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Autore: Slytherin_Eve    09/05/2017    4 recensioni
PRE CIVIL WAR
Steve Rogers prende il comando dei nuovi Avengers. L'Hydra si sta ricomponendo sotto la guida di nuovi, misteriosi individui. Rumlow è tornato, e con lui anche James Barnes. Elle Selvig, figlia del famoso astrofisico, si ritrova implicata in una storia più grande di lei quando accetta un lavoro come consulente presso la nuova base Avengers, spinta anche dalla sua amicizia con Natasha Romanoff. Ma non è detto che i guai ti trovino sempre per primi.
"Non tutto andrà come deve andare, ma certe cose seguono esattamente il filo nefasto del destino."
Genere: Azione, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nuovo personaggio, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
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Ciao a tutti!

E’ passato un anno dall’ultimo aggiornamento. Lo so.

Purtroppo gravi problemi di salute mi hanno impedito anche solo di pensare a continuare ad aggiornare. Mi dispiace tanto. Spero solo che qualcuno ancora si ricordi di questa storia. Perché mi sono ripromessa di finirla, ora.

Non so come scusarmi, come spiegarmi. Sappiate solo che mi sto curando, quindi spero di riuscire a portare a termine tutto. Purtroppo, anche se non siamo super eroi, spesso ci troviamo a fronteggiare sfide molto più grandi di noi, senza nessuna arma se non un po’ di amore e di speranza. Bisogna solo stringere i denti, e cercare di rimanere aggrappati a quanto realmente siamo, senza lasciarci trascinare dal dolore, sia fisico che mentale.

Sono Slytherin Eve, e questo capitolo non avrebbe mai visto la luce se non fosse stato per Giulietta Beccaccina e Delta 98, che non hanno mai smesso di credere che sarebbe stato possibile per me continuare, un giorno. Amiche che non mi hanno mai lasciato andare.

Ringrazio infinitamente per le dolcissime recensioni dell’ultimo capitolo camillaperrystyles, Yvanna97, Sissi04. Per i messaggi Janeisa e GiuliaDirectioner1D. Grazie a tutte, ragazze!

 

 

Atto Ventiquattresimo: Condanna

 

 

“The word’s a funeral, a room of ghosts

No hint of movement, no sign of pulse

Only an echo, just skin and bone.

They kick the chair, but we,

We help tie the rope.”

BRING ME THE ORIZON

 

 

 

Loretta si avvicinò alla porta, sentendo bussare energicamente. Elle era partita da meno di cinque minuti, avvisando che sarebbe arrivato qualcuno a controllare che entrambe stessero bene ed avessero quello di cui avevano bisogno. Entro poche ore.

“Salve…” Esclamò esitante, aprendo appena l’uscio, una mano che teneva la catenella di sicurezza della vecchia porta e l’altra che puliva strusciando sul grembiule azzurro. “Siete colleghi di Elle?”

I due uomini, vestiti di nero, con grossi stivali scuri, la guardarono con espressione indecifrabile. Uno dei due annuì. Loretta rimase un secondo in attesa, indecisa sul da farsi. D’altro canto, i colleghi di Elle non li conosceva, a parte Natasha e Steven.

“Siete fortunati…” Sorrise apertamente, le labbra scure stese in un’espressione materna. “Ho appena preparato il thè freddo.” Fece per scostare la catenella, sotto lo sguardo impassibile dei due. “Gli amici di Elle sono nostri amici. Siete stati così carini a passare!”

 

xxx

 

Elle entrò con un calcio alla porta in casa, accostandosi con le spalle al muro d’ingresso, le labbra pallide, strette in una smorfia terrorizzata, così come gli occhi enormemente sgranati che scorrevano oltre il muretto della cucina, quello che lei e Nat avevano tinteggiato insieme. Fece pochi passi avanti, sempre strusciando contro la parete. Si avvicinò con uno scatto al soggiorno, sentendo gli stivali scricchiolare su qualcosa di appiccicoso sul pavimento. Una grossa macchia di liquido copriva il legno vecchio, facendogli emettere un suono ancora più agghiacciante, che permeava nelle ossa e le faceva accapponare la pelle pallida. Piccole schegge di vetro coprivano tutto il pavimento, fino al tappeto chiaro davanti al divano. Delle fette di limone schiacciate, sporche, giacevano inermi in mezzo al tutto. Elle soffocò appena un urlo, sentendo il rumore del telefono che continuava a suonare occupato, penzolando dalla parete azzurrina. Una striscia di sangue, l’impronta di dita vermiglie, scendevano fino al pavimento.

La testa era spaccata a metà da un colpo, preciso, alla nuca. La camicia bianca non aveva altre chiazze del colore originale se non sui fianchi, ancora stretti dal grembiule. La posa della donna era innaturale, le gambe quasi semi piegate e il viso contro il pavimento, la schiena coperta di brillanti di vetro, che rilucevano pigramente nella luce della finestra.

Lo sparo che aveva sentito al telefono aveva fatto il suo lavoro, il proiettile incastrato esattamente sopra alla base dell’apparecchio telefonico, distruggendo la maggior parte dei tasti.

Elle si avvicinò appena, un conato di vomito spontaneo a vedere la sostanza celebrale della sua ormai mamma adottiva sparsa per il pavimento. Appoggiò appena due dita tremanti sul collo dell’altra, sentendo il freddo permearla. Il terrore l’aveva completamente avvolta, mentre sentiva ogni traccia di speranza abbandonare il suo corpo in uno spasmo.

Non riusciva a respirare. Si alzò appena, dondolando quasi sui talloni, la testa che le girava, la stanza quasi impalpabile attorno a lei.

Aveva visto tanti cadaveri nella sua vita. Ma quando si tratta di persone che aveva vissuto, che hanno dato una forma alla vaghezza dei suoi giorni, che avevano accolto il suo essere così flebilmente attaccata alla vita, che le avevano fatto dimenticare il sentimento di essere uno spreco di pelle, di spazio, di aria.

Quelle persone che l’avevano fatta sentire parte di qualcosa di più caldo, più grande, più importante. Di una famiglia.

Il suo cuore continuava a implorarla di cercare di svegliarla, di prendere l’anziana stesa ai suoi piedi per le spalle, di non dirle addio, di non smettere di toccare la pelle ancora tiepida, di non smettere di cercare la sua voce rassicurante. Non voleva dire addio. Non voleva vedere l’unica persona che l’avesse amata disinteressatamente, che l’aveva accolta nella sua famiglia, morire per lei.

Soffocò un sospiro, una lacrima che cadeva solitaria lungo la guancia pallidissima. Si alzò appena, sentendo il pavimento del piano superiore scricchiolare. Il terrore, una sensazione quasi nuova in tutta la sua prepotenza, svaniva quasi nel tremore delle sue mani. Si diresse con pochi passi alle scale. Non aveva armi. Non aveva nessuna divisa da super eroe. I capelli chiarissimi stretti in una coda che dondolava silenziosamente ad ogni suo movimento, i passi ovattati contro il tappeto.

Cercò di usare la sua mente, quella sua preziosa alleata, quei poteri che le stavano facendo perdere la sua identità ma che allo stesso tempo la stavano ridefinendo. Ora li odiava.

Se non avesse mai deciso di impiegarli, se non avesse mai deciso di esporsi, ora Loretta sarebbe stata in piedi, a versare del The in grossi bicchieri colorati, facendo smorfie divertite alle sue affermazioni ciniche. Cercando di curarla dalla sua amarezza, dal suo rancore, dalla sua freddezza.

Era una giornata calda per essere maggio. Molto calda. Ma Elle sentiva solo il gelo scendere nelle sue ossa mentre saliva lentamente le scale.

Sentiva qualcuno rovistare nelle stanze al piano superiore. Lanciò un’occhiata oltre il corrimano del piano superiore, vedendo due figure nella stanza di Natasha, lanciare oggetti dappertutto.

Il carillon preferito dalla sua migliore amica giaceva sull’uscio della sua porta, completamente spaccato, gli ingranaggi mischiati con pezzi della piccola ballerina in porcellana.

Scostò appena il capo verso la sua stanza, dall’altra parte del corridoio. Un paio di piccoli occhi scuri la guardavano terrorizzati, il piccolo naso appena schiacciato contro lo spiraglio della porta.

River aveva un’espressione terribile. Quella che nessun bambino dovrebbe mai avere. Gli occhi erano arrossati, le labbra tremanti, le guance bagnate. Elle annuì appena con il capo. Doveva smettere di piangere su Loretta, e salvare la nipote. Sua figlia.

Allungò appena la mano verso la porta della stanza di Natasha, facendola chiudere con un tonfo rumoroso. I due uomini iniziarono subito a sbatterci contro, cercando di aprirla, mentre la svedese correva con lo scatto più veloce che i suoi muscoli indolenziti dal terrore le permettevano.

Si chiuse la porta della sua stanza alle spalle, appoggiandoci contro le spalle, scendendo appena con la schiena, sentendo le ginocchia molle. River scoppiò subito in un pianto disperato, mentre Elle cercava con una mano di farla stare in silenzio, passandole l’altra libera tra i riccioli ribelli. La bambina era scioccata, scossa da terribili tremiti. Elle sentì i due uomini arrivare con ampie falcate davanti alla loro porta, iniziando a colpirla con pesanti colpi.

Era stremata, le ossa ormai ghiacciate dal terrore, tutto quel potere che le avevano sempre attribuito sembrava improvvisamente sparito.

Allungò la mano verso la cassettiera, cercando con le poche energie che sentiva ancora dentro di sé di attirarla verso di sé. Ma non si mosse nulla.

Prese River in braccio, lasciando la porta e facendo due passi veloci verso il letto. Spinse la bambina sotto, mentre la porta veniva aperta con uno schiocco, sbattendo contro il muro. Elle rimase piegata a terra, osservando il viso della figlia contratto dal terrore. Iniziarono a tirarla per le gambe, mentre cercava di scalciare come un’animale selvatico. Piantò le unghie nel pavimento di legno, sentendole cedere con un dolore accecante. Fece per allungare la mano verso la gola di uno degli uomini, gli occhi che si scurivano appena, l’elettricità che le permeava i polpastrelli insanguinati. L’uomo mollò la presa sulle sue gambe, portandosi entrambe le mani al viso, emettendo respiri strozzati. L’altro afferrò la sua maglia, facendole sbattere la testa a terra, il controllo che per un secondo aveva sul suo potere perso in un lancinante dolore alla nuca ed al collo.

“Non dovresti essere così cattivella, Selvig.” La voce che sentiva sembrò arrivare da molto lontano. Un uomo, elegantemente vestito, le braccia appena conserte sopra un’elegante completo scuro, alzò un lato delle labbra sottili. “Ho aspettato per così a lungo questo momento, cara Elle.”

Un’altra figura emerse dalle scale in una nuvola rossastra. “Lasciatela stare, subito.”

I capelli scuri vorticavano intorno al viso, gli occhi vermigli sgranati, che saettavano tra l’uomo e l’altra. Elle emise un sospiro strozzato. “Wanda…”

L’altra non fece in tempo a rispondere. Un dardo volò nella sua direzione, colpendola direttamente al collo. Si portò una mano alla ferita, lentamente, mentre sul viso si dipingeva un’espressione sconcertata.

“Avevo ragione a pensare che la tua amica sarebbe corsa in tuo aiuto. Due piccioni con una fava…”

“Lasciatela stare.” Ringhiò Elle, digrignando i denti.

“Mi spiace dire che non è stato poi così difficile isolarvi. Il mio intelletto superiore…” Commentò l’uomo, con un sorriso così normale da risultare agghiacciante. “…Rende tutto così noioso. Prevedibile.”

Wanda cadde a terra con un tonfo, gli occhi ancora socchiusi, le labbra serrate in una smorfia di dolore. L’altro la colpì con un piede, come si fa con un oggetto trovato a terra. “Patetico.”

Si voltò di nuovo verso Elle, estraendo un altro di quei piccoli dardi avvelenati.Lo guardò quasi con affetto. “Tetrodossina.”

Si avvicinò lentamente alla ragazza bionda, mentre questa arretrava lentamente, seduta ai piedi del letto sfatto, gli occhi che saettavano tra l’amica e l’uomo.  “Basta una dose leggermente più alta di quella letale agli umani per rendervi così piacevolmente docili.”

Un calcio di uno dei due uomini di prima, quello che aveva cercato di soffocare, le fece mancare il fiato. Il capo, quello che aveva parlato, si piegò appena sulle gambe, conficcandole il dardo nel collo con un gesto veloce.

Lo spasmo arrivò quasi immediatamente, seguito da una sensazione di nausea, mentre tutto il suo corpo si tendeva con un dolore sordo, accecante. Sentiva una schiuma insapore uscirle dalle labbra serrate in una smorfia, mentre gli occhi si rovesciavano, incontrollabili.

L’uomo le sorrise appena, alzandosi. Si passò le mani sui pantaloni ben stirati, la piega ancora perfettamente inamidata, con sguardo soddisfatto.

“Prendetele ed andiamo.” Commentò solo.

 

xxx

 

Si avvicinò alla casa con una virata veloce. Wanda era sparita, e Visione aveva ammesso con semplicità che era andata a controllare se Elle fosse già partita. Non aveva saputo dirgli dove, però.

Una fila di macchine scure costeggiavano il marciapiede accanto alla vecchia casa di legno scuro, attirando la sua attenzione. L’armatura scintillava nel cielo mattutino di maggio, mentre si avvicinava appena.

Vide un’altra macchina rossa ferma, dall’altro lato della strada. Il suo casco segnava la presenza di due parametri vitali, di cui uno particolarmente curioso. Vide appena le altre sei persone ferme nelle auto davanti a casa della Svedese, mentre si avvicinava incuriosito.

Improvvisamente vide due uomini trascinare Elle per entrambe le spalle, i piedi della donna che strisciavano per terra sull’asfalto. Sembrava priva di sensi.

Mosse il capo tra l’amica e la macchina poco lontano, dove la figura dai parametri curiosi emetteva segni di agitazione. Vide un uomo scendere dal posto anteriore, un cappellino premuto sulla testa, i capelli castani appena alle spalle, e una maglia da baseball con solo una manica arrotolata al gomito. L’uomo era molto muscoloso, con un’apparenza quasi familiare per il miliardario.

Tony Stark vide appena l’altro uomo, quello vestito elegantemente, trascinare Wanda fuori dalla casa semplicemente tenendola da sotto un braccio, il corpo anormalmente rigido.

Improvvisamente l’uomo urlò qualcosa, avvicinandosi con passo veloce alle macchine, e uno scintillio metallico attirò la sua attenzione. Bucky Barnes correva verso di loro.

Non esitò un secondo. Sapeva cosa doveva fare.

Scese a terra con un tonfo metallico. Con tre passi, gli era addosso.

Sarebbe stato un piacere finalmente catturare il Soldato d’Inverno.

Per non parlare di quanto avrebbe fatto impazzire il Capitano perché gli restituisse il favore.

 

xxx

 

Un dolore accecante la fece svegliare, la pelle accapponata dal freddo gelido della stanza.

Era legata ad un letto, una serie di tubi che le uscivano dalle braccia, cavi attaccati a grossi monitor che non riusciva a mettere a fuoco, un grosso tubo vicino alla barella che sorreggeva diverse flebo.

Le girava la testa, impedendole di osservare qualcosa in quella stanza accecante senza provare una fortissima nausea. Un filo di bava le scendeva dalle labbra tumefatte, ma non riusciva a muovere le mani per asciugarsi il volto. Aveva gli occhi molto gonfi. I polsi erano trattenuti da pesanti legacci. Il freddo le entrava nella pelle attraverso la sottile camiciola da ospedale che le avevano messo, mentre era svenuta.

Un uomo entrò, un uomo familiare. Lo aveva già visto a Denali. Era Zemo. Ma dietro di lui, osservato dal primo arrivato con ammirazione, stava colui che l’aveva trafitta con il dardo.

“Bastardo…” Biascicò appena, vedendolo entrare, seguito da altri due uomini vestiti con completi militari neri. I due iniziarono a montare una pesante attrezzatura davanti al suo letto, mentre l’uomo le sorrideva, affabile. “Puoi chiamarmi Dottore.”

Elle iniziò ad agitarsi, cercando di divincolarsi dai legacci, sentendo ogni fibra del suo corpo tendersi dal dolore.

“Sei sotto una potente dose di Micotossine. Non morirai, e non dovrebbero causare danni permanenti…” Sorrise appena. “Ma la nausea dovrebbe impedirti di usare i tuoi poteri. O mi sbaglio?”

Elle lo guardò con odio, mentre l’uomo si avvicinava, accarezzandole con le dita pallide il braccio tartassato dai tubi. “No che non mi sbaglio.” Si rispose, sempre con tono affabile. Gli uomini si allontanarono appena da quella che sembrava una grossa telecamera, collegata ad un computer.

“Possiamo cominciare.” Commentò Zemo con voce decisa. Elle cercò di guardarsi attorno, mentre la spia verde si accendeva sul sistema di registrazione. “Il fascino della diretta.” Commentò appena il Dottore, sorridendo a tutti i presenti. Elle si agitò ancora. “Cosa vuoi da me, pazzo maniaco?!” Chiese, in preda al panico. “Dov’è Wanda?”

“Tua madre non avrebbe voluto che tu parlassi in questo modo, ma vedo che l’America ti ha insegnato a imprecare come uno scaricatore di porto, giovane Selvig.” Scosse appena il capo. “Annette sarebbe davvero delusa. La tua amica è ben sedata, non preoccuparti. Si sta facendo un… Un buon sonno ristoratore.”

Elle fece un verso isterico, continuando ad agitarsi tra i legacci, il viso pallido che scrutava attorno a sé, incapace di immaginare cosa le sarebbe successo. Doveva salvare Wanda. Doveva tornare a casa. River.

I polsi si macchiarono di sangue vermiglio, mentre continuava ad agitarli nei legacci, macchiando il lettino, il pavimento, il suo stesso abito. Il Dottore non fece un verso, osservandola con le sopracciglia corrugate e scuotendo le spalle. Si voltò verso la telecamera.

“Salve, Vendicatori. Sono un vostro vecchio ammiratore. Sono qui in pace, solo per raccontarvi una piccola storia. Non voglio che siate arrabbiati con me perché mi sono ripreso ciò che mi spetta di diritto.”

Elle scosse il capo, sentendo quelle parole e non riuscendo a trovarvi un senso. Vedeva la spia della telecamera accesa, immaginando i suoi amici, e soprattutto Steve, che osservavano quel video. Scosse il capo. “Non statelo a sentire!” Urlò appena. “Sto bene!”

L’uomo accanto a lei le tirò un colpò al viso, facendoglielo voltare dall’altro lato, un rivolo di sangue che colava dal labbro.

“Dominik…” Commentò seccato il Dottore, quasi guardandolo con rimprovero. “Non si trattano così le nostre giovani ospiti.” Estrasse una piccola pistola, mirando all’uomo e colpendolo dritto alla nuca. Elle emise un verso strozzato, vedendo l’uomo cadere a terra, gli occhi ancora sgranati in un’espressione di sorpresa. Il Dottore non sembrò farci caso, riponendo l’arma.

“Torniamo a noi.” Esclamò appena, sistemandosi i capelli scuri. Il viso, ora che Elle cercava di vederlo, era magro e pallido. Gli occhi erano verdi, acquosi. O forse era solo l’effetto delle droghe.

“Ho conosciuto Annette Selvig quasi trent’anni fa. Una donna fantastica, così piena di principi, di morale, di idee.” Sembrava quasi commosso dal suo racconto. “Eravamo in alto mare con il progetto di ingegneria genetica. Avevamo creato quasi una dozzina di soggetti errati, degli obbrobri della natura, davvero. Poi Annette è entrata nella nostra squadra, e ha progettato il soggetto supremo, quello che cercavamo da decenni. Non solo, ha utilizzato il suo stesso genoma, ma ha anche prelevato quello di un individuo altrettanto geniale.” Si voltò appena verso la ragazza. “Avevi le potenzialità per diventare una grande scienziata, Elle.” Rise della sua stessa battuta. “E’ uno spreco che tu ti sia data solo alla carriera militare, ma dopo tutto il lavoro fatto su di te e tutte le missioni alle quali hai adempiuto con successo, sarebbe stato strano il contrario. Ero davvero contrariato quando ci scivolasti tra le dita, dopo la morte di tua madre. La sua ultima azione fu un tradimento…” Scosse il capo, schioccando le labbra. “Un vero peccato.”

“Cosa…” Elle si sentiva sempre più confusa. “Cosa intendi?”

“Appena tu compisti sei anni, iniziasti il programma di allenamento degno della Red Room. Insieme con alcuni dei maggiori esperti del settore. L’Hydra si è presa molto a cuore la tua…” Sogghignò, cercando la parola giusta. “Istruzione.”

Elle ruggì di rabbia. “Tu menti!” Commentò, una vena di disperazione nella voce. Non voleva che i suoi amici la vedessero così, non voleva che sentissero quella storia, vera o falsa che fosse. Ma dentro di sé, sentiva che qualcosa quadrava, qualcosa in quel racconto stava riempiendo anni di ricordi frammentari e persi.

“Come pensi di essere sempre stata una così elegante combattente? Come pensi di aver imparato quell’istinto innato che ci rende l’ultimo livello della catena evolutiva? Tu sei un nuovo passo nell’evoluzione.”

Estrasse una foto, spiegazzata e vecchia. Una bambina, minuscola e spaventata, sedeva su una grossa sedia, dei magneti stretti alle orbite e un morso di cuoio fra i denti. La calligrafia di sua madre recitava, in modo telegrafico ma quasi ridicolo, come se stesse descrivendo la scena di un compleanno, Elle, otto anni.

“Sei stata programmata, ma tua madre ottenne di essere la sola a conoscere il codice. A tredici anni eri pronta, pronta per entrare in azione, sulla grande scacchiera geopolitica del mondo, per noi. Per l’Hydra.”

Elle scosse ancora il capo, lacrime brucianti che le scendevano sul viso ormai cereo, il sangue ormai secco che riprendeva colore a causa di quelle gocce salate.

“Ti abbiamo assegnato ad uno dei nostri migliori agenti, finché lo stesso, in un rimasuglio di umanità, non pensò che eri troppo piccola, troppo giovane per uccidere a mente fredda chiunque noi ti ordinassimo di eliminare. Fu riprogrammato, in modo che queste idee non potessero tornare di nuovo.

 Tua madre procedeva ad eliminarti la memoria, continuando a farti uscire e rientrare dal tuo stato di soldato e facendoti tornare una normale ragazzina. Per fortuna, tuo padre se ne andò in tempo per permetterci di sfruttare il tuo talento per anni, senza mai nutrire sospetti… Non si è mai nemmeno avvicinato alla verità.”

La Svedese sentiva un gelo attanagliarle il busto, i polmoni, il cuore. Sentiva con assoluta precisione i suoi denti che stridevano tra loro. I polsi doloranti. Le mani insanguinate e appiccicose. Stava per collassare. Non aveva il coraggio di guardare verso gli uomini, o verso la telecamera di fronte a lei. I capelli erano appiccicati al viso sudato. Sentiva la gola riarsa, la vista che andava e tornava a scatti.

“Abbiamo rischiato di perderti a causa del Soldato. Avevi solo quindici anni quando siete scappati insieme. Ma dubito che tu possa ricordare.” L’uomo scosse il capo, quasi un padre annoiato dal ricordo dei capricci di una figlia adolescente.

 

Elle ricordava. Un uomo con una motocicletta. Ricordava la sensazione di libertà, lo zaino sulla schiena. Ricordava la presa ferrea contro la schiena di qualcuno, mentre la madre scendeva sulla strada, avvolta nel cappotto, urlandole di tornare subito in casa. Ricordava il freddo, la neve che cadeva nella grigia periferia di Uppsala, le strade vuote, il calore di qualcun altro mentre la stringeva premurosamente sotto il suo stesso cappotto, un profumo maschile, un ciuffo di capelli scuri fra le sue dita mente una voce bassa le diceva cose che lei non poteva sentire, a parte Penso che siamo condannati.. Lo sguardo dolce, spento, gli occhi grigi che la scrutavano con angoscia.  

 

Non poteva credere alle parole dell’uomo. Anche se i suoi ricordi continuavano a vorticarle intorno, facendo le fusa al suono di quel racconto, confermandolo con silenziosa vergogna. Elle scosse il capo, terrorizzata, mentre strizzava gli occhi per far smettere quel filmato che girava in loop entro le sue palpebre serrate.

Cosa avrebbe pensato Steve? Sapendo che lei sapeva di James. Sapendo che lei sapeva di James molto più di lui, forse. Sapendo che erano fuggiti insieme. Sapendo che lei era un’agente dell’Hydra, la stessa organizzazione che aveva minacciato tutto ciò in cui credeva. Avrebbe pensato che lo aveva tradito? Avrebbe considerato tutto il suo lavoro una montatura?

“TI prego…” Biascicò appena, le labbra ormai pallide come la sua camicia ospedaliera candida. “Smettila.”

“Iniziamo a ricordare qualcosa, giovane Elle?” Sorrise appena il Dottore, avvicinandosi al suo viso con occhi curiosi. Elle scosse il capo, tremante.

“Quando tua madre decedette che era ora di smetterla con le missioni, eri ormai uno dei nostri migliori agenti sul campo. Non potevamo permetterglielo, capisci?”

Elle alzò appena il capo, cercando di trattenere una lacrima bollente, le braccia tese che le dolevano nei punti dove gli aghi perforavano la pelle e raggiungevano le sottili vene blu. Non voleva pensare…

“Bastò una dose poco più massiccia di radiazioni in laboratorio per costringerla nel suo sudario eterno. Ma…” Il Dottore schioccò le labbra in segno di disapprovazione. “Annette aveva cambiato il codice. Fu il suo ultimo, unico regalo per te.”

 

La madre, pallida e scheletrica, senza più nessuno dei suoi bellissimi capelli color platino, le labbra sottili strette in un sorriso dolorante. Elle, seduta al suo fianco, gli occhi ancora grandi e ingenui, che non lasciavano la punta dei suoi stivali alla caviglia, una grossa felpa nera dei Led Zeppelin, i capelli chiari stretti in una coda severa. Strusciava la mano libera, sudata, sui jeans strappati alle ginocchia.

La madre le sorrideva appena, gli occhi che cercavano quasi di rassicurarla, un braccio sottile che usciva da sotto le pesanti coperte, le mani strette in una piccola preghiera. Entrambe si scambiarono uno sguardo timido, prima di ritornare a fissare fuori dallampia finestra, la pioggia che bagnava i tetti della città.

 

“Ora che sai qualcosa, ora che i tuoi colleghi sanno chi sei, finalmente smetteranno di volerti nella loro cricca, e ci lasceranno in pace, figliola.” Commentò lui, sorridendo alla telecamera. “Ci lasceranno cercare di ripristinare questo legame a lungo dimenticato.” Elle emise un sospiro strozzato, cercando di liberarsi ancora, ed ancora. Agitò le gambe, cercando di fare leva per alzarsi. Zemo si avvicinò appena alla barella, ticchettando contro una delle flebo appese sopra di lei.

“Ora, Elle…” Il Dottore estrasse una piccola moneta dalla tasca. “Vorrei che tu sollevassi questa. Per me.”

Scosse il capo, i capelli ormai liberi e sparsi sul suo viso. Continuò a cercare di liberarsi, piantando le unghie nei pesanti legacci, le spalle scosse dalla nausea.

Una mano si avventò sul suo viso, afferrandole i capelli, tirando verso l’alto, costringendola ad alzare il mento in uno scatto doloroso.

LasciamiSubitoAndare…” Commentò appena, stringendo gli occhi in due fessure. Zemo sorrise appena, guardandola. “Perché, cosa pensi di poter fare?”

La moneta scattò dalla mano del dottore, schizzando nell’aria, invisibile. Trafisse il primo uomo nell’occhio, trapassandogli il cranio, mentre gocce rosse macchiavano l’aria. Passò attraverso la stanza, premendo nel petto del secondo uomo, all’altezza del cuore. Il terzo fu attraversato da un’orbita all’altra, una smorfia orribile che distorceva i lineamenti del viso. Elle urlò spaventata, mentre la moneta cadeva a terra, in una pozza di sangue. Zemo la guardò appena, mentre il Dottore sorrideva.

“Elle, Elle..” Scosse il capo. “Non era il caso di fare tutto questo caos.”

Si avvicinò alla giovane, colpendola con un manrovescio al viso.

“Ora devo farti capire che succede se non fai la brava ragazza.”

Si avvicinò ad un piccolo tavolo, sollevando un piccolo interruttore. Premette uno dei pulsanti, senza tradire uno sbuffo quasi divertito. Elle fece appena in tempo a sputare il grumo di sangue, prima che la scossa trafiggesse tutta la sua spina dorsale, le sue ossa. Costringendola ad inarcare la schiena, un urlo agghiacciante che le usciva dalla gola, con una voce quasi non sua. Tremava, l’elettricità che ancora contorceva il suo corpo, gli spasmi involontari che la facevano mugolare dal dolore, la gola ormai secca dalle sue urla. Potevano essere passati una decina di secondi, così come un intero quarto d’ora. I suoi pensieri erano sconnessi. Il suo corpo completamente avvolto dal dolore.

Doveva andarsene, correre, nascondersi. I suoi occhi fissavano il vuoto, mentre sentiva di perdere conoscenza, sparendo nel nulla del dolore.


 xxx


Steve emise un respiro strozzato.

Se fosse stato una persona diversa, sarebbe svenuto, avrebbe distolto lo sguardo, impedendosi di vedere quello spettacolo.

La pelle candida che la notte prima aveva accarezzato all’infinito, aveva baciato fino a farsi seccare le labbra, gli occhi che lo avevano guardato con amore, mentre si chiudevano lentamente, appagati e stanchi. La bocca che aveva cercato ancora, ed ancora, durante quelle poche ore che gli erano state concesse.

Elle era immobile, la pelle coperta di lividi e di sangue. Nello schermo, nitida e senza nessun filtro, la sua immagine non dava segni di respiro. Dopo le contorsioni, dopo i ricordi estratti a forza, dopo le urla. Era rimasto fino alla fine, al buio, a fissare quelle immagini raccapriccianti. Natasha, accanto a lui, si era portata le mani alle labbra, gli occhi improvvisamente arrossati. Erano tutti immobili. Stark aveva gli occhi totalmente sgranati. Sam aveva le labbra aperte in un’espressione confusa, scioccata. Maria era vicina al collasso, la bocca che tremava, la testa che continuava a voltarsi tra lui, gli altri e lo schermo. Come se non credesse che davvero tutti avessero appena visto lo stesso, sadico spettacolo. L’unica persona che avrebbe saputo attirare di nuovo la loro attenzione, l’unica che avrebbe emesso un verdetto d’azione e li avrebbe spinti fuori, a cercare di fermare quell’ecatombe, era dall’altra parte del vetro freddo.

Nessuno osava emettere un fiato.

La connessione si interruppe, lasciandoli nel buio della stanza. Senza emettere un suono, Steve si allontanò appena dal tavolo, alzandosi in piedi. Avanzò verso la porta, senza degnare di attenzione la voce spezzata di Stark che lo richiamava indietro.

 

 

 

 

 

   
 
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