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Autore: bibersell    08/06/2015    9 recensioni
Una calda sera di Maggio Abigail Jensen, la figlia diciottenne di uno dei più importanti giudici di pace dell'intera Washington, viene rapita da Storm, il quale è pronto a correre qualsiasi rischio pur di assecondare il suo folle e sconsiderato piano. Sarà proprio questa stessa follia che porterà Abby e il suo carnefice su una strada piena di sorprese e colpi di scena.
Il giudice è pronto a tutto pur di riavere indietro la sua bambina, ma riuscirà a tradire la giustizia pur di salvarla?
Storm riuscirà a rinunciare a quella ragazza dal viso d'angelo che giorno dopo giorno si insinuerà maggiormente nella sua testa?
Ed Abby riuscirà mai a perdonare sia il padre che Storm?
Dal nono capitolo:
"Per la prima volta riuscii a vederlo. Vederlo veramente. Senza apparenze e inutili maschere.
Se ne stava lì con le spalle leggermente ricurve come se il peso morale che si portava sempre dietro lo avesse piegato definitivamente al proprio volere. Le labbra erano chiuse e totalmente inespressive, ma gli occhi brillavano di una luce nuova. Sembravano essersi accessi e persi in una valle di ricordi felici fatti di gioia e spensieratezza.
Era totalmente immobile, eppure si muoveva".
Storia in revisione.
Genere: Angst, Azione, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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I
Non andare


 
Il rombo del motore invase prepotente il mio irrequieto sonno portandomi alla realtà. Il rumore meccanico della marmitta mal funzionante aumentava a mano che i miei sensi si risvegliavano. Il primo fu l'olfatto.
La tanfa di tabacco e taco fritti inondarono le mie narici dandomi la nausea e procurandomi un forte mal di testa. Annusando meglio riuscii a sentire anche la puzza di plastica scadente che mi ricordava l'odore prodominante nei negozietti cinesi in cui Jenny, la mia migliore amica, era solita comprare.
Provai a muovere le braccia prima ancora di aprire gli occhi e capire dove mi trovassi. Con sorpresa constatai di non potermi muovere. Ero come bloccata. Qualcosa o meglio qualcuno mi aveva legato i polsi talmente stretti che riuscivo quasi a sentire la corda perforarmi la pelle lasciandomi segni permanenti. Provai a muovere d'istinto le gambe ma anche quelle erano legate.
Un vento caldo mi accarezzava la pelle del volto facendomi sudare e rendendola appiccicosa e sporca. L'aria era troppo afosa e madida di quegli schifosi odori da friggitoria scadente.
Prima di aprire gli occhi e di rendere quelle squallide sensazioni reali testai le condizioni del mio palato con la lingua.
Secca.
Avevo la bocca secca come immaginavo. Era talmente priva di fluidi che sentivo le grinze del palato sotto la lingua. Provai a richiamare della saliva ma sembrava che il mio corpo in quel momento né fosse privo. Quando aprii gli occhi la prima cosa che vidi furono le goccioline di pioggia sul vetro dell'auto. Grandi gocce che si infrangevano incessantemente contro quel vetro producendo un forte rumore che prima non avevo sentito. I tergicristalli si muovevano velocemente sul parabrezza per spazzare via quell'acqua che cadeva scrosciante.
Le luci dei fanali dell'auto davanti venivano da me percepite solo come macchie indistinte di colore. Sembrava che la pioggia, una volta infranta sul parabrezza, acquisisse una tonalità che andava dal giallo al rosso. Cercai di scorgere qualche cartello stradale per capire la mia posizione ma quel temporale non permetteva di vedere ad un palmo dal naso. Abbassai lo sguardo e, nonostante il buio dell'abitacolo e le scarse luminarie stradali, riuscii a vedere delle bottigliette di plastica e vecchie ed unte buste di cartone di diversi fast food.
Notai anche che le mie gambe erano state effettivamente legate e constatai con gioia che indossavo ancora il vestito che avevo messo quella sera per andare alla festa.
La festa.
Quel pensiero mi riportò alla mente il ricordo di diverse ore prima.


Ero a casa, papà era seduto sul divano mentre esaminava per la centesima volta lo stesso video dal computer portatile mentre mia madre era in cucina e tagliava delle zucchine convinta che un timballo di verdura potesse rendere la nostra una famiglia normale.
Quella sera a casa di Constantine c'era una festa per pochi e io volevo andarci. Lo desideravo ardentemente. Del resto avevo solo diciott'anni ed era normale per me desiderare di andare ad una festa.
Ero scesa in cucina per chiedere il permesso ai miei genitori sapendo che non sarebbe stato facile ottenerlo. A meno che André e Anthony non fossero venuti con me e avessero sorvegliato l'abitazione di Constantine. Come sempre mia madre mi disse che avrei dovuto chiedere a mio padre, era lui a dovermi dare il permesso non lei.
Così ero andata in soggiorno armata di pazienza e occhi da cucciolo.
«Papi, stasera Constantine, il ragazzo del corso di letteratura, da una festa a casa sua e a me piacerebbe tanto andarci».
Ero stata calma e la voce era fiera e sicura. Del resto non poteva dirmi di no dopo che l'avevo chiamato papi.
«Abby, lo sai che non puoi. Nessuno di noi può uscire in questo momento così delicato per le indagini. Non senza scorta». Rispose mio padre levandosi gli occhiali da vista e distogliendo lo sguardo dal computer.
Mio padre, capo di magistratura nonché giudice di pace di Washington, era un corpulento uomo di mezz'età che conservava ancora il suo fascino. I capelli brizzolati e un po' lunghi ai lati gli donavano un'aria affascinante facendolo sembrare un uomo saggio e pieno di risorse. Gli occhi chiari davano tranquillità e stabilità a chiunque gli si parasse davanti.
Harrison Jensen era un padre affettuoso ed un marito premuroso. Dedito al lavoro e con uno spiccato senso di giustizia fin da i primi anni della sua vita.
«Ma papà André e Anthony verrebbero con me e poi lo conosci Constantine, lo sai che è un bravo ragazzo. Cosa vuoi che mi succeda?» ribadii iniziando a perdere la calma iniziale.
«Ne abbiamo già parlato diverse volte Abby, lo sai che non mi piace ripetermi»
«Ma con quei due bestioni al mio fianco sarei al sicuro»
«Lo saresti ancora di più in casa. André e Anthony sono troppo giovani e non saprebbero difenderti adeguatamente in caso di bisogno. Lo sai che ti sono stati affidati loro proprio per non dare nell'occhio» ed era vero. Quei due, i miei carcerieri, o come li chiamava mio padre "le due sentinelle che avrebbero tenuto d'occhio la sua bambina" erano stati da poco arruolati e avevano a malapena venticinque anni. Erano loro che mi accompagnavano a scuola e ci rimanevano fino alla fine delle lezioni, mi accompagnavano al centro commerciale con le mie amiche e tra poco avrebbero iniziato a seguirmi anche in bagno.
«E allora perché mi stanno alle costole se in momento di bisogno non riuscirebbero a proteggermi?» chiesi incredula e arrabbiata con mio padre e quella stupida vita che ero costretta a vivere a causa del suo lavoro. «Non è il momento adatto per parlarne. Adesso sali in camera e dormici su. Domani ne riparleremo». Il discorso era concluso, almeno per quella sera.
Se fossi stata un minimo razionale e avessi usato la testa avrei capito le ragioni di mio padre. Avrei riflettuto sul fatto che la mia vita era fatta solo da scuola, casa e sporadiche uscite con le mie amiche sempre nei centri commerciali. Quelli erano posti affollati in cui non sarebbe successo nulla di male. Mai nessuno avrebbe fatto qualcosa di avventato con tutti quei testimoni; ma in quel momento non volevo essere razionale, ma solo avventate e seguire l'istinto della mia giovane età. Istinto che mi avrebbe portato sulla strada sbagliata.
Salii di corsa in camera con l'unico intento di indossare il vestito più bello che avessi nell'armadio. Sarei andata a quella festa anche senza lo stupido consenso dei miei. Era una cosa che facevano tutti i ragazzi, no?
Uscire di nascosto, intendo. Perché non avrei potuto farlo anch'io?


Quella tanfa era insopportabile. Aprire il finestrino era fuori discussione, sarebbe entrata l'acqua e mi avrebbe bagnato anche se il desiderio di respirare aria pulita era davvero forte.
«Acqua» fu l'unica cosa che riuscii a dire senza avere la sensazione che mi stessero per esplodere le corde vocali. Avevo la gola talmente secca che il solo pronunciare quelle semplici lettere mi procurò un profondo dolore. Il suono uscì attutito, come se avessi una palla di pelo bloccata lungo l'esofago che non permetteva alla mia voce di uscire limpida.
«Che cazzo hai detto?» Una voce rude e graffiante risuonò per la prima volta nell'abitacolo facendo affiorare un altro ricordo di quella sera tanto sbagliata.
Mi voltai nel tentativo di scorgere il suo volto, ma come mi aspettavo non riuscivo a vederne i lineamenti. Quella notte era priva di luna e avevamo abbandonato la superstrada immettendoci in una stradina secondaria senza luminarie. All'interno dell'abitacolo le luci erano spente e a stento riuscivo a scorgere le mie mani, figurarsi i lineamenti del mio carnefice, del ragazzo che stava guidando quel catorcio. Ma a me non serviva guardarlo per conoscerne il volto. Conoscevo già ogni sua fattezza. Diverse ore prima lo avevo studiato minuziosamente.


Con quel vestito lungo e rosa mi sentivo a disagio. Le altre ragazze indossavano pantaloncini cortissimi o vestitini inguinali mentre io indossavo un lunghissimo vestito di chiffon di un rosa pallido che sfiorava il pavimento. Ai piedi invece di tacchi vertiginosi portavo dei comodi sandali alla schiava e tra le mani invece che in bicchiere di vodka ne avevo uno di coca cola.
Forse avevo fatto una cretinata ad uscire di casa di nascosto per andare a quel party al quale non mi stavo nemmeno divertendo. I miei pensieri tornavano costantemente a mio padre e alle guardie che avevo abilmente aggirato. Il senso di colpa mi stava dilaniando. Avevo deciso di andarmene, di chiamare André per farmi venire a prendere. Abbandonai il bicchiere di carta sulla credenza e mi avvicinai alla porta senza salutare nessuno, ma la mia ritirata fu impedita dalla vista di un ragazzo. Il ragazzo più attraente che avessi mai visto. L'unica parola che mi veniva in mente per descriverlo era tenebroso. Tutto in lui trasudava pericolo. Era avvolto da un alone di mistero e il suo abbigliamento total black non aiutava. Jeans neri, anfibi mal allacciati e camicia nera aderente e con le maniche risvoltate. Due avambracci possenti e muscolosi uscivano da quella camicia che lasciava intravedere la fine di un tatuaggio che avrei voluto vedere interamente.
Alzai lo sguardo per ammirarne il volto. La pelle del viso era pallida e candida e risultava ancora più chiara a contrasto con le lunghe ciocche nere che gli incorniciavano il volto. Le labbra erano grosse e rosse e un cerchietto di metallo spuntava dal labbro inferiore rendendo quella bocca ancora più desiderabile e tentatrice. La cosa migliore, tuttavia, erano i suoi occhi, due pozze chiare che illuminavano il suo volto. Il bagliore di quello sguardo era visibile anche a quella distanza e non osavo immaginare come mi sarei potuta sentire sotto quello sguardo tanto magnetico che gli donava l'aria di un angelo vendicatore.



«Ho sete. H-ho bisogno di bere» sussurrai nella speranza che mi sentisse.
Il bruciore alla gola aumentava ad ogni parola così come il dolore alla testa. In quel momento l'unica cosa che volevo era un goccio d'acqua e un'aspirina.
Mi girai lentamente verso di lui sbattendo diverse volte le palpebre per far abituare i miei occhio al buio. La sua mano si mosse verso la sua sinistra e si accesa una tenue luce che mi permise di vedergli il viso. Teneva la testa bassa, una mano fissa sul volante e l'altra sotto al sedile intento ad afferrare qualcosa. Estrasse una bottiglina d'acqua che mi porse e che ovviamente non potei afferrare.
«Ho le mani legate» gli riferii in tono scocciato. Bramavo anche una sola goccia di quell'acqua. Lui svitò il tappo con i denti e portò con una mano la bottiglietta alle mie labbra mentre con l'altra teneva stretto il volante. Mi allungai col collo prendendo tra le labbra il collo della bottiglia e tirando la testa indietro facendogli capire che doveva alzare la bottiglia. E lui capì al volo alzando il braccio e inondandomi la gola di acqua fresca. Riuscivo a sentire la mie corde vocali esultare dalla gioia.
La foga era talmente tanta che tirai la bottiglia sempre più a me con l'unico risultato di far uscire tutta l'acqua e di bagnarmi la parte superiore del vestito. Bevvi un'altra sorsata e poi tirai il collo indietro facendogli capire di non volerne più. Lui ripose la bottiglietta d'acqua sul cruscotto.
«Che succede?» chiesi stordita ma con più lucidità rispetto a qualche minuto prima. La mia voce uscì più forte, ma risultava sempre tremolante e piena di paura. E fu proprio mentre pronunciavo quelle parole e mi godevo la sensazione di un palato fresco ed umido che l'ultimo ricordo più o meno lucido di quella serata mi invase trascinandomi in quella realtà che mi sembrava così lontana.


«Un altro, grazie» ordinai a Constantine che stava seduto al mio fianco e mi guardava con dissenso.
Dopo aver visto quel giovane tanto bello avevo provato ad avvicinarmi ma mi aveva snobbata alla grande avvicinandosi a quelle ragazze che portavano l'appellativo di troiette della scuola; e quelle erano davvero delle stronze che non ci pensavano due volte prima di levarsi i vestiti.
Mi sentivo davvero da schifo, quella non era la mia serata e avrei fatto meglio a tornarmene a casa. Però quando Constantine si era avvicinato e mi aveva allungato un bicchiere di vodka al melone non avevo saputo far altro che tracannarlo.
Un bicchiere tira l'altro ed ecco come ero finita ubriacata fracida ripiegata sul bancone della cucina di casa del mio amico a ridere da sola per qualcosa che esisteva solo nella mia testa e con un bicchiere di plastica che era stato riempito e successivamente svuotato troppe volte.
«Credo sia meglio che vai a casa Abbs» la voce del mio amico arrivò amplificata alle mie orecchie facendo aumentare il mio dolore alla testa.
«Ehi, non urlare» dissi ridacchiando con voce frivola e bassa come se stessi spettegolando con la mia compagna di banco di nascosto dal professore.
«Ma come ti sei ridotta, Abby?» domandò lui retoricamente. Dovevo fare proprio schifo. Ho sempre detestato le persone che si attaccavano alla bottiglia e se ne staccavano soltanto quando questa era finita. Lo trovavo da vili e da codardi e io non lo ero. Ero la figlia del giudice Jensen e dovevo essere sempre coraggiosa ed impeccabile. Quel pensiero mi fece montare il sangue al cervello. Volevo dell'altro alcol, esigevo attaccarmi a quella bottiglia che avevo sempre giudicato.
«Se non vuoi darmi da bere vorrà dire che mi verserò un bicchierino da sola» affermai alzandomi dallo sgabello e barcollando instabile sulle mie gambe.
«Per te la festa finisce qui. Ti accompagno a casa» Constantine arpionò i miei fianchi facendomi riprendere l'equilibrio che mi serviva per con cadere a terra.
«Lasciami!» urlai cercando di essere convincente ma non riuscendoci; avrei prima dovuto smettere di ridere per sembrare almeno un briciolo autoritaria.
«Se ti lascio cadi» disse e io risi come se fosse la cosa più divertente che avessi mai sentito. Lui mi trascinò all'ingresso afferrando le chiavi dell'auto dalla ciotola sul tavolo all'ingresso.
Io non volevo andarmene e tantomeno mi sarei fatta accompagnare da lui a casa. Mio padre avrebbe visto l'auto. «No» mi ribellai liberandomi dalla sua presa. «Vado da sola a casa»
«Non sei in grado di camminare Abbs, come pretendi di arri
varci a casa?» chiese retoricamente. «Chiamerò André» risposi semplicemente. Il solo pronunciare quel nome mi fece ritornare alla realtà. Lui, come tutti in quella casa, sapevano chi fossi e perché mi portavo sempre dietro quei due scagnozzi.
«Allora chiamalo» Merda. Non avrei potuto chiamare né André né Anthony altrimenti si sarebbero accorti della mia scappatella. Dovevo trovare un modo per aggirare Constantine e tornare a piedi a casa. O almeno avrei cercato di arrivarci. Ci pensò il destino a crearmi un perfetto escamotage. In quel momento credevo fosse stata una gran botta di fortuna ma in realtà era stata una disgrazia per me.
Un rumore provenne da dentro la casa e un ragazzo chiamò Constantine per farlo rientrare.
«Torno subito, tu chiama André» mi disse prima di voltarsi ed entrare in casa. Annui semplicemente muovendomi sul posto.
In quel momento squillò il quel momento. Era André. Quando si parla del diavolo ecco che spuntano le corna.. Accettai la telefonata ridacchiando e portandomi il cellullare all'orecchio quando qualcuno me lo
strappò di mano. «Questo lo prendo io»


Quella era l’ultima cosa che ricordavo. Il ragazzo attraente e tenebroso mi aveva sfilato il cellulare di mano e da quel momento in poi era buio totale. Non ricordavo più nulla. Il cerchio alla testa, la voglia di vomitare e quel senso di vuoto mnemonico mi davano ai nervi facendo montare la mia ansia.
Quando avevo aperto gli occhi pochi minuti prima ero troppo stordita per mettere bene a fuoco la situazione e capire bene dove mi trovassi ma soprattutto con chi. Alle elementari la maestra mi rimproverava sempre di essere tardiva e di prestare troppa poca attenzione ai dettagli. Aveva proprio ragione. Mi sentivo così stordita, dolorante e desiderosa di un po’ d’acqua che non ci avevo visto più.
«Chi cazzo sei? Che ci faccio in questa macchina e dove stiamo andando?» Non ricevetti alcun tipo di risposta da parte del ragazzo che aveva schiacciato maggiormente il piede sull’acceleratore.
«Mi spieghi che sta succedendo?» l’ansia presente nella mia voce era palpabile mentre l’aria dell’abitacolo si tendeva maggiormente.
«Zitta!» fu l’unica boriosa risposta che ricevetti. Un unico ringhio che mi invase facendomi venire i brividi e rompendo gli argini che impedivano alle mie lacrime di uscire. Tuttavia non versai una lacrima, non avrei mai potuto davanti a lui, non avevo intensione di mostrarmi debole.
«Farò silenzio solo dopo che avrai risposto alle mie domande». Ero sempre stata stupida, altezzosa ed impulsiva. Tutto quello che non sarei dovuta essere, non in quel momento almeno.
«Ho detto di tacere!» ringhiò voltandosi nella mia direzione e cacciando dalla tasca anteriore dei pantaloni una pistola che mi puntò contro. Ad una domanda però potevo rispondermi da sola: perché mi trovassi lì.
A causa di mio padre. Del suo lavoro.

 
 

Note

Salve giovani lettrici, non mi dilungo troppo a causa dell'ora tarda. 
Come sempre spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto o che vi abbia come minimo incuriosito e sollecitato la vostra attenzione.
É la prima volta che provo a scrivere qualcosa del genere. Adoro leggere storie d'azione e con trame intricate ma purtroppo non si trovano facilmente. Così mi sono detta:"Perchè non la scrivo io?". O almeno ci sto provando. Spero davvero che questo progetto vada a buon fine e che piaccia a qualcuno.
In questo capitolo si alternano scena del presento con ricordi della protagonista femminile. Credo che farò un uso abbondante di diversi pov con alternanze sia temporali che si punti di vista. Credo ci aranno quelli di Abby, Storm e del giudice Jensen. 
Lasciatemi dei commenti, sarei felicissima di sapere i vostri pareri.
Come sempre se avete consigli o critiche sono sempre ben accette.
Baci
-B

Capitolo revisionato il 12/10/2015
  
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