft un articolo anonimo in cui si raccontava di come il mezzano
degli
Holmes, rinnegato dalla famiglia, si divertisse a seminare orrori in
tutta
l'Inghilterra. Mycroft non aveva neanche avuto il tempo di pensare al
da farsi
che quello stesso articolo era arrivato a persone di spicco della
società e del
Governo Britannico.
Perché Magnussen ce l'avesse così tanto con gli
Holmes, restava un mistero.
Perché fosse a conoscenza di una parte di verità,
restava un mistero. Perché
avesse scelto l'anonimato era invece un'ovvietà.
Come lei fosse venuta a conoscenza di quell'informazione era un segreto
anche
per Mycroft che nulla sospettava in merito. Ma in fin dei conti sarebbe
stato
sufficiente cercare un po' al di sotto della superficie per comprendere
ogni
cosa.
Come Mycroft fosse invece riuscito a mantenere segreto a
Sherlock l'episodio era semplice: accadde negli anni in cui
suo fratello
era alle prese con la messa in scena della propria morte. Un vero colpo
di
fortuna. O forse soltanto un avvertimento.
A quel punto, Mycroft - che sapeva di avere una sorella in giro per
l'Inghilterra - fu costretto ad inventarsi una storia. A tutti quelli
che
avevano ricevuto l'articolo raccontò di essere da anni alle
costole di
quell'inesistente fratello criminale infine catturato e rinchiuso in un
carcere
di massima segretezza in un posto lontano da ogni forma di
civiltà.
Questo quanto era successo all'altro.
Ma la verità era tutt'altra.
E con ogni probabilità era lei la causa di quell'articolo.
Chi più di Charles Augustus Magnussen poteva
esserle utile nelle sue
ricerche sugli Holmes? Quell'uomo era una fonte inesauribile di
informazioni e
la giovane Holmes era abbastanza determinata da voler correre il
rischio.
Armata di lenti a contatto marroni e assunta l'identità di
un giovane ragazzo
dal tipico cognome londinese con documenti in regola ed un passato
convincente,
chiese ed ottenne un incontro con il giornalista. La sua
fisicità le permetteva
di trasformarsi in un esile ragazzo ogni volta che ne aveva bisogno ed
era
così, tra l'altro, che aveva fatto perdere le proprie tracce
anni addietro. Le
fu subito chiaro, da quell'incontro, che lui la credeva un giovane
omosessuale
probabilmente per il timbro di voce e la traccia di delicatezza nelle
movenze. E
le fu subito chiaro quanto squallido fosse quell'uomo.
Nonostante questo non mollò la presa e cercò
altri incontri dichiarando di
voler apprendere l'arte del giornalismo dal migliore sul mercato e come
asso
nella manica sfoggiò una buona dose della sua
intelligenza.
Fu così che venne a conoscenza dell'esistenza di Appledore.
In prima battuta aveva creduto che fosse qualcosa di materiale, di
realmente
esistente, e già aveva iniziato a elaborare un piano per
introdurvisi, ma poi,
osservando il modo in cui Magnussen succhiava via informazioni dalle
persone
soltanto guardandole per poi riutilizzarle nei momenti più
opportuni - o meno
opportuni a seconda dei punti di vista - aveva capito che Appledore era
un
archivio immaginario. E che Magnussen era una persona molto
più pericolosa di
tutti i serial killer che spargevano sangue per le strade di Londra.
L'uomo sembrava nutrire una buona dose di fiducia nei suoi riguardi, o
meglio
nei riguardi del giovane ragazzo omosessuale che interpretava e che non
osava
mai contraddirlo, che pendeva dalle sue labbra e che nutriva
un'ammirazione
immensa nei suoi confronti; la giovane Holmes, però, teneva
tutti i sensi
all'erta quando lo incontrava, non fidandosi affatto di quell'uomo.
Ciò di cui aveva bisogno erano tutte le informazioni a
disposizione sulla
famiglia Holmes, ma forzare la mano sarebbe stato da stupidi
così pazientò.
Incontro dopo incontro, confronto dopo confronto, menzogna dopo
menzogna,
confidenza dopo confidenza, venne a sapere che uno degli antagonisti
più fastidiosi
di Magnussen si chiamava Mycroft Holmes.
Le sembrò di essere ad un passo dalla vittoria.
Doveva aver sbagliato qualcosa, però. Forse aveva fatto
qualche domanda più del
dovuto su Mycroft o forse Magnussen le aveva tenuto il gioco per poi
colpirla
alle spalle dal momento che non molti giorni più tardi del
loro ultimo incontro
il giornalista aveva messo in circolazione quella voce sul terzo
fratello con
il doppio intento di infangare il nome degli Holmes e dare un chiaro
avvertimento al suo oppositore. Ai suoi oppositori.
Non aveva mai risolto il rebus e non aveva mai capito se sul serio
Magnussen
fosse riuscito a individuare un collegamento tra lei e i fratelli
Holmes. Le
sembrava strano però, in tutto ciò, che avendo
capito la parentela non avesse invece
notato che lei non era affatto un uomo. Poteva una mente infallibile
come la
sua lasciarsi ingannare da ciò che i suoi occhi vedevano?
Poteva una mente
infallibile farsi prendere gioco da ciò che forse il suo
subconscio voleva
vedere?
Che fosse un uomo incline alla perversione in ogni sua forma, lei aveva
avuto
modo di appurarlo in diverse occasioni eppure... In ogni caso la
faccenda si
avviava verso una complessità che presto si sarebbe rivelata
ingestibile e che
richiedeva un intervento immediato.
Aveva fatto in modo che si sentissero ancora, ma senza più
vedersi: riteneva
che fosse troppo pericoloso per lei e alla fine, così come
era comparsa nella
vita del giornalista, aveva deciso di scomparire riappropriandosi della
propria
identità femminile, mantenendo un basso profilo e facendo
perdere per
l'ennesima volta le proprie tracce. Aveva affinato la tecnica ormai.
Poi Sherlock aveva risolto tutto uccidendolo.
Senza preavviso, nell'abitacolo di quell'auto, più vicina a
lei di quanto lei
stessa si aspettasse, Sherlock parlò.
«Come conosci la Donna? E come sai che la chiamo
così?», chiese con voce
neutra, frutto di una precedente impostazione. «E
perché hai una tenuta nel
Sussex?», aggiunse riportando alla realtà sua
sorella.
Lei si voltò soltanto per rivolgergli un sorriso di
inequivocabile
interpretazione: non avrebbe detto una sola parola riguardo la Adler.
«Mi piace», rispose con tono basso, quasi
seducente. «Il Sussex, ovviamente».
Quel sorriso, lo sguardo e la vaga malizia nella sua voce fecero
sorridere
Sherlock che infine accettò di avere davanti a sé
non una comune cliente, né
una cliente appena fuori dal comune, ma una donna dotata di
intelligenza,
fascino e Dio solo sa di quali altre qualità in grado di
mettere K.O. qualsiasi
essere umano.
«Che io sappia hai il suo numero di telefono»,
disse poi decidendo di
stuzzicarlo. «Perché non domandi a lei?».
Sherlock si fece serio, strinse gli occhi e contrasse le labbra.
«Perché non
conosco il tuo nome», ammise con disappunto e forse sperando
che lei finalmente
glielo avrebbe rivelato semplificandogli le cose.
La gemella scoppiò in una risata armoniosa, spontanea e
divertita che risuonò
in un modo splendido in tutto l'abitacolo. «Oh, nemmeno lei
in effetti»,
commentò infine.
Imboccò la strada che li avrebbe condotti alla sua tenuta e
nell'auto piombò
nuovamente il silenzio. Nel giro di dieci minuti arrivarono alla
piccola ma
graziosa villa. La giovane donna spense il motore e si voltò
verso il fratello
con aria seria. «Io non esisto, Sherlock».
La domanda sorse spontanea sulle labbra del consulente investigativo:
«E allora
a chi è intestato tutto questo?».
Di nuovo quel sorriso. Di nuovo quello sguardo.
Ipnotico e indecifrabile.
«Alla Donna».
N.d.A.
Le
parti scritte in corsivo altro non sono che flashback. Spero
di non essere stata troppo macchinosa. Al contempo spero di esserlo
stata
abbastanza.
Ringrazio
in anticipo tutti i lettori e chiunque deciderà di lasciare
una
recensione.