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Autore: TuttaColpaDelCielo    24/08/2015    2 recensioni
«Kore.» chiamò «Fanciulla.»
Nyx scostò i suoi veli d'ombra dal mio corpo, mi lasciò esposta sotto lo sguardo del suo signore.
«Ade.» sussurrai «Invisibile.»
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Demetra, Persefone
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La Fanciulla e l'Invisibile'
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Inverno

C'era una nuova costellazione in cielo. L'Ofiuco portava un serpente senza peso, luce che rischiarava quella notte di lutto – anche allora, Asclepio confortava i mortali.
Restai a fissarlo a lungo, con il capo reclinato all'indietro, il collo che doleva.
«Almeno ora Ade si placherà.» commentò una ninfa.
«Vero.» rispose mia madre «La morte tornerà nell'Averno e nel mondo tornerà la vita.»
Mi avvolse la mano tra le sue. Ricambiai la stretta distrattamente, senza abbassare lo sguardo.
Asclepio non era morto. Asclepio sarebbe vissuto per sempre nella gloria e nella luce ed era, quella, la migliore sorte che potesse toccargli. Ade aveva voluto punirlo e invece la decisione del padre Zeus lo aveva strappato all'ombra eterna dell'Averno; placato Ade, perché il medico non avrebbe più esercitato la sua arte, e placato Apollo, perché il figlio era divenuto immortale. Una duplice vittoria e un trionfo per il mondo, che finalmente si liberava del passo pesante di uno spettro bianco.
Eppure.
Eppure.
Eppure i mortali erano in lutto e di Asclepio restavano solo quelle stelle a consolarli. Non le sue mani, mai più le sue mani. Mai più gentilezza e sorrisi e la pazienza di rappezzare cucire risanare le carni che altri avevano offeso. Mai più, mai più, mai più, e davvero Apollo gioiva per la sorte del figlio?
Gioite avrei voluto sibilare alle ninfe troppo allegre, gioite pure pensando che Ade si sia placato, e invece ha preso quel che voleva e l'ha divorato e ci ha lasciato le ossa come se fossero una grande offerta. E ci credete anche. Gioite. Gioite sciocche voi che non l'avete visto in faccia e non sapete che è implacabile
(implacabile eppure ero viva, io che avevo bestemmiato la morte in pena per Asclepio e avevo guardato negli occhi l'Invisibile, implacabile eppure mi aveva lasciata andare, ma io ero l'eccezione a cui preferivo non pensare)
vi prego gioite anche per me perché io questa notte non ci riesco.

Non ci riesco.
Non ci riesco.

Mi risvegliai che non era ancora l'alba. Il cielo aveva un tono spento che non era nero e non era azzurro, schiarito da un lucore soffuso senza provenienza – non la luna crescente di Artemide, non il sole di Apollo. Forse non era neppure lucore, in realtà, ma semplicemente non-buio, oscurità che si assottigliava appena per mostrare i contorni. Era Eos che si avvicinava lentamente, concedendo un altro respiro alle ombre; era la lotta tra Nyx ed Helios, più quieta e più dolce di quella sanguinosa del tramonto, uno scontro che univa e mescolava e che forse era un amplesso. L'Ofiuco impallidiva in quella luce vaga e io lo salutai con un sorriso, augurandogli un riposo sereno. Sperai che non soffrisse troppo per il lutto dei mortali.
...io soffrivo.
Con l'attesa dell'aurora viene l'ora più fredda, ma io mi sentivo immersa nel tepore, così avvolta dall'himation e rannicchiata contro il corpo sempre caldo di mia madre. La scostai piano, mi rialzai per sciogliere i muscoli stando attenta a non urtare le ninfe addormentate. Ero stordita, sfiancata da un sonno irrequieto e da quel mal di testa che viene al risveglio quando la sera si è pianto troppo, con il viso nascosto e i singhiozzi soffocati.
Allungai le braccia verso l'alto. L'aria fredda mi rinfrancava e a ogni respiro ingoiavo lucidità per buttare fuori nausea. Mi sentivo ancora stanca – avevamo cantato e danzato fino a cadere a terra stremate, celebrando l'Ofiuco e il ritorno di Ade all'Averno. Avevano gioito e io avevo finto di riuscirci con loro.
Vedevo le linee dolci dei crinali increspare l'orizzonte, dalla sommità del colle su cui avevamo passato la notte. Iniziai a scendere a piccoli passi, andando incontro a prati e campi e altri prati e altri campi nascosti dalla penombra; e pensai all'esultanza della sera, alla certezza che quella mattina li avremmo ritrovati morbidi e fertili, benedetti dal nostro canto, finalmente liberi dal passo fatale di Ade.
Perché Asclepio era salvo e Ade se n'era andato.
I miei piccoli passi si trasformarono in falcate, via, via, a vedere quei campi pur sapendo già cos'avrei trovato, e poi in corsa perché io non ero mai stata capace di camminare piano, io ero vita irruente e divorante e
e
e
e non la sentivo, la vita, quella mattina.
Correvo e dietro di me non fiorivano primule e crochi e narcisi, dentro di me non sentivo la carne formicolare e scaldarsi mentre le loro radici affondavano nella terra morbida. Correvo passando per prati dall'erba rada e campi di zolle dure, correvo seminando solo fiori di morte.
Mi fermai solo quando non ebbi più fiato, con la gola bruciante e le gambe stanche. Il colle era lontano, mille passi di distanza segnati da asfodeli bianchi; e lontana era Eos, superata dalla mia corsa sfrenata, lontana Emera, trattenuta alle porte dell'Averno da Nyx sua madre – ma non mi serviva la luce per sapere cosa avrei visto, come non mi serviva la luce per percepire la mia mano o i miei capelli. Il gelo che mi divorava aveva il sentore nettissimo di una condanna inflessibile.
(Asclepio era salvo e Ade se n'era andato e oh scusatemi scusatemi scusatemi avrei dovuto dirvi che è implacabile, avreste dovuto dirmelo, e adesso è troppo tardi e)
Ed era impossibile non capire che era lì – per me, almeno, che sentivo nella carne la violenza del contrasto. La sua presenza negava tutto ciò che ero; e mi ritrovai all'improvviso consapevole dei miei confini, di dove iniziava il mondo e finivo io, come se una luce abbagliante fosse giunta a tracciare ombre più nette.
«Invisibile.» chiamai, perché se anche lui non era intenzionato a comparire, io non potevo ignorarlo. Non con la morte tutt'attorno e gli asfodeli che seguivano i miei passi.
Ade si tolse la kunée e me lo trovai al fianco.
«Fanciulla.» mi rispose con quella sua voce monocorde.
Restammo fermi, il suo sguardo su di me, il mio sguardo su campi deserti e asfodeli. Un respiro. Due respiri. Il mio era rapido e affannato, il suo calmo, più profondo, un respiro dei suoi erano due dei miei e questo mi faceva perdere il conto. Uno due cinque dieci non sapevo più quanti, quanti di quei respiri ingoiati stando immobili. Poi sentii le sue dita scostarmi i capelli dietro una spalla – vicino vicinissimo le sue dita a un soffio dalla mia gola ma non mi sfiorò e il gelo si trasformò in calore che era assenza e attesa. Tornò a parlare con tono appena più espressivo, velato di ironia: «E anche oggi correvi. Cammini mai, Fanciulla?»
Io deglutii, e cercai di chiedermi cosa ci trovasse di divertente, ma Ade ancora tratteneva una delle mie ciocche scure, avrebbe potuto sfiorarmi la gola flettendo appena l'indice e ogni pensiero logico naufragava contro lo scoglio delle sue dita. Ricordai com'era stata la sua stretta sul viso, gelo morte vita primavera e assenza improvvisa quando mi aveva lasciata, dovetti deglutire ancora e scuotere piano il capo per non annegare in quel pensiero. Polpastrelli lungo il collo, urtati nel movimento – gelo morte vita primavera, assenza improvvisa quando raddrizzai il capo. Rabbrividii. Non ero comunque sicura se avessi freddo o caldo.
Continuai a fissare i campi infertili e mormorai: «Sapevo che eri ancora qui.»
«Naturalmente.»
«Avevi promesso di andartene, quando Asclepio...»
Quando Asclepio.
Quando Asclepio e basta. Asclepio e fine. Asclepio e mai più.
«Avevo promesso di non andarmene fino a quando Asclepio fosse rimasto. Sul seguito, non ho mai detto nulla.»
Voltai il capo per guardare l'Invisibile. Lui indossava una maschera impassibile; io, la rabbia negli occhi perché potesse esserne investito. Non sembrò turbarlo troppo.
«Impedirai di mietere i raccolti.» sibilai.
«Parli con il sovrano dell'Averno, Fanciulla, non con la dea delle messi.»
«La carestia affamerà gli uomini. La malattia li piegherà. E chi resterà, poi?»
Aveva un'indifferenza spaventosa nello sguardo, mentre rispondeva: «Trovi tanto orribile che i mortali muoiano?»
Faceva male. Male. Male. Male.
Vóltati e capelli che sferzano e un passo due passi e le gambe ancora stanche dalla corsa ma via via via via fa troppo male qui via via via...
Mi agguantò il gomito al terzo passo. Trattenuta, mi lasciai sfuggire un grido acuto, ma un nuovo strattone mi spinse a voltarmi e sotto il suo sguardo la voce mi morì.
Nei suoi occhi bruciava qualcosa che era ira e ferocia e urla rosse.
«Dimmi, Fanciulla, lo trovi tanto orribile?» scandì contro le mie labbra, lentamente, calcando ogni sillaba come se dovesse aiutarmi a comprendere – sarcasmo grondante e sfida a contraddirlo.
Sì avrei voluto gridare, rispondergli con la mia rabbia dolente, ma oh ghiaccio nelle vene e terrore e nei Cronidi scorre sangue violento di Titani. Abbassai lo sguardo.
«Forse» continuò, atono «forse rimpiangi le leggi che ci reggono. I mortali muoiono; te ne dispiaci? Assapora il Caos per un istante, Fanciulla, e non disprezzerai l'ordine del Cosmo.»
«Non lo disprezzo.» mormorai.
«Non lo apprezzi.»
«Posso andare?»
Mi strattonò più vicino.
«Mi biasimi, non è così? Per Asclepio, per la carestia, per ogni lutto che ti sfiorerà da qui all'eternità.»
Aveva la voce indifferente e la stretta furiosa, feroce attorno alle ossa del mio gomito.
«Mi domando se tu sia troppo giovane o semplicemente ottusa, Fanciulla, per non capire che il Cosmo non è retto dai tuoi germogli.»
La kunée cadde a terra. Mi spinse contro di sé, un braccio attorno alla vita, l'altra mano a stringermi la nuca. Annegai in quella stretta tremando di freddo e di timore e di respiro spezzato nel sentirlo solido contro il mio corpo morbido di donna; mi sentii accarezzare da ciocche candide sul viso, con la guancia premuta contro la sua spalla, e da una voce all'improvviso vellutata.
«Non capisci, non è così?» sussurrò al mio orecchio, sfiorandomi il collo con un sospiro «Gioisci della gioia dei mortali, soffri delle loro sofferenze e non capisci. Mi biasimi. Oh, mi biasimi, Fanciulla, come se io avessi scelta
Mi serrò ancora, forte. Non riuscivo a respirare.
«Credi davvero che io possa permettere che i mortali sfuggano alla morte grazie ad un medico, Fanciulla?»
Non riuscivo a respirare. Non... non... spinsi con le mani contro le sue spalle, febbrile, mentre la testa pesava e la vista si oscurava e oh quanto ancora poteva bruciarmi la gola? Mi agitai ma non lo smossi, restai intrappolata in quella morsa di asfissia e gelo.
Chinò il capo su di me, affondò il naso contro i miei capelli.
«Sai di terra, Fanciulla. Sei così viva. Non puoi capire.»
Mi spinse via.
Incespicai all'indietro, annaspai tossendo in cerca di aria – non potevo morire, non potevo soffocare, ma potevo soffrire e agonizzare e implorare un respiro. Ero un cuore impazzito pulsante di terrore e rabbia, rabbia e terrore, reagivo per non annegare in quell'aria di morte che si respirava attorno a lui, oh l'odio per ciò che mi diceva l'odio l'odio l'odio quell'odio mi colmò e straripò e gli asfodeli appassirono uno a uno, risecchirono e ingrigirono mentre io li RIFIUTAVO.
«Posso capire che nulla ti obbliga a portare qui il gelo dell'Averno. Posso capire che questi luoghi non appartengono alla morte.»
Urlavo, furiosa e stridula con quella mia gola bruciante, e nel silenzio dell'alba imminente le mie urla risuonavano, squarciavano i veli di quiete in cui Nyx ci avvolgeva.
E continuai, nonostante negli occhi di Ade rilucessero braci, fiamme del Flegetonte, furia implacabile del dio più implacabile, continuai perché il dolore era troppo, l'odio era troppo, il rifiuto era troppo, lui SI SBAGLIAVA e dovevo urlarlo al mondo.
«Che ne è dell'ordine del Cosmo, Ade? La terra non deve forse dare frutti? I mortali non nascono per vivere? Al sovrano dell'Averno appartiene l'Averno, non il regno dei vivi. Non la terra fertile.»
Ma come io non potevo capire la morte, lui non poteva capire la vita. Spettro di un pallore livido, scosse la testa e un sorriso gli tagliò il viso. Oh la furia nei suoi occhi. Mi rispose, monocorde: «Ti sbagli, Fanciulla. La terra mi appartiene per un terzo.»
«La terra appartiene a mia madre. E a me
«Quella rivoltata dall'aratro, forse; ma, come vedi, non mi è impossibile reclamarla.»
Non era giusto. Chiusi gli occhi per un istante, li strinsi forte per scacciare le lacrime che minacciavano di scorrere. Con un impegno disperato che mi mozzò il respiro tentai di far fiorire qualcosa, qualsiasi cosa, trovai i semi nel terreno e ordinai vezzeggiai implorai ma nulla. Nulla. Neppure gli asfodeli ormai. Avevo freddo e, dentro, l'acuta consapevolezza di essere viva, viva, in quel mare di mortegelonulla io ero così sfacciatamente viva ma quella vita pulsante era condannata a essere inutile, vuota, tentavo di lasciarla fluire attorno a me e quella si spegneva in una sterilità irrevocabile. Lo smarrimento mi mangiava dentro perché no, no, no, no, non era assolutamente giusto.
«E tu parli di ordine del Cosmo. Davvero.» mormorai, annegando all'improvviso nella sconfitta amara. Non potevo vincere contro di lui e quella consapevolezza mi strinse la gola – lottai ancora contro le lacrime, ma non vinsi neppure contro quelle, e le sentii rigarmi le guance senza singhiozzi.
«È predisposto che vi sia una stagione fredda.»
«Mai così fredda. Mai così morta.»
Lo era, in realtà – ma in altri luoghi, lontani, dimenticati, all'estremo margine del dominio di Gea. Luoghi che appartenevano a lei, madre del padre di mia madre, e a nessun altro; luoghi che non erano neppure abitati, troppo inospitali per offrire attrattive ai mortali. Luoghi che non erano la Trinacria, l'Ellade, perché quelle terre devote a mia madre meritavano di non conoscere inverno.
Eppure il gelo mi attanagliava le ossa, tra campi infertili e morte.
«Mai così.» ripetei – sussurro senza forze «Mia madre protegge i mortali.»
L'ira negli occhi di Ade sembrò spegnersi, si placò in una calma che sembrava quasi... quasi tenerezza, quasi condiscendenza. Il taglio sul suo viso divenne uno stiramento di labbra lieve, appena divertito.
«E ne sei convinta, Fanciulla.»
Tese una mano. Io indietreggiai per scostarmi, ma lui fu più rapido e mi strinse il mento – senza violenza, solo con decisione sufficiente a non farmi sfuggire. Tremai sotto il suo tocco gelido mentre distendeva la mano, passava a stringermi il collo, piano, così piano che sembrava una carezza.
«Non...» mormorai, incapace di reagire.
Negava tutto ciò che ero e oh quanto mi faceva sentire viva quella negazione, mi sembrava di bere vita dalle mani della morte. L'Invisibile risalì dal collo al viso, mi sfiorò la guancia con il pollice, seguì le tracce delle lacrime.
«Questo ti farà piangere ancora.»
Fu un mormorio lieve, carezzevole. Mi confondeva con quel suo tono che sembrava sempre indifferente, ma di un'indifferenza da sondare, indagare, per scoprirne la sfumatura – che fosse furia o dolcezza. Sorriso morbido a tendergli le labbra e serietà negli occhi, senza che io potessi capire di cosa fidarmi, in quella ridda di segnali che non combaciavano.
«Vieni, Fanciulla. Voglio mostrarti quanto ti sbagli.»
«Dove?»
«Vieni.»
Indurì la voce. Alle mie orecchie, abituate a canti di ninfe e risa gioiose e al miele nelle parole di mia madre, sembrò il tono imperioso con cui doveva comandare le Erinni; ma una stilla di quella sicurezza gocciolò in me e mi spinse a chiedere ancora: «Dove?»
«A nord del Ponto.»
Spalancai le palpebre. Io che non avevo mai lasciato la Trinacria, io che a malapena potevo muovermi da sola in quelle terre conosciute palmo a palmo, avrei dovuto attraversare due mari e visitare un deserto? Tentai di scostarmi – fallendo.
«Non posso. Non posso, no, non posso, davvero.»
«Vieni.»
«È un deserto disabitato, non m'interessa, non posso, non-»
«Ah, disabitato
«Cosa...»
L'Invisibile mi fissava dall'alto in silenzio, senza accennare a muoversi ma neppure a cedere: mi tratteneva il viso con la mano, e io dovevo guardarlo, così, voleva che lo guardassi, voleva che non gli sfuggissi, mi sentivo addosso il suo respiro di pioggia e foglie marce, e io sapevo sapevo sapevo che avrei dovuto essere furiosa e intimargli di lasciarmi, andarmene vomitando bile per Asclepio e per i campi infertili e per la morte tutt'attorno.
Morte? Quale morte? Quanto avrei voluto solo restarmene lì e nutrirmi del contrasto, della vita che esplodeva in me lottando contro il gelo che mi circondava.
(quale morte? Oh, ma cara, la lista è troppo lunga: Asclepio, gli uomini, i germogli, la primavera
ah la primavera
la primavera
non arriverà più la primavera
rimandata all'infinito e cristallizzata nel ghiaccio e inaridita prosciugata spezzata strangolata uccisa)
Ero io la primavera.

*

 
Forse erano state le mie lacrime a convincerlo; o forse, più probabilmente, il signore dell'Averno si era assentato troppo a lungo dal suo regno. Si era chinato a riprendere la kunée ed era scomparso senza una parola, ma lo avevo sentito indugiare ancora, non visto eppure evidente, come avrei potuto non sapere che era lì? Bruciavo. Poco dopo, con il cielo che finalmente si schiariva in un'alba ritardata troppo a lungo, con Emera che finalmente varcava le porte dell'Averno, se n'era andato.
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.


Mia madre sorrideva, mentre addolcivamo la terra camminando tra i campi. Io seguivo i suoi passi, senza correre avanti, ed erano passi lenti, allegri ma grevi, appesantiti da Calligenenia sempre troppo stanca. Non mi ero mai resa conto, prima di allora, di quanto la mia nutrice dovesse affannarsi per non rimanere indietro.
«Sei felice, Kore?» mi chiese mia madre, voltandosi con la luce nello sguardo «La terra sarà morbida e fertile in pochi giorni. Tornerà la primavera.»
Annuii.
«Intrecciami una corona di crochi, domattina. La porterò con me in Beozia.»
Annuii di nuovo, e chiesi con un tono troppo allegro: «Domani sarà una bella giornata per la Beozia. Non trovi, nutrice?»
Calligeneia ansimò un assenso ma dovette fermarsi, come se parlare e camminare le togliesse il fiato. Le offrii il braccio per sostenersi. Non lo rifiutò.
I crochi, pensai, i crochi domattina cresceranno e io li coglierò e ne farò una corona e saranno bellissimi e dorati e pronti ad appassire. I crochi domattina risponderanno al mio richiamo, scuoterò i capelli e ne cadranno semi tra le zolle morbide, riderò e i germogli solleveranno il capo in risposta alla mia gioia.
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.


I crochi non crebbero. Tentai e tentai ancora, quando ancora le altre dormivano, versai semi dalle mani e li ricoprii di terra fertile, e poi li chiamai, ordinando, implorando, ma non accadde nulla. Ebbi quasi timore che nascessero asfodeli al loro posto – e invece no, neppure quelli, con una stilettata in petto che era speranza delusa, non sollievo.
La primavera non tornava, perché la primavera era stata rimandata all'infinito e cristallizzata nel ghiaccio e inaridita prosciugata spezzata strangolata uccisa.
Quando mia madre si destò, pronta ad attraversare il mare per benedire la Beozia, finsi di dormire e lei non volle svegliarmi per una corona di fiori. Se ne andò lasciandomi un bacio leggero tra i capelli, attenta a non disturbare il mio sonno.
«Ti ho preparato dell'infuso.» mi disse Calligeneia, quando infine finsi di svegliarmi «Fa ancora un po' freddo, non ti pare? Riscaldati la gola, prima di perdere la voce.»
Io sorrisi per quella premura e non le dissi che nessun infuso avrebbe potuto riscaldarmi, e che non era un freddo da perdere la voce, il mio. Da perdere il senno forse – e mi riecheggiavano le parole dell'Invisibile in testa, senza sosta, vieni vieni vieni a vedere quanto ti sbagli, e pensavo al Ponto, al confine estremo dei passi mortali, terra ancora fertile e poi quel mare troppo a nord e poi, più oltre, un nulla di gelo e desolazione. Ah, disabitato. L'Invisibile se n'era andato dal regno dei vivi e restava nella mia mente, e che significava, quello?
Ero diventata regno di morte.
«Non rattristarti per non aver salutato tua madre, Kore.» Calligeneia mosse una mano, come a scacciare quel pensiero «Fa' crescere comunque quei crochi. Le faranno piacere, al suo ritorno.»
Io le sorrisi di nuovo, senza allegria, e mi alzai per drappeggiare il mio himation su quelle spalle fragili.
«Riguardati, nutrice. Hai ragione: fa ancora un po' freddo.»
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.


Nella mia testa esplodevano ringraziamenti, come un fiore che sboccia all'improvviso, colorato e fresco e ferocemente vivo. Nei campi spuntavano i primi germogli, affondati nella terra morbida e fertile, proprio come aveva promesso mia madre; e tra quei germogli i mortali sceglievano quelli più teneri, da tagliare e intrecciare e gettare nei prati, con una preghiera di gioia e di gratitudine – con una domanda inespressa e tuttavia chiarissima nella mia testa. Grazie, risuonava, grazie, e poi timidamente qualcuno osava perché?, e io lasciavo che a rispondere fosse un'altra voce, non mia, non allegra, non gentile, ah, disabitato, voce tagliente di gelo e sarcasmo, i mortali non potevano udirla ma io sì e tremavo dentro per questo. Non passavo a raccogliere le corone e dopo un po' qualcuno lo notò, e allora iniziarono le offerte di miele, di pane dolce, ma non accettai neppure quelle, e i perché? si moltiplicarono, sempre più evidenti e angosciati e sfacciati. Perché non accetti i nostri doni, chiedevano, vuoi forse sacrifici? Mi colmai d'orrore quando avvertii sulla pelle che preparavano una pira modesta, che strappavano il piccolo alla scrofa, e a quello risposi: gridai di fermare il coltello e di non togliere il figlio alla madre – oh, l'ironia. I mortali restarono a guardarmi per un po', incerti di fronte a quella dea con i capelli scarmigliati e il respiro pesante per la corsa; poi abbandonarono il sacrificio e a quel punto non ci fu modo di evitare la domanda. Arrivò dalle labbra di una ragazzina magra e pallida, troppo giovane per frenare la lingua.
«Perché non sbocciano i fiori?»
«Non voglio sacrifici.» risposi senza rispondere. Lasciai scorrere lo sguardo su quella manciata di mortali riunita in cerchio e per un attimo pensai che erano già tutti morti. Inghiottii la bile e mi dissi che no, erano vivi, volti scavati e occhi stanchi e vita che rifiutava la morte. Vita che versava sangue caldo per ingraziarsi gli dèi.
Caddero in ginocchio, guardandomi con una luce folle nello sguardo, come disperata, come implorante. Una donna dovette strattonare la ragazzina per un gomito, per farla inginocchiare.
«Senza fiori non nasceranno frutti. Non avremo erbe. Ti prego.» disse qualcuno – non seppi chi. Non li guardavo più. Non volevo, non potevo. Non ero una dea davanti a cui inginocchiarsi, io, non lo ero mai stata e non volevo diventarlo in quel momento. Mi voltai.
«Ti prego!» esclamò la stessa voce, ma ancora non volli vedere chi fosse e iniziai ad allontanarmi, a passi lenti. Non mi ero mai sentita così pesante.
I mortali avevano bisogno dei frutti, i frutti avevano bisogno dei fiori, i fiori avevano bisogno di me, io avevo bisogno che tutto finisse. Non finiva. Quanto avrei voluto scomparire, confondermi tra le ombre del pioppeto, e invece dovetti camminare con quegli sguardi nella schiena e le loro preghiere nelle orecchie, nella mente, riecheggiavano insieme a una voce non mia non allegra non gentile e stavo impazzendo. Stavo impazzendo. Ero la primavera e la primavera mi rifiutava, e i mortali davano la colpa a me, come se io avessi potuto farci qualcosa, cambiare le cose. Capii l'Invisibile, per un istante, ma prima che potessi seguire quel pensiero una bestemmia sostituì le preghiere – urlo rabbioso nella mia testa, che mi assordò e mi stordì e mi ferì dentro, a fondo, mi squarciò il petto, e forse avrei dovuto infuriarmi e punire il blasfemo ma aveva ragione. I mortali mi maledicevano, assaporando gli inizi della carestia, e potevo davvero biasimarli? Avevo gridato la mia rabbia contro l'Invisibile per la morte che portava, avevo ringhiato dell'ordine del Cosmo, proprio io. L'ironia della situazione mi strappò una risata, un latrato feroce. Scoppiai a piangere.
Il sole scaldava.
Io avevo freddo.

*

 
Trascorsero ancora alcuni giorni, prima che la domanda esplodesse anche sulle labbra di mia madre. Giorni di sole e di germogli e di gioia, di alberi che rinverdivano e di gelo nelle mie ossa, voci nella mia testa. Notti d'insonnia e di terrore che Nyx non se ne andasse, che Emera non varcasse la soglia dell'Averno, che l'Invisibile mi chiamasse a sé. Sapevo che avrei obbedito.
Quando infine la domanda esplose, lo fece con premura materna così delicata che mi sentii soffocare sapendo che non potevo, non potevo, non potevo dirle nulla. Si sarebbe preoccupata, infuriata, angosciata, mi avrebbe rinchiusa in una gabbia. Non avrei mai potuto vagare senza controllo per la Trinacria, se avesse saputo qualcosa – e quanto mi era cara la libertà di correre, raccogliere offerte, assaporare giorni di solitudine malinconica. Le notti, quelle mai: non mi era permesso trascorrerle senza Calligeneia, e per la prima volta mi chiesi da cosa avrebbe potuto proteggermi una vecchia. Mi odiai per quel pensiero.
E quindi la domanda esplose, calda e angosciata, amore di madre e carezza non voluta, e io avrei solo voluto ripiegarmi su me stessa accartocciarmi svanire.
«Non ti senti bene, Kore?»
Io mi schermai dietro la ciotola d'ambrosia. Lei mi strinse un ginocchio e tentò di sorridermi, ma a piegarle le labbra fu solo una smorfia preoccupata, oscena nella sua finta allegria.
«Non vuoi allietare di fiori la crescita del grano, amore mio? Non è primavera senza di te, lo sai, non davvero. Sei preziosa.»
L'ambrosia era terminata, ma non scostai la ciotola dalle labbra, continuai a fingere di nutrirmi pur di non doverle rispondere.
Mia madre, troppo delicata per parlare di fame, non aggiunse quello che già sapevo: senza fiori, gli alberi non avrebbero dato frutti. Invece mi chiese, sollecita: «Sei in collera, Kore? Qualcuno ti ha offesa?»
Ormai doveva essere evidente che nella ciotola non poteva essere rimasto nulla. Lei me la abbassò a forza e sibilò: «Ti hanno offesa?»
Il sottinteso, anche lì, era troppo osceno ed evidente perché mia madre potesse lordarsene le labbra. Spinta dal terrore furioso nei suoi occhi, risposi piano: «Non è successo nulla, madre. Non preoccuparti.»
«Cosa, allora?»
Scossi il capo, lasciai che ciocche scure mi ricadessero davanti al viso per nascondermi. Maledetta voce non mia non allegra non gentile che assordava la mia mente.
«Kore!»
Maledetta, maledetta, non mi lasciava in pace e affondava e affondava e affondava nei punti più morbidi, nell'incertezza, nell'irrequietezza adolescente, ah, disabitato, e allora, mentre mia madre iniziava a elencarmi tagliente i miei doveri di dea, la interruppi: «Qual è il limite dei regni mortali, madre?»
La sua esitazione fu troppo ovvia perché potessi crederle, quando mi rispose: «Il Ponto.»
Maledetta maledetta voce. Chissà quali erano i doveri della dea delle messi, quali i suoi limiti, se quel deserto a nord del Ponto era ah, disabitato. Dubbio maligno che non avrei mai potuto fugare con i miei occhi, perché le mie benedizioni superavano il mare e arrivavano in Attica, in Asia, ma i miei passi si arrestavano sulle coste dell'isola e il Ponto era lontano.
«E il mio limite è la Trinacria.» sibilai, con la voce troppo dura. Non se lo aspettava: le sue soppracciglia si sollevarono di stupore, poi si aggrottarono, scavarono rughe d'irritazione nella sua fronte.
«Domani tornerò in Ellade. Calligeneia, resta con lei.» sibilò «E tu, figlia, richiama la primavera, prima che tuo padre si irriti perché non adempi ai tuoi doveri.»
Restammo entrambe sedute, a fissare davanti a noi. Alzarsi e andarsene con rabbia era un gesto troppo infantile perché una delle due si arrendesse a compierlo. Respirai furia e silenzio finché il sole non calò, poi mia madre andò a coricarsi sull'erba senza una parola e io restai ritta nel buio. Sospirando, Calligeneia mi si avvicinò e si sfilò il mio himation per drappeggiarmelo sulle spalle, ma io la fermai stringendole una mano rugosa.
«No, nutrice, tienilo. Avrai freddo.»
E lo aveva, sempre, alla maniera dei vecchi che non sanno più scaldarsi. Lei tornò ad avvolgerselo addosso, senza lasciarmi la mano, anzi me la strinse con forza e sotto le dita fragili sentii tutta la sua forza. Non c'era luna, ma alla luce delle stelle potei scorgere il suo sguardo fisso su di me, serio e riflessivo, e pensai – pensai ai singhiozzi soffocati nell'himation, alle fughe notturne, alle corse lontano lontano lontano mentre tutte riposavano, ai crochi che non erano sbocciati in una mattina d'autunno non più autunno. Pensai al sonno che l'aveva sempre colta in quei momenti, a quanto poco i vecchi abbiano bisogno di dormire, e seppi che sapeva. Aveva visto e udito e capito, la mia nutrice, e quanta sconfinata fiducia doveva riporre in me per permettermi di allontanarmi di notte? Eppure me lo aveva permesso. Sapeva dell'Invisibile? Immaginava? Qualcosa, in quello sguardo greve, mi disse di sì. Poi Calligeneia allentò la stretta e andò a coricarsi in silenzio.
Era un assenso?
Sopra di noi, l'Ofiuco osservava. Gli chiesi perdono e se per favore, per favore, poteva non odiarmi troppo per quello a cui mi preparavo, perché io gli avevo voluto bene con la sincerità dei bambini e avevo sputato rabbia feroce sul suo carnefice, ma non c'era altro modo, davvero. Chissà se anche le stelle, come gli dèi, potevano udire invocazioni e preghiere.
Mi alzai, infine, stanca di attendere una luna che quella notte non si sarebbe mostrata. Ricordai l'himation che avvolgeva Calligeneia addormentata e seppi che avrei sofferto il freddo; glielo lasciai comunque. Iniziai a camminare, senza meta, pensando solo ad andarmene di lì – dalle menzogne e dal tepore e da mia madre che non sapeva, non capiva. L'oscurità si scostò dal terreno perché non inciampassi e seppi che invece lui sapeva, capiva, e sapendo e capendo attendeva. Tremai, cogliendo l'enormità, la stupidità delle mie intenzioni, ma questo non fermò i miei passi. Chiesi ancora perdono ad Asclepio, e poi alla mia nutrice, voltando il capo per gettare un'ultima occhiata di scuse a Calligeneia addormentata (addormentata?). Mia madre avrebbe incolpato lei, ne ero certa, ma la vecchiaia porta con sé l'inviolabilità, oltre a stanchezza e gelo e insonnia: nessuno l'avrebbe toccata.
«Sta' attenta, Persefone.» sussurrò Calligeneia, che no, non dormiva.
Nel mio nome colsi il suo assenso.

 

   
 
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